E’ il 22 novembre 1963, un venerdì mattina importante a Dallas: il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, è in città. La folla si accalca per seguire il passaggio del corteo. La limousine presidenziale, una Lincoln Continental del ’61, è entrata a Dealey Plaza, un parco del centro, sede della prima casa, il cosiddetto “luogo di nascita di Dallas”. Il Presidente e la First Lady Jacqueline Kennedy stanno apprezzando l’acclamazione della folla. “Signor Presidente, non puoi dire che Dallas non ti ami!” dice Nellie Connally, la First Lady del Texas. “No, di certo non puoi“, risponde il festeggiato, quando un colpo di Carcano Modello 38 (detto anche Mannlicher-Carcano) colpisce in piena testa il primo cittadino americano.
Iniziano gli anni Sessanta
Sono appena iniziati gli anni ’60. Il mondo è in piena Guerra Fredda, diviso tra due nazioni contrapposte, USA e URSS, rappresentanti dei mondi a modello capitalista e comunista. Le colonie dei vecchi imperi stanno puntando alla decolonizzazione: vogliono l’indipendenza; mentre le due super-potenze si contendono l’influenza sui nuovi governi. I grandi continuano a sviluppare le armi atomiche; ciononostante l’Orologio dell’Apocalisse viene spostato indietro di cinque minuti. I capi di Stato vogliono evitare una guerra nucleare, ma non rinunciano a mostrare i muscoli. Gli USA sono impegnati nella Guerra del Vietnam, un campo in cui dimostrare la propria forza e in cui avrebbero potuto infliggere un danno, soprattutto d’immagine, all’odiato comunismo.

Eisenhower guida la crescita degli States. I sovietici hanno già inviato lo Sputnik 1, il primo satellite artificiale, a orbitare intorno alla Terra: è iniziata la corsa allo spazio e l’America non ha intenzione di perderla. Le Hawaii sono diventate il cinquantesimo Stato. A Hollywood si inaugura la Walk of Fame. Sono gli anni di Alfred Hitchcock e Marilyn Monroe; gli anni dei consumi, delle automobili di Detroit; gli anni della Cadillac Eldorado, della Corvette e della Falcon. Si costruiscono autostrade. Hanno grande successo i drive-in e i fast-food. Elvis is back!, juke-box e flipper. Ma è un periodo di grandi disparità sociali e un radicato razzismo.
John Fitzgerald Kennedy
Gli Stati Uniti sono entrati in guerra da poco più di un mese. E’ il 29 maggio del 1917: in una cittadina del Massachusetts, a Brookline, è appena venuto al mondo colui che, un giorno, prenderà le redini della nazione più potente del pianeta. Figlio di una famiglia altolocata, si iscrive all’Università di Harvard e segue il padre a Londra, impiegato come ambasciatore statunitense, in quell’Europa che si appresta a coinvolgere il mondo in un secondo devastante conflitto mondiale. Il giovane rampollo si interessa fin da subito alla politica internazionale e scrive una tesi sull’inerzia britannica alla vigilia della Guerra, poi pubblicata con il titolo: Why England Slept (Perché l’Inghilterra dormiva).

All’inizio degli anni ’40 entra in marina, diventando presto sottotenente. Presta servizio nel Pacifico contro i giapponesi. La sua nave, il PT-109, viene affondata dal cacciatorpediniere giapponese Amagiri e Kennedy, insieme ai suoi compagni, raggiunge a nuoto un isolotto disabitato delle Salomone, Plum Pudding, oggi noto come Kennedy Island. Dopo essere sopravvissuti per qualche giorno e aver tentato in ogni modo di cercare aiuto arrivano i soccorsi.
Conclusa la seconda guerra mondiale, il pluridecorato Kennedy, distintosi per coraggio e tenacia, decide di dedicarsi alla politica, proponendosi come leader della nuova generazione: nuova generazione che si ritrova a dover affrontare il mondo della Guerra Fredda, quello in cui alla spartizione tra i grandi imperi è subentrata quella tra due superpotenze. Diventa deputato all’Undicesimo distretto congressuale del Massachusetts, grazie a una efficace campagna elettorale e alla sua spiccata abilità di parlare alla gente, di avvicinarsi ad essa, concentrandosi sui problemi concreti dei cittadini e distaccandosi dallo stile della vecchia politica. Inizia la sua ascesa. L’obiettivo prioritario è il miglioramento delle condizioni sociali.

