Era l’anno delle acque cattive, quel 1951, con un cielo ostile sempre gonfio di pioggia, che per mesi e mesi si abbatte in particolare sull’Italia centro-settentrionale, ma non risparmia nemmeno il sud e le isole: a ottobre, per inondazioni e frane muoiono, tra Calabria, Sicilia e Sardegna, 90 persone. Disastri naturali che sono un triste presagio all’alluvione del Polesine.
Perché il peggio deve ancora arrivare
Chi ha visto il film “Il ritorno di don Camillo”, uscito nel 1953, ricorderà le drammatiche immagini dell’inondazione del paese di Brescello, con Don Camillo che, immerso in acqua fino alla vita in una chiesa devastata, conforta i suoi concittadini assiepati in cima a un argine.
Forse non tutti sanno che le immagini del paese allagato sono reali, riprese durante la grande inondazione del Polesine del 1951, che colpisce prima anche altri territori, compresa la bassa reggiana (limitrofa al Po), luogo di ambientazione del film.

Dall’inizio di novembre piove ininterrottamente per due settimane lungo tutto il corso del Po, da monte a valle. Una circostanza anomala che ingrossa il fiume, alimentato a dismisura anche dagli affluenti che – altra circostanza difficile a verificarsi – sia dal versante alpino sia da quello appenninico entrano tutti nel letto principale con un’onda di piena, mentre un infausto vento di scirocco rallenta il deflusso dell’acqua in mare.

Il grande fiume lascia indenne la zona del mantovano, dove si corre precipitosamente ai ripari con opere di contenimento, ma tra l’11 e il 12 novembre rompe in territorio emiliano, dove allaga campi coltivati e paesi. Mostra tutta la sua forza distruttiva in Veneto, quando attraversa la provincia di Rovigo.
All’alba del 14 novembre il Po sfiora il colmo di piena nell’Alto Polesine, terra fitta di canali di bonifica ma comunque sempre in lotta con l’acqua e la subsidenza. Oltretutto, la seconda guerra mondiale è finita da pochi anni e il territorio ancora ne risente, con i canali e gli argini che non hanno ricevuto l’adeguata manutenzione.

Mentre in alcuni paesi gli abitanti cercano disperatamente e con pochi mezzi di rialzare gli argini, in altri più a valle, dove era arrivata la falsa notizia di una rottura a monte, la disperazione e lo scoraggiamento non lasciano spazio a iniziative che, probabilmente, non sarebbero comunque servite a niente.
Il Po inizia a tracimare già in mattinata, ma è intorno alle 8 di sera che rompe in tre punti, quasi contemporaneamente, nei comuni di Canaro e Occhiobello. Una massa d’acqua di portata inimmaginabile si rovescia su campi, paesi, strade e travolge ogni cosa, con la forza dei suoi 7.000 metri cubi al secondo (una stima approssimativa ovviamente) e un volume corrispondente circa a due terzi della portata fluente. A peggiorare la situazione ci sono due ostacoli trasversali, la Fossa Polesella e il Canale di Valle, che impediscono il flusso dell’acqua, provocando un’onda di ritorno a monte, ampliando così, all’incirca del 40%, la superficie di territorio inondato e allungando al tempo stesso il tempo di deflusso dell’acqua.
Ed è proprio su come ovviare a questi ostacoli che nascono le prime controversie fra le varie autorità, che provocano ulteriori problemi alla tragedia già in atto: l’ingegnere capo del Genio Civile di Rovigo capisce che occorre fare breccia al più presto possibile sul primo ostacolo, la Fossa Polesella, un canale navigabile, consentendo così il deflusso della piena verso il mare.
E’ di parere contrario il prefetto di Rovigo, che si è insediato da pochi giorni in città e non conosce nulla della realtà della regione né, probabilmente, ha competenze tecniche in campo idrografico. Eppure si oppone e trova, tra l’altro, il sostegno di alcuni sindaci dei paesi limitrofi al canale, al di là della piena, convinti che quegli argini avrebbero impedito l’inondazione nella loro area. Ma la loro previsione si rivela del tutto infondata, e così molti piccoli centri che avrebbero potuto uscire indenni dalla catastrofe vengono colpiti in pieno.

