“Al centro di questo possente continente è appeso un velo che i più intraprendenti potrebbero essere orgogliosi di alzare. Il percorso, oserei dire, è pieno di difficoltà e di pericoli; e molto sarà dovuto a chi lo calcherà per primo” (John Eyre)
Mentre in Europa prendeva avvio la Rivoluzione Francese, dall’altra parte del mondo, gli inglesi, sotto la spinta dell’eroe nazionale James Cook, l’occupatore di Botany Bay (la baia di Sidney) e dei suoi colleghi navigatori, iniziavano a disvelare una delle terre più estreme che avessero mai visto.

“Sul New South Wales l’Inghilterra avanza la pretesa, che un tacito consenso tra gli Stati europei ha generalmente reso determinante, della scoperta preventiva”: questa era la coscienza che si aveva nel 1789. Da più di un secolo si costeggiava questa terra australe: dal North West Cape a Shark Bay alla Grande Baia Australiana.

All’esplorazione litoranea seguì, presto, la colonizzazione vera e propria, partita con la fondazione di Sidney, nel 1788-89. I coloni non persero tempo, cominciarono subito a disboscare, costruire, coltivare e pascolare. Non senza difficoltà, la colonia cresceva e s’ampliava, tanto che presto si rese necessario spingersi più a ovest, per occupare nuove terre e far fronte alla siccità e alla mancanza d’acqua, cause di gravi crisi di sostentamento e della moria di bestiame.

Nel 1813 Gregory Blaxland, la cui spedizione alla volta delle Blue Mountains “ha cambiato l’aspetto della colonia, da un tratto di terra isolato e confinato in un continente ricco ed esteso”, passerà i pascoli che circondavano la cittadina, intraprenderà uno squallido percorso attraverso miseri tappeti arbustivi con pochi alberi di medie dimensioni e un sentiero intricato, racchiuso tra due profonde gole rocciose, arrivando, poi, a un vastissimo pantano.

Non dovette attendere a lungo prima di iniziare a provare alcune delle privazioni cui saranno afflitti gli esploratori che si avventureranno, dopo di lui. Per i pasti si dovevano accontentare di ciò che trovavano: la carcassa di un canguro appena ucciso da un’aquila, ad esempio. Deviare dal percorso poteva esporre alla caduta da un precipizio. Per non perdersi incidevano la corteccia degli alberi. La pace della notte era interrotta dal richiamo dell’emù, che lasciava, poi, il posto all’alba segnata dal “tremendo ululato” dei dingo.

“Un’invalicabile barriera rocciosa“, poi “sabbia e piccoli cespugli di arbusti”, ma anche corsi d’acqua e importanti estensioni boschive: questa era la deludente regione che avevano attraversato. Nonostante tutto, la spedizione poté definirsi un successo, tanto che il Governatore ordinerà una nuova missione di rilevamento, affidata all’Assistent Land Surveyors, George Evans, che definirà il terreno al di là delle Blue Mountains “bello e fertile”, con “colline e vallate” e “vari corsi d’acqua e catene di stagni”, migliore della Tasmania e del Nuovo Galles del Sud. Lì, la colonia avrebbe potuto finalmente espandersi.

Nel 1817, John Oxley, su mandato del Governatore, dovrà farsi carico dell’esplorazione della successiva porzione di territorio da colonizzare. A ovest di Sidney erano sorti altri insediamenti. A Bathurst si costruivano case, si recintavano i terreni, si spogliava l’area circostante dal manto boschivo per far spazio ai pascoli. Gli indigeni cominciavano a intrattenere contatti con le colonie e a usare qualche parola inglese; ormai non scappavano più, anzi si “avvicinavano spavaldamente”.

L’interno si prospettava pianeggiante, povero di vegetazione, con qualche rigagnolo e pozza d’acqua, che d’estate tendevano a prosciugarsi. Un paesaggio arido e secco, spezzato solo da alcune colline, che “sorgevano come isole dall’Oceano“. Alle zone aride puntellate dalle tracce dei fuochi accesi dagli erranti abitanti, se ne alternavano di paludose. La poca acqua trovata era malsana e doveva essere bollita almeno due volte. Emù e canguri pareva non abitassero più quelle lande. La sabbia, di un tenue rossastro, sollevata dal vento per martoriare gli occhi degli esploratori, le sterpaglie e qualche misero cipresso, unite alle notti gelide e alle giornate torride, dovevano dare l’idea di un inferno, abbandonato “come sembra da ogni essere vivente capace di uscirne”, e attraversato solo da spettri, che si fermavano qua e là per ritemprarsi e raccontare qualche storia attorno a un fuoco.
“E’ impossibile immaginare una regione più desolata; e l’incertezza in cui ci troviamo, mentre l’attraversiamo, di trovare l’acqua, si aggiunge ai sentimenti malinconici che il silenzio e la solitudine di tali desolazioni tendono a suscitare” (John Oxley)

Lo sconsolato Oxley tirerà un sospiro di sollievo quando giungerà a una pianura “sconfinata come l’oceano, senza che apparisse né eminenza né collinetta”, vicina ai laghi situati presso il fiume Lachlan, abitata da cigni neri e piccoli volatili, che si nascondevano tra fitti grovigli di eucalipti.

