Un inferno di Oscurità: Il Naufragio della Sea Venture e l’Inarrestabile Colonialismo Inglese

Qualcuno di voi si è mai chiesto perché lo stemma delle Bermuda presenti una nave incagliata su uno scoglio? Quel veliero di trecento tonnellate è la Sea Venture, un legno la cui storia pare abbia ispirato una delle opere più apprezzate di tutti i tempi: la Tempesta, di William Shakespeare; una storia che certamente non ha molto da invidiare a quella scritta dal drammaturgo inglese; una storia decisiva per le sorti del mondo, per il colonialismo inglese e tutto ciò che ne consegue.

Stemma delle Bermuda – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Anno 1607. La cosiddetta epoca delle grandi scoperte geografica è iniziata da un pezzo. Una Spagna martoriata da lotte intestine, epidemie, carestie ed enormi problemi finanziari ha costruito un immenso impero sui corpi di milioni “indios”. I portoghesi hanno basi strategiche in Sud America, Africa e Asia. E’, dunque, arrivato il turno dell’Inghilterra. A lungo alcuni uomini hanno tentato di convincere i reali dell’importanza di un serio disegno coloniale. I primi tentativi sono falliti, ma non bisogna demordere. Il teologo e appassionato di geografia ed esplorazioni, Richard Hakluyt, lo sa bene, e con interessanti argomentazioni espone questa convinzione nel suo Discorso indirizzato alla regina Elisabetta, alla fine del XVI secolo. Ma solo nel 1607, in Virginia, viene fondata Jamestown.

Raffigurazione di Hakluyt nella vetrata della Cattedrale di Bristol – immagine di Charles Eamer Kempe sotto licenza CC BY 3.0 via Wikipedia

La colonia di Jamestown

Ottobre, 1492. Un genovese, di nome Cristoforo Colombo, sbarca su un continente ancora sconosciuto agli europei, prendendone possesso per i reali spagnoli. Le Americhe divengono presto dominio castigliano. I conquistadores si fiondano immediatamente sulle isole caraibiche e sulle coste continentali, mettendo a ferro e fuoco interi villaggi, distruggendo città, sterminando e schiavizzando intere popolazioni. Le malattie decimano gli autoctoni. Gli iberici cominciano, così, a importare schiavi dall’Africa, impiegandoli nelle piantagioni e nelle miniere.

Intanto l’Europa è una polveriera. L’impero asburgico è nel caos, attanagliato dalle rivolte e dalla guerra; il mondo cattolico si vede minato alla base dalle forti critiche alla sua dottrina; si combatte ovunque; gli ottomani si avvicinano e i Paesi Bassi si ribellano al dominatore spagnolo, sostenuti dai vicini inglesi. Questi ultimi sono in gara con i vecchi rivali per la supremazia, e il campo coloniale diventa presto un terreno di scontro e competizione. Ma prima servono le colonie.

Principali viaggi nell’epoca delle esplorazioni e imperi spagnolo e portoghese nel XVI secolo – immagine di Universalis sotto licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Richard Hakluyt, nel 1584, tenterà di convincere la regina a sposare la causa coloniale, soprattutto in funzione anti-spagnola, enumerando gli enormi benefici che gli insediamenti d’oltremare avrebbero portato alla madrepatria. L’anno dopo, Walter Raleigh fonderà la colonia di Roanoke, destinata a spegnersi poco dopo. La Corona è in guerra con la Spagna e non può permettersi di pensare a un progetto che ancora non ritiene abbastanza convincente. Così, gli anni passano; Elisabetta muore e Giacomo sale sul trono.