Nel ‘52 viene eletto al Senato. E’ un Kennedy, ed essere un Kennedy significa buttarsi nelle sfide e vincerle; puntare a vette sempre più alte. Un Kennedy deve essere coraggioso; e proprio di coraggio in politica parlerà il libro “Ritratti del Coraggio”. John continua a mantenere sempre vivo il contatto col popolo e con gli elettori: “non ho segreti per loro e sono sempre a loro disposizione”. Ha preso coscienza della complessità della politica: “sono convinto che abbiamo criticato coloro che hanno seguito la folla, e nel medesimo tempo coloro che l’hanno sfidata, perché non abbiamo pienamente compreso la responsabilità del Senatore dinanzi ai suoi elettori o riconosciuto le difficoltà che affronta un uomo politico”. Non perde occasione di porsi al centro dell’attenzione mediatica assetata di pettegolezzi sui suoi numerosi flirt. E’ in questo periodo che fa la conoscenza della futura moglie, Jacqueline.
Il giovane cerca di farsi strada nel Senato e nella politica, andando contro, anche, al suo stesso partito, quello Democratico. Contemporaneamente, raccoglie consensi scagliandosi contro gli ultimi residui del vecchio colonialismo europeo. I Paesi africani cercano l’indipendenza e Kennedy sostiene l’idea di un intervento a favore di quelle popolazioni, mentre altri pezzi grossi volgono lo sguardo all’Europa orientale. Comincia a intensificare le occasioni di incontro con l’elettorato e a tenere discorsi ovunque.
Ormai è evidente: la carica di Senatore non gli basta più. Produce “The US Senator John F. Kennedy Story”, un corto in bianco e nero, su di lui e la sua attività, in cui vanta il grande legame che ha col pubblico (una sua assistente dichiara che il suo ufficio senatoriale riceve più lettere di qualunque altro); presenta il suo ufficio come un insieme ben armonizzato di lavoro e vita familiare, non mancando di accennare alcuni momenti cardine della sua carriera, come il servizio nella Marina; il suo è un lavoro incessante: quando si risolve un problema, ne appare subito un altro. John è dipinto come un uomo molto vicino al popolo.
Kennedy vuole diventare presidente. E’ appena iniziato il 1960. “I diritti dell’uomo, i diritti civili ed economici essenziali alla dignità umana di tutti gli uomini, sono infatti il nostro obiettivo e i nostri primi principi”, dirà nel discorso di accettazione della candidatura democratica alla presidenza del 15 luglio.
Lui è “americano, democratico e uomo libero”. Si rivolge alle famiglie che hanno dovuto lasciare l’azienda agricola, ai minatori disoccupati, agli operai tessili, agli anziani senza cure mediche, alle famiglie senza una casa decente, ai genitori con figli privati di cibo o scuole adeguati: “sanno tutti che è tempo di cambiare”. Gli elettori sanno chi votare: Kennedy, colui che avrebbe guidato il Paese in questi tempi bui, tempi di “armi nuove e più terribili”, che hanno il potere di portare l’umanità all’estinzione; tempi di “nazioni nuove e incerte”; tempi in cui gran parte del mondo è afflitto da repressioni e povertà; tempi in cui il comunismo conquista terreno in Asia, Medio Oriente e America Latina.
E’ il tempo della nuova generazione, che guarda al presente e al passato per costruirsi un futuro; il tempo della generazione che deve gestire la Guerra Fredda e conquistare lo spazio. “È il momento, in breve, per una nuova generazione di dirigenti: uomini nuovi per affrontare problemi nuovi e opportunità nuove”. E’ tempo di rinnovamento. “… oggi siamo sull’orlo di una Nuova Frontiera – la frontiera degli anni ’60”.
L’8 novembre del 1960 viene eletto presidente
La presidenza Kennedy
Il 20 gennaio del ’61 si svolge la proclamazione del 35° presidente degli Stati Uniti, John Fitgerald Kennedy. L’evento è presentato come un momento di “rinnovamento e cambiamento”, giunto in un “mondo molto diverso”. In questa occasione tiene il celebre discorso inaugurale, in cui rinnova l’impegno americano nel mondo, dichiara la volontà alla ricerca della pace internazionale, la risoluzione dei problemi interni; promuove un clima di accordi. Non manca di coinvolgere i cittadini nelle sfide che la nazione avrebbe dovuto affrontare: “… mettiamoci all’opera. Nelle vostre mani, miei concittadini, più che nelle mie, sarà posto il successo finale o il fallimento della nostra opera… Dunque, miei concittadini americani, non chiedete cosa il vostro paese può fare per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese”. Quest’ultima frase diverrà una delle più celebri della storia.
Kennedy si ritrova a dover affrontare una situazione internazionale molto delicata. Nel mondo fioriscono i movimenti indipendentisti, che teme possano entrare nell’orbita sovietica. Le relazioni con l’URSS sono molto tese. Alla fine della presidenza Eisenhower si era verificato l’incidente dell’U-2: un aereo spia americano, entrato nello spazio aereo sovietico, venne abbattuto, causando un incidente diplomatico. Le relazioni con i russi sarebbero peggiorate ancora.
Il 12 aprile, Jurij Gagarin diventa il primo uomo ad andare nello spazio. Gli americani non vogliono perdere questa gara: bisogna puntare alla Luna. “… credo che questa nazione dovrebbe impegnarsi a raggiungere l’obiettivo, prima che questo decennio finisca, di far atterrare un uomo sulla luna e riportarlo sano e salvo sulla terra. Nessun singolo progetto spaziale in questo periodo sarà più impressionante per l’umanità”, dichiarerà Kennedy il 15 maggio del ’61, in un discorso al Congresso. Serve più impegno; servono più investimenti. Ma non vivrà abbastanza a lungo da vedere l’allunaggio dell’Apollo 11 nel ’69.
Il presidente, intanto, promuove l’aumento delle testate nucleari. Gli States sono impegnati su più fronti, tra cui Vietnam, Medio Oriente e Cuba. In Europa, il 13 agosto, la DDR, con il benestare dell’URSS, inizia la costruzione del Muro di Berlino, divisione simbolica e fisica dei due blocchi. In Vietnam gli americani optano per un coinvolgimento più attivo. Per aiutare le nazioni in via di sviluppo istituisce i Peace Corps (volontari da inviare in alcuni Paesi, per aiutare nei settori edilizi, sanitari, agricoli e scolastici) e il programma Food for Peace, per esportare le eccedenze americane nei Paesi bisognosi.
Il 17 aprile inizia l’Invasione della Baia dei Porci, a Cuba. Fidel Castro è accusato di simpatie comuniste dagli americani. Gli States inviano, sull’isola, un corpo di cubani addestrati dalla CIA, appoggiato dall’aviazione. L’obiettivo è rovesciare il governo di Castro. Gli invasori verranno cacciati e il governo cubano deciderà di chiedere aiuto ai sovietici, in modo da proteggersi da un’eventuale ripresa delle ostilità. L’Unione Sovietica invia alcuni missili a Cuba.
Gli americani sono in allarme; temono un attacco nucleare. La situazione è delicata: un attacco ai missili avrebbe voluto dire GUERRA! “… sarà politica di questa Nazione considerare qualsiasi missile nucleare lanciato da Cuba contro qualsiasi nazione nell’emisfero occidentale come un attacco dell’Unione Sovietica agli Stati Uniti, che richiede una risposta di rappresaglia completa all’Unione Sovietica”, dichiara Kennedy il 22 Ottobre del ‘62.
Ci si prepara a combattere, con la consapevolezza che potrebbe essere il conflitto più cruento della storia dell’umanità. Kennedy ordina il blocco navale intorno all’isola; Krusciov invia i suoi sottomarini. Lo stato di allerta è DEFCON 2. La guerra atomica pare vicina, ma la diplomazia segreta riuscirà a risolvere la situazione: gli americani avrebbero ritirato i missili dalla Turchia e dall’Italia, mentre i sovietici avrebbero ritirato i missili e le navi da Cuba.