Nella notte tra il 17 e il 18 novembre del 1951 la furia dell’acqua minaccia Rovigo, dove erano stati accolti molti sfollati dalle campagne, e a mezzanotte arriva l’ordine di evacuare la città: “Si ordina a tutti i cittadini di abbandonare immediatamente la città con tutti i mezzi a disposizione, anche a piedi”. Rovigo però resiste, mentre quella stessa notte Adria, una città che all’epoca contava 35.000 abitanti, viene completamente allagata dall’acqua della Fossa Polesella, e si ritrova totalmente isolata, senza possibilità di ricevere soccorso. Il Gazzettino scrive che gli Adriesi stessi “organizzarono delle cordate a nuoto in mezzo ai vortici, qualche coraggioso si avventurò, assicurato con corde, nel salvataggio di alcuni uomini, di molte donne e bambini. Furono concentrati al Teatro Sociale. In un teatro non ci sono viveri. Neppure in tutte le case ci sono viveri”.
Nella corsa verso il mare, l’acqua trova il secondo ostacolo trasversale: anche in questo caso la piena ritorna a monte, addirittura inverte la corrente di due canali di bonifica, ma prima che possa arrivare a Rovigo e poi invadere la strada statale i genieri fanno saltare gli argini. Ma la furia del Po ancora non si placa: prima di superare le dune costiere e gli argini a mare, l’acqua torna a monte e inonda altri tre paesi.
Insomma, un’apocalisse che si verifica in un contesto particolare, in anni nei quali la lotta politica – con la Democrazia Cristiana al governo e il Partito Comunista all’opposizione – era asprissima e rifletteva la contrapposizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Contrapposizione che riguarda anche il luogo del disastro, dove in molti comuni governano giunte di sinistra che si scontrano con le autorità governative, come Prefettura, Genio Civile e Provincia.

Anche in questa tragedia (e purtroppo da allora non è cambiato nulla) ogni fazione politica addossa responsabilità all’altra, tra accuse di inerzia, ritardi e sciacallaggio, e poi liti sulla gestione degli aiuti, arrivati da tutto il resto d’Italia e da moltissimi paesi esteri. Lo scenario della catastrofe avrebbe invece meritato ben altro atteggiamento: alla conta finale ci sono 180.000 persone tra sfollati e quelli rimasti senza una casa, un centinaio di morti, 1.130 chilometri quadrati di terreni agricoli allagati, migliaia di animali morti, strade e ponti distrutti, aziende in ginocchio e 20.000 tonnellate di prodotti alimentari persi.


Dire che il Polesine, in quell’anno di acque cattive, viene messo in ginocchio è un eufemismo: la chiusura dei punti di rotta degli argini inizia solo 15 giorni dopo l’evento tragico, quando la corrente finalmente diminuisce e le barche possono iniziare a navigare.
Delle 180.000 persone sfollate, ben 80.000 decidono di non fare ritorno nella propria terra, e scelgono la strada dell’emigrazione, sia in altre regioni d’Italia sia all’estero. L’area del Polesine ha faticato molto a riprendersi da quell’abbandono, e il numero di abitanti della provincia di Rovigo non è mai più tornato ai livelli del 1951. E tuttavia bisogna citare l’immane lavoro di bonifica delle terre alluvionate – grazie anche ai numerosi consorzi di bonifica – che già nell’estate successiva, almeno nella gran parte, possono essere nuovamente seminate.

Anche gli aiuti, sotto forma di soldi, indumenti, generi alimentari e persino sigarette, non tardano ad arrivare da tutta Italia e dal mondo intero. Stati Uniti e Unione Sovietica inviano aiuti con ben scritto sui camion il paese di provenienza, a dimostrazione di quanto fosse alta la contrapposizione tra le varie forze politiche.

In questo contesto catastrofico, la vera nota positiva è rappresentata dalla solidarietà immediata arrivata tramite organizzazioni politiche e sindacali, associazioni e soprattutto dalla gente comune: molti sfollati vengono ospitati, in diverse regioni d’Italia, da privati che li accolgono in casa propria, e in molti casi li aiutano a ricostruirsi una vita nella città adottiva.
La gente comune e le associazione del territorio, come spesso succede, si dimostrano migliori delle forze politiche che governano il Paese. Don Camillo e Peppone insegnano: la rivalità va bene quando c’è il sole, ma quando i giorni si fanno bui e c’è da rimboccarsi le maniche occorre farlo tutti insieme.

Questa è la lezione che, dopo tante tragedie, dovremmo avere imparato, e noi che stiamo vivendo da vicino la catastrofe che ha colpito la Romagna in questi giorni ce lo auguriamo di tutto cuore, nonostante la dolorosa storia delle calamità naturali racconti altro: ancora nel 1977, a ben 27 anni di distanza, alcuni alluvionati del Polesine si rivolgono al Ministero degli Interni perché a loro non è arrivata alcuna forma di risarcimento che, purtroppo, non riceveranno mai…