Ma le cose, si sa, possono cambiare rapidamente: “un odore acre e putrido sembrava provenire dalle pianure… [che] il signor Cunningam scoprì provenire da piante in decomposizione delle salsolae, che producono lo stesso effetto dell’alga maina decomposta nelle paludi salmastre”; la nebbia che aleggiava sopra le pianure dava un aspetto spettrale all’ambiente. E come se non bastasse, la compagnia fu colpita a tremendi attacchi di dissenteria. Non restava che ritirarsi.

Le prime esperienze svelarono, dunque, un paesaggio variegato, talvolta favorevole, ma spesso avverso all’avanzata della “civiltà”. Bisognava risolvere il problema dell’approvvigionamento, rispetto al quale si ragionerà nel seguente modo:
“la grande difficoltà di esaminare l’interno dell’Australia è quella di trasportare rifornimenti; perché aumentare il numero degli individui che compongono una spedizione non serve a nulla, in quanto un numero aggiuntivo di uomini deve necessariamente aumentare il consumo di cibo. Per far fronte a questa difficoltà è stato proposto di istituire depositi su cui una spedizione potesse ripiegare” (Sturt, 1829)

Intanto, gli anni passavano, si esploravano i sistemi fluviali; Hume parteciperà alla scoperta del Murrey e del Darling; nascevano altre città (Melburne, Perth, Adelaide). Si assumevano guide, si raccoglievano informazioni sull’interno interrogando indigeni o fuggiaschi, che sfuggivano alla polizia travestendosi da nativi, vivendo al loro modo, girovagando con le tribù, parlando la loro lingua, solo per avvicinarsi, senza destare troppi sospetti, alle abitazioni coloniali e derubare i conterranei. Così fece, ad esempio, George Clarke, prima di essere catturato. Il suo racconto ispirerà il viaggio di Mitchell, nel 1831.

Le informazioni e gli avvertimenti erano, tuttavia, spesso erronei o esagerati, come attesterà un tronfio Sturt, che avrà più da lamentarsi dell’evaporazione dell’acqua a causa delle alte temperature.
“Dissero che non saremmo stati in grado di attraversare le catene montuose, poiché erano ricoperte di pietre appuntite e grandi rocce, che sarebbero cadute e ci avrebbero schiacciati a morte; ma che se li avessimo attraversati fino alla pianura dall’altra parte, il caldo ci avrebbe ucciso tutti. Che non dovremmo trovare né acqua né erba, né legna con cui accendere il fuoco. Che i pozzi indigeni erano molto profondi e che il bestiame non sarebbe stato in grado di abbeverarsi; e, infine, che l’acqua era salata”

Si arriva, così, al 1840.
“l’attenzione del pubblico ad Adelaide (era) considerevolmente assorbita dall’argomento di una comunicazione via terra tra l’Australia meridionale e occidentale… in vista dell’estensione dei loro interessi pastorali”

La natura dell’ovest era però troppo selvaggia, troppo estrema per il bestiame, che sarebbe andato incontro a un’inesorabile fine. Molto meglio, secondo Eyre, puntare al più promettente Nord. A ovest, in fondo, c’era il deserto Victoria, con le sue dune alte più di trenta metri sormontate, tal volta, da qualche solitario alberello, che celava serpenti e grossi scorpioni.
“Il cambiamento è stato così grande, il contrasto così sorprendente. Dal salotto affollato della vita civile, in poche ore ero passato alla solitudine e al silenzio delle terre selvagge, e dall’essere una sola unità nella massa di una grande comunità, mi ero improvvisamente isolato rispetto al mondo”

Queste erano le sensazioni di Eyre dopo la partenza da Adelaide e questo era ciò che si provava quando si lasciava la propria casa alla volta dell’ignoto, carichi di boria e pesanti aspettative, per “piantare quella bandiera che ha fluttuato fieramente in tutte le parti conosciute del globo abitabile”