L’Assassinio di JFK
1963. Nel Texas i democratici stanno attraversando un periodo di conflittualità interna. Kennedy prende la decisione fatale: andare a Dallas per risolvere i dissidi interni al suo partito. Intende, inoltre, approfittare dell’occasione per conquistare più elettorato texano tramite uno dei suoi eloquenti discorsi; in fondo nel ’64 si sarebbero svolte le elezioni presidenziali. Bisogna sfruttare ogni occorrenza per racimolare voti.
E’ il 22 novembre. John ha alloggiato all’Hotel Texas, a Fort Worth. La sicurezza e i collaboratori sono tesi. La possibilità di un attentato è sempre dietro l’angolo. Kennedy ha parecchi nemici, tra cui figurano: i comunisti; gli anti-comunisti più estremi; l’ex-direttore della CIA, Allen Dulles, licenziato dallo stesso Kennedy nel ’61 in seguito al fallimento dell’Invasione della Baia dei Porci, e critico verso l’atteggiamento, secondo lui troppo morbido, del presidente nella lotta al comunismo; la mafia, combattuta dal fratello Robert, ministro della Giustizia; senatori, generali e industriali che traevano profitto dalla guerra del Vietnam dalla quale Kennedy avrebbe preferito smarcarsi; il capo dell’FBI, col quale Kennedy ha avuto degli screzi; i petrolieri, a cui Kennedy voleva aumentare le tasse; e l’Unione Sovietica.