E’ il 1606. Non ci si può limitare per sempre ad azioni di pirateria e infruttuose ricerche di terre dell’oro. Serve qualcosa di stabile. Una vera e propria colonia. Un luogo in cui impiegare gli strati più bassi della società, dove ricchi gentiluomini possano accrescere il proprio prestigio, un luogo con cui intrattenere un florido commercio. I sostenitori della colonizzazione (tra cui Thomas Gates, Hakluyt e George Somers), chiedono al re di avallare la loro iniziativa e, così, ottengono una patente per colonizzare quella parte di costa denominata Virginia. E’ la nascita della Virginia Company. Il 19 novembre una flotta di tre navi, la Susan (o Sarah) Constant, la Discovery e la Godspeed, comandata dal capitano Christopher Newport, lascia il porto di Blackwall, alla volta del Nuovo Mondo. Dopo una prima esplorazione della zona il 13 maggio viene fondata Jamestown. La colonia avrebbe dovuto avere, secondo le disposizioni della Compagnia, un Consiglio e un presidente.

I territori della Virginia Company – immagine sotto licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia

Le tensioni tra i governanti sono alte e il forte deve essere ancora costruito, mentre i rapporti con i nativi si sono deteriorati immediatamente, causando un feroce attacco agli invasori, ora feriti e in lutto per la perdita di un ragazzo. Addestrarsi è diventato un imperativo; ma una dieta povera, il lavoro continuo, le ansie e lo stress, e il caldo umido soffocante hanno logorato gli inglesi. Jamestown sorge su una malsana palude. Le zanzare portano la malaria. I vestiti sono laceri e le malattie non si limitano a debilitare gli uomini: li uccidono. Si fatica a trovare del cibo e le provviste si esauriscono. L’acqua potabile è carente. Febbri e dissenteria si impadroniscono del forte. Intanto, Newport, recatosi in Inghilterra, è tornato con rifornimenti e uomini. L’insediamento, ritrovato il 2 gennaio 1608, conta solo trentotto coloni. Non si riesce a coltivare; le spedizioni di rifornimento dalla madrepatria sono diventate una necessità. E come se non bastasse il forte è stato distrutto da un incendio, insieme a un gran numero di provviste.

Posizione di Jamestown – immagine di Aude sotto licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia

Quelli che gli inglesi considerano selvaggi prendono a portare cibarie agli invasori, i quali, tuttavia, non smettono di morire. Si cerca di commerciare e di difendersi, ma le condizioni sono estreme. Nell’aprile, Newport riparte. Un’altra spedizione di rifornimento è in arrivo. A questa segue la terza.

La Terza Missione di Rifornimento

La Compagnia vuole vedere i profitti; i se e le speranze non bastano più. Ma del Mare del Sud e delle miniere d’oro non ce n’è nemmeno l’ombra. Si respira solo morte e disagio. John Smith, presidente del Consiglio della colonia, chiede falegnami, contadini, giardinieri, pescatori, fabbri, muratori, manufatti e tutto il necessario per mantenere i nuovi arrivati. La Compagnia tenta una terza missione. Troppo è stato investito; ancora non sono pronti a gettare tutto al vento. Il 2 giugno 1609, sette vascelli e due pinnace (imbarcazioni più piccole) partono da Plymouth verso l’altra parte dell’oceano. L’ammiraglia è la Sea Venture, comandata dall’esperto ammiraglio George Somers. La flottiglia porta con sé circa seicento coloni.

Probabile ritratto di Sir George Somers – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

La missione è troppo importante e si temono le acque spagnole nel Nuovo Mondo. Il rischio di essere catturati è alto. Meglio non seguire la tradizionale rotta che punta alle Canarie e prosegue verso ovest col favore del vento. E’ preferibile rimanere più a nord, fuori dall’orbita del nemico. I lupi di mare sono d’accordo; Somers conosce gli spagnoli, li ha combattuti, e, soprattutto, conosce bene il mare. Col vento in poppa gli uomini si godono una piacevole crociera. Fra una settimana arriveranno in Virginia, la deludente terra Promessa.

La Tempesta

E’ il 24 Luglio.