Eyre si accingeva ad attraversare una zona rocciosa e desertica, un territorio duro anche per i nativi, in continuo movimento, che non potevano permettersi di stare troppo a lungo in un luogo senz’acqua. Se non ce la facevi restavi indietro: “scoprii un povero indigeno emaciato, completamente solo, senza cibo né fuoco, ed evidentemente lasciato dalla sua tribù a perire lì; era un uomo molto anziano, e per le difficoltà e la miseria era ridotto a un semplice scheletro, non avevo modo di accertare da quanto tempo fosse stato nel luogo in cui l’abbiamo trovato, ma probabilmente per un po’ di tempo, poiché la sua vita sembrava star velocemente svanendo; pareva quasi inconsapevole della nostra presenza e ci fissava con uno sguardo vacuo”. Approccio che anche gli europei dovranno utilizzare: Willis verrà lasciato indietro, moribondo, mentre i suoi compagni andranno in cerca di aiuto; Gibson, lascerà indietro Giles per raggiungere il gruppo principale, ma si perderà nel deserto che prenderà il suo nome, senza mai essere ritrovato.

Ogni tanto si trovavano delle fertili vallate, come la Valle della Luce, boscosa, erbosa e ricca d’acqua: “uno scenario ricco e pittoresco”. Ma, per lo più, il territorio era riarso. Il lago Torrens asciutto e ricoperto da uno spesso strato di sale, “che formava un unico foglio ininterrotto di bianco puro e scintillava brillantemente al sole”; la regione presso il Mount Eyre “sembrava costituita da un basso terreno sabbioso senza alberi né arbusti, a parte qualche cespuglio rachitico”. I Monti Flinders erano privi di vegetazione “eccetto erba spinosa”.
“Sventato nella speranza di raggiungere l’acqua, rimasi a guardare la tetra prospettiva davanti a me con sentimenti di dispiacere e tristezza… In un paese del genere, che sistemazione potrei aspettarmi, o quali speranze potrei nutrire per il futuro, quando la stessa acqua versata dalle nuvole non sarebbe stata potabile dopo essere rimasta qualche ora a terra? In qualunque modo mi volgessi, a ovest, a est o a nord, la mia vista non incontrava altro che difficoltà”

Un forte stato d’ansia affliggeva l’esploratore ormai, fisicamente e mentalmente, sfiancato, che s’affannava per cercare di superare il Torrens, oltre il quale si vedeva solo deserto, distese di sale, pietre, sabbia e salsolae, mentre le mosche e la polvere, che accecava i suoi occhi, non davano un attimo di tregua. Ma, più terra si disvelava, più cresceva la curiosità di addentrarvisi maggiormente.

Negli insediamenti si discuteva su come avrebbe potuto essere il carattere dell’interno, e una teoria iniziò a far discutere più delle altre: quella del mare interno, proposta da Charles Sturt.

Era il 1844, quando l’esploratore tentò di raggiungere il centro del continente, partendo da Adelaide. Oltre il Mount Poole troveranno letti asciutti e “colline dalla cima piatta… Alcune erano del tutto staccate dal gruppo principale… e il loro aspetto nel complesso somigliava così tanto a molte delle isole piatte intorno al continente australiano descritte da altri viaggiatori”. Piane sabbiose, dune e spinifex, poi “mare tenebroso di arbusti”, ma niente acqua, né dolce né salata. Del mare non c’era traccia: pareva che il Paese l’avesse inghiottito.

Stanchi e deperiti ciondolavano nel deserto, con le gambe coperte di spine e afflitti da violenti mal di testa, dovuti alla disidratazione; addirittura scambiati per prede da famelici rapaci, che dall’alto li puntavano, per poi discendere rapidi, accerchiandoli e minacciandoli con i loro temibili artigli.
“Il mio compagno involontariamente emise un’esclamazione di stupore quando lo guardò per la prima volta. “Santo cielo”, disse, “un uomo ha mai visto un paese simile!?”

Il rosso deserto sabbioso con le sue solitarie colline e la vegetazione composta solo da arbusti rinsecchiti non invogliavano l’esploratore a proseguire. Così tornò indietro, senza aver raggiunto il centro del continente. E le spedizioni partite dalla costa occidentale, da Perth, non erano molto incoraggianti. Augustus Gregory sconsiglierà di proseguire verso est, dove il deserto e turbini di sabbia sollevati dal vento frustravano ogni speranza di trovare acqua e addentrarsi abbastanza.

Persino il nord del Paese si mostrerà non proprio una terra promessa, con le sue pianure argillose e sabbiose, i formicai alti quasi cinque metri e i famelici alligatori. Così, più ci si spingeva verso il cuore dell’Australia, più i tenaci animi degli esploratori venivano messi a dura prova, da un Paese molto diverso dal regno traboccante di spezie che era la Terra Australis immaginata dagli europei due secoli prima.