La mattina, il presidente, dopo una buona colazione, si reca a Dallas. La polizia è pronta a scortare il corteo. Questo, è stato deciso procederà lentamente, in modo da permettere ai cittadini di godere della vista degli uomini più importanti della nazione. In città, alcuni oppositori di Kennedy hanno sparso, già dal 21, volantini di condanna: lo si accusa di aver tradito la Costituzione, di aver stretto amicizia con i sovietici, di aver messo a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti. Anche il Dallas Morning News approfitta dell’occasione per manifestare delle critiche alla sua politica verso il comunismo, l’America Latina e il Sud-est Asiatico.

L’Air Force One, partito da Fort Worth, atterra all’aeroporto Love Field di Dallas. Oltre alla folla, ad attendere il presidente, sotto il sole cocente, c’è la Lincoln Continental, dalla quale è stata tolta la capote. I servizi segreti tengono d’occhio ogni punto dal quale è possibile compiere un attentato. Il corteo parte alle 11:40 e attraversa Dallas. La folla diventa sempre più numerosa e festante man mano che la Lincoln si avvicina al centro.
Il percorso è stato pianificato attentamente e reso pubblico da giorni. Attraversa Main Street, prende un paio di svolte e si dirige a Dealey Plaza. Marito e moglie salutano e sfoderano i loro migliori sorrisi; con loro ci sono il governatore del Texas John Connally e sua moglie. E’ mezzogiorno e mezza. Il corteo è arrivato nella piazza.

Nellie Connally, la moglie del governatore, si rivolge al presidente: “Signor Presidente, non puoi dire che Dallas non ti ami”. “No, di certo non puoi”, risponde l’interlocutore, quando un uomo, entrato già di primo mattino in un edificio presso Dealey Plaza, il Texas School Book Depository Building, spara almeno tre colpi di fucile, un Mannlicher-Carcano, dal sesto piano della costruzione. La limousine sta svoltando a sinistra, a Elm Street. Il presidente si porta le mani alla gola: è stato colpito. Un secondo colpo lo prenderà in piena testa.