“… Le nuvole si addensano su di noi, i venti spirano, e fischiano in modo inusuale, tanto che gettano via le nostre imbarcazioni portandole indietro; cominciò a soffiare da nord-est una tempesta orribile e terrificante, che gonfiandosi e ruggendo per così dire a scatti, alcune ore con più violenza che in altre, alla fine spazzò tutta la luce dal cielo; che come un inferno di oscurità si tinse di nero sopra le nostre teste, ancora più ricolmo di orrore, poiché in questi casi l’orrore e la paura usano invadere i sentimenti turbati e sopraffatti di tutti, che (presi con stupore) hanno le orecchie così sensibili alle grida terribili, ai mormorii dei venti e alla distrazione della nostra Compagnia, poiché chi era più abituato e meglio preparato, fu scosso non poco”.

Frontespizio della scena di apertura de La Tempesta (1709) – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

La violenza delle tempeste in alto mare è risaputa, così come ben conosciute sono le storie di affondamenti e naufragi. Tutti lo sanno e tutti sono disposti a rischiare la vita, prendendo il largo, esponendosi ai pericoli dell’Oceano, tentando la sorte per qualcosa di più, per cercare un’occasione, un impiego e un nuovo inizio.

Gli uomini sono in preda all’angoscia; le peggiori fantasie si impossessano delle loro menti; non ci sono mostri, solo la furia del clima; non ci sono Prospero e Ariele, ma la sola Natura. Il pensiero della morte li pervade. La miccia del panico è accesa e sta per deflagrare. Il tempo della placida crociera è finito.

Per venti ore la tempesta, in un tumulto irrequieto, aveva soffiato così straordinariamente, tanto che non potevamo cogliere nella nostra immaginazione alcuna possibilità di una maggiore violenza

Sulle navi si odono lamenti, comandi e preghiere. Gli ufficiali tentano di mantenere l’ordine, mentre le onde sferzano i vascelli, che prendono a imbarcare acqua. Si aprono falle e le vele sono in pericolo. Il coraggio lascia spazio all’afflizione e al terrore. Si rischia di morire annegati, ma è necessario adoperarsi per superare la tempesta (forse un uragano). Nel caos si scorgono occhi tanto terrorizzati quanto determinati. Si riparano le falle e se ne cercano di altre. Sul ponte la frenesia è ai massimi livelli, e non meno indaffarati sono i marinai sottocoperta. Le pompe sono in azione, ma non fanno abbastanza: non riescono a buttare fuori bordo tutta l’acqua; si lavora alla vecchia maniera, coi secchi. Corpi feriti e seminudi si danno da fare come mai in vita loro, liberando i bastimenti di tutto il bagaglio superfluo, mentre una misteriosa luce (Fuoco di Sant’Elmo) aleggia sopra la nave alimentando le dicerie dei più superstiziosi. Nessuno vuole finire in fondo al mare.

“Durante tutto questo tempo, i cieli ci apparirono così neri, che non si poteva osservare l’elevazione del Polo: né una stella di notte, né un raggio di sole di giorno”

Il naufragio nell’atto I, scena 1, in un’incisione del 1797 di Benjamin Smith – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Il Naufragio

Per tre giorni la tempesta ha infuriato sui malcapitati della Sea Venture e della flotta, irrimediabilmente divisa. Tre giorni e tre notti di insonnia e paura. Una nave è affondata. Ma tutte le sciagure sono destinate a terminare, o quasi. Si scorgono degli alberi in lontananza. È terra!

Abbiamo scoperto che era la pericolosa e temuta isola, o meglio le isole delle Bermuda… chiamate comunemente le Isole del Diavolo, temute ed evitate da tutti i lupi di mare viventi, al di sopra di qualsiasi altro luogo al mondo

Ironia della sorte, l’inferno, tempo addietro portato all’attenzione degli europei da Juan de Bermudez, è diventato il loro porto sicuro. Somers fa incagliare la nave su uno scoglio per impedirne l’affondamento. Circa centocinquanta persone si sono salvate. Ci si accampa presso una baia; si piantano semi di melone, cipolle, piselli, lattuga e altri ortaggi. Si cerca subito del cibo: cocchi, bacche e radici, pesci e maiali (perfetti per il barbecue), uova e volatili. L’acqua dolce non si trova, se non quella piovana. Si esplora e si cerca la fonte della vita. Avere un’idea delle dimensioni dell’isola e di ciò che contiene può rivelarsi cruciale. Nel mentre, si decide di costruire due piccole navi per lasciare questa terra.