Il tutto avviene in pochi secondi. Jacqueline è sconvolta. Il governatore, anch’esso colpito, è convinto che sarebbero tutti morti. La Lincoln, coperta di sangue, viene portata all’ospedale, il Parkland Hospital. I servizi segreti tentano di proteggere John e Jacqueline, la quale continua a chiamare il marito e a tenere tra le mani la sua testa. Arrivato in ospedale, i medici tentano di rianimarlo, ma non c’è più nulla da fare. Alle 13 circa, il presidente esala il suo ultimo respiro. Alle 13:33 arriva l’annuncio ufficiale trasmesso dalla sala conferenze dell’ospedale. “Il presidente John Fitzgerald Kennedy è morto oggi approssimativamente alle 1:00 p.m., qui a Dallas. È morto per una ferita di arma da fuoco al cervello. Non ho altri dettagli riguardanti l’assassinio del presidente“, dichiara il segretario Malcolm Kilduff.

E’ caccia all’assassino
Polizia, servizi segreti e giornalisti sono in allarme. Si teme un attentato sovietico. Già prima della partenza l’entourage di Kennedy aveva uno strano presentimento. Si respirava un clima cupo. Non erano pochi quelli che temevano un attentato: i loro sospetti si sono rivelati fondati.
Gli agenti non perdono tempo. Si interrogano i testimoni e si requisiscono le prove che potrebbero far luce sull’accaduto: tra queste c’è un nastro appartenente al sarto Abraham Zapruder, contenente il celebre filmato della sparatoria. La bara viene portata sull’Air Force One, diretto a Washington. Il vice-presidente, Lyndon B. Johnson, diventa il nuovo capo degli Stati Uniti.

Torniamo all’ora di punta. Kennedy è stato colpito. Dal Depository Building, un uomo lascia il lavoro prima ancora di aver finito il turno; va di fretta. La polizia è entrata nell’edificio alla ricerca del criminale; un testimone ha affermato di aver visto un uomo armato affacciato alla finestra; troveranno il fucile e tre bossoli, ma ormai è tardi: il colpevole è già fuggito. E’ calmo e ha una lattina di coca cola in mano. Alle 12:40, prende un autobus, poi un taxi che lo porterà a casa.
Qui non ci rimarrà a lungo. Alle 13:15, l’agente JD Tippit, insospettito dalla somiglianza tra l’uomo e la descrizione dell’assassino esposta da un testimone alla polizia, ferma Oswald. Quest’ultimo spara, fredda il poliziotto e scappa. Arriva, così, con aria sospetta, al Texas Theatre. Cerca di entrare senza pagare il biglietto; la biglietteria chiama la polizia. Sono le 13:40. La polizia entra e si avvicina a Oswald. “Beh, ora è tutto finito“, dirà prima di cercare di estrarre la pistola, venendo, tuttavia, prontamente disarmato. La notizia si sparge: la polizia ha arrestato Lee Harvey Oswald, un instabile ex-marine, con l’accusa di aver ucciso l’agente Tippit.

Saranno i giornalisti a chiedergli se fosse lui l’assassino. L’accusa ufficiale arriverà intorno all’01:30 del 23, da lui respinta durante gli interrogatori. Subito si pensa a un complotto che coinvolge l’Unione Sovietica, in cui l’assassino si era recato nel ’59. Oswald nega tutte le accuse. Gli interrogatori non portano a nulla o quasi. Si scopre solo che è di simpatie marxiste. Il 24 novembre, alle 11:21, mentre la polizia lo sta scortando fuori dalla centrale, viene assassinato da un certo Jack Ruby, mosso dal desiderio di vendetta contro l’assassino del presidente. La folla esulta. Oswald morirà alle 13:07, nello stesso ospedale in cui due giorni prima era morto Kennedy.

Teorie del complotto
Le indagini ufficiali sull’assassinio si rivelano presto deficitarie; Oswald è ormai morto e l’opinione pubblica è divenuta alquanto scettica riguardo le circostanze dell’assassinio del presidente. Iniziano, così, a proliferare teorie cospirazioniste.
Poteva uno squilibrato aver ucciso il presidente o c’è qualcun altro dietro l’attentato?
Il 19 dicembre 1963, il National Guardian pubblica un opuscolo con una breve difesa da parte dell’avvocato Mark Lane, dubbioso sulle prove raccolte contro Oswald. Mark parte subito invocando la presunzione di innocenza. La Commissione presidenziale sull’assassinio del presidente Kennedy, denominata Commissione Warren, la quale si occuperà delle indagini, è stata creata appena venti giorni prima. Oswald è già ritenuto colpevole. “Oswald non ha testimoniato”, ricorda Lane, e la morte dell’imputato, soprattutto, non permette il controinterrogatorio.
Il 24 Settembre del ’64, la Commissione Warren presenta il rapporto finale sulle indagini: “… la Commissione ha concluso che Lee Harvey Oswald era l’assassino del presidente Kennedy”; inoltre “la Commissione ha concluso che non ci sono prove credibili che Lee Harvey Oswald fosse parte di una cospirazione per assassinare il presidente Kennedy… La Commissione non ha scoperto alcuna prova che l’Unione Sovietica o Cuba fossero coinvolte nell’assassinio del presidente Kennedy”.
Nel ’67 il procuratore distrettuale di New Orleans, Jim Garrison, fa arrestare Clay Shaw, un uomo d’affari della città, con l’accusa di aver partecipato all’assassinio, insieme ad un gruppo di estremisti e alla CIA, che, per motivi politici, avevano Kennedy in antipatia. Secondo Garrison i colpi che freddarono Kennedy arrivarono da luoghi diversi; inoltre identifica Shaw con Clay Bertrand, nominato da uno dei testimoni interrogati dalla Commissione Warren come implicato nell’omicidio. Ciò si rivelerà sbagliato e Shaw verrà assolto nel ’69. In molti cercano di svelare l’arcano che si cela dietro l’assassinio dell’uomo più potente del pianeta, spinti dalle più disparate motivazioni.
Secondo alcuni le antipatie della CIA sarebbero dovute al licenziamento da parte di Kennedy del capo dell’intelligence, Allen Dulles; alla mancanza di decisione nella questione cubana e nella lotta al comunismo; e alla volontà del presidente di tagliare i fondi all’agenzia. Il “Comitato ristretto per gli assassinii della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti”, nel ’78, si pronuncerà a favore della teoria della cospirazione ai danni di Kennedy, escludendo, però, il coinvolgimento sovietico, cubano, della mafia, dell’FBI e della CIA, le quali, tuttavia, non avrebbero collaborato a pieno alle indagini della Commissione Warren. Iniziano, poi, a girare voci, attribuite a ex-esponenti dell’intelligence, sulla manomissione dei dossier da parte di CIA ed FBI, e sulla loro vicinanza a Oswald.

Altri immaginano l’intervento di un governo ombra, composto da industriali e politici avversi a Kennedy. Si vede con sospetto la frase di Eisenhower, pronunciata durante il suo discorso d’addio: “Nei consigli di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, ricercata o meno, da parte del complesso militare-industriale. Il potenziale per la disastrosa ascesa del potere sbagliato esiste e persisterà”. Sono i tempi della guerra in Vietnam e, secondo alcuni teorici, alcune frange di potere avrebbero attentato alla vita del presidente, in modo da poter influenzare la successiva amministrazione e coinvolgere maggiormente gli States nel conflitto; mentre altri teorizzano che il movente sia stato la ricerca di un’accordo, da parte del presidente, con l’URSS. C’è persino chi pensa che proprio il presidente Johnson sia stato il mandante dell’assassinio o che, per lo meno, lo abbia sostenuto, magari per sete di potere.
Si parla di incontri segreti tra grandi esponenti della politica e grandi magnati preoccupati per i loro interessi. Si scomodano George H.W. Bush, Richard Nixon e la Mafia; i governi israeliano, cubano e sovietico; la Federal Reserve.
Solo teorie basate sui “se”
Tutto ciò che sappiamo di certo è che il 22 novembre del 1963, un uomo di simpatie marxiste, Lee Harvey Oswald, ha sparato da un edificio presso Dealey Plaza (Dallas), per motivi mai chiariti, assassinando il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy.