Prima mappa dell’isola delle Bermuda nel 1511, realizzata da Pietro Martire d’Anghiera – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

La quiete, tuttavia, non è destinata a durare a lungo. Nella quotidianità dei naufraghi, non esistono solo lavoro e funzioni religiose. I marinai mormorano. Dubbi e malcontenti si diffondono tra i coloni.

Sono capitati in un bellissimo eden tropicale: perché lasciarlo?

Perché andare incontro a una miseria certa in Virginia, una colonia probabilmente avviata verso la rovina? Alcuni si rifiutano di lavorare alle navi. Non vogliono lasciare il giardino delle delizie; piuttosto si rintanano nei boschi e progettano di ritirarsi su un’altra isola, dove costruire una loro comunità. Altri ribelli si rifanno alla Bibbia, sostenendo di essersi liberati dall’autorità del Governatore e capo della spedizione, in seguito al naufragio. Questi tentativi di ammutinamento verranno, però, prontamente sedati, evitando le esecuzioni. Tuttavia, il clima nell’accampamento è, ormai, irrimediabilmente compromesso. Tutti sospettano di tutti. Si gira armati; ci si tiene ben stretti gli amici e ci si guarda bene le spalle. Un certo Paine verrà condannato a morte: fucilato. Robert Waters sarà catturato e legato a un albero, per aver assassinato con una vanga un altro marinaio: verrà liberato dai suoi compagni e fuggirà nella boscaglia. Dopo tutte queste vicissitudini, tra marzo e aprile, le imbarcazioni sono pronte.

A Jamestown

Il 10 maggio lasciano, finalmente, le Bermuda alla volta di Jamestown, raggiunta il 23. Sono passati dieci mesi dal naufragio della Sea Venture. La situazione è sconvolgente. La palizzata distrutta, portoni aperti e scardinati, case vuote per via della morte dei proprietari, edifici bruciati, fame e malattie. Rimangono solo sessanta coloni. La situazione è disperata e il terreno pare inadatto alla coltivazione.

Ben presto sembrò più opportuno, con una generale approvazione, che per preservare e salvare tutti dalla fame, non si potesse pensare a una via migliore, che abbandonare il Paese”

Immagine del 1854 delle rovine di Jamestown – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

I coloni sono da poco salpati quando l’arrivo della flotta del governatore De La Warre convince Somers a tornare indietro. Una volta sbarcati non perdono tempo e si mettono subito a ricostruire la colonia. È la rinascita di Jamestown.

Somers proporrà di tornare alle Bermuda e usarle come magazzino di rifornimenti, perdendo la vita, per malattia, in quello stesso arcipelago che gliela aveva salvata, dove presto, ormai accertata la sua natura ospitale e priva di creature mostruose, sarebbe sorta una nuova colonia, di cui avrebbero fatto parte i disertori lì rimasti.

A Jamestown il “Tempo della Fame” sta per terminare. Il flusso di coloni ha dato nuova vita alla colonia. La vita sta rifiorendo, così come la città. I coloni sono più forti; riescono a tenere testa a Powhatan. Uno dei sopravvissuti della Sea Venture, John Rolfe ,sposerà la figlia del capo nativo, la celebre Pocahontas, ponendo le basi per un breve, ma significativo, periodo di pace. E non sarà il solo contributo dato dall’inglese. Questo, difatti, introdurrà in Virginia una pianta molto apprezzata dal popolo della madrepatria, una varietà di tabacco più dolce, portata dalle Bermuda. Ora la colonia ha ciò che le serve per prosperare. Dopo tante difficoltà, il colonialismo inglese sarà inarrestabile e portatore di morte e distruzione per i popoli indigeni.

Schiavi africani del XVII secolo in una piantagione di tabacco, Virginia – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

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