Wiyot: il popolo perduto della costa californiana

“I nostri cestini sono spariti. I nostri sognatori se ne sono andati. E la nostra saggezza è andata. Per questo siamo tristi”. (Cheryl Seidner Bluff)

La notte del 26 febbraio 1860 scorre tranquilla nella baia di Humboldt, California settentrionale. La primavera è già nell’aria e un vento fresco soffia dall’oceano scuro in direzione della cittadina costiera di Eureka. L’avamposto colonico, fondato dieci anni prima da minatori e cercatori d’oro venuti dall’est, ben presto è diventato un importante centro per il commercio del legname fornito dalle immense foreste di sequoie che si estendono nell’entroterra.

L’Isola Indiana

Davanti alla laguna, sulla piccola “isola degli indiani” – un tumulo di conchiglie e sabbia accumulato nei millenni dalle maree oceaniche – il villaggio Tuluwat dei nativi Wiyot dorme in silenzio. Nelle modeste baracche di legno riposano circa duecento tra vecchi, donne e bambini. E’ appena terminato il settimo giorno di feste e balli tradizionali in occasione dei sacri rituali per l’inizio dell’anno: “la cerimonia di rinnovamento del mondo”.

Tutti i villaggi della nazione Wiyot, dall’entroterra lungo il fiume Mad fino alle paludi ed al bacino dell’Eel River sulla costa, hanno mandato i propri rappresentanti al villaggio, da sempre considerato il centro dell’universo e dimora degli spiriti degli antenati. Già dalla sera precedente, come da tradizione, gli uomini si sono allontanati con le canoe per la pesca delle vongole e della lontra marina. Torneranno a giorno inoltrato per la preparazione dei banchetti.

Siamo lontani anni luce dalle grandi praterie oltre le montagne rocciose, dove le fiere tribù di guerrieri indiani americani resistono ad oltranza all’invasione degli europei che sciamano come cavallette, occupando e distruggendo ogni cosa.

Il popolo Wiyot è pacifico, composto da tranquille famiglie di pescatori, miti come il clima in cui vivono. Sottomessi già anni prima dai bianchi, hanno accettato di convivere con gli invasori, molte donne parlano un buon inglese, lavorano al servizio delle signore delle case coloniche ed hanno anche adottato nomi occidentali, da affiancare a quelli tribali.

Tipici cestini del popolo Wijot

Sono le 6.00, l’alba è vicina. Alcune barche salpano silenziosamente dal molo di Eureka. Un gruppo di bianchi probabilmente mascherati, armati di mazze, accette e coltelli, percorrono pagaiando il miglio che separa l’isola dalla costa e sbarcano senza fare rumore. Come fantasmi. Le prime baracche del villaggio Tuluwat vengono date alle fiamme. La carneficina è improvvisa e totale: ogni donna, vecchio e bambino viene massacrato senza pietà. Si stima che solo una ventina di nativi siano riusciti a realizzare quanto stava accadendo in tempo per sottrarsi alla furia dei carnefici, gettandosi in acqua e allontanandosi a nuoto dall’isola. Una ventina. Su circa duecento persone inermi.

Quando, pochi giorni dopo, l’entità del massacro diventa di dominio comune, sulle pagine del quotidiano “Northern California” della cittadina di Arcata viene scritto:

“C’erano pozze di sangue fresco da tutte le parti; le pareti delle capanne, l’erba e la sabbia, tutto era un’unica macchia di rosso. In giro c’erano cadaveri di entrambi i sessi e di tutte le età, dal vecchio al neonato ancora attaccato al seno della madre. Alcuni avevano la testa spaccata in due dai colpi d’ascia, altri erano stati pestati come gelatina con le mazze, altri ancora trafitti o tagliati a pezzi con i coltelli bowie. C’erano cadaveri sprofondati nel fango, diversi corpi galleggiavano nella laguna colpiti a morte nel tentativo di fuggire”.

I pochi sopravvissuti non si capacitano del perché di tanta violenza. La cittadinanza di Eureka si interroga sgomenta. Lo sceriffo della contea di Humboldt, Barrant Van Ness, comincia a raccogliere qualche testimonianza dai sopravvissuti al massacro: Jane Sam, riuscita a nascondersi in un mucchio di spazzatura; due cugine, Matilda e Nancy Spear con i loro tre figlioletti, rifugiate tra la fitta vegetazione ad ovest dell’isola; un bambino, Jerry James, trovato vivo e sotto shock tra le braccia della madre dilaniata. Nessuno fornisce informazioni utili. Un’altra indiana, Kaiquaish (conosciuta anche con il nome di Josephine Beach) racconta ai giornalisti di essersi salvata, con suo figlio William di undici mesi, solo perché quella notte si era persa con la canoa nella nebbia e non era riuscita a raggiungere l’isola.

La notizia arriva al governatore neo-eletto della California, John G. Downey, a Sacramento. Ma non è l’unico dispaccio sul suo tavolo. Tra il 26 febbraio ed i primi di marzo la misteriosa banda di assassini compie una serie di attacchi coordinati che prendono di mira tutti i villaggi Wiyot della zona. Circa sessanta nativi vengono massacrati a South Beach, altri quaranta sono stati ritrovati uccisi sulla South Fork, trentacinque a Eagle Prairie. Poi ancora indiani morti a Table Bluff, Humboldt Point, nel villaggio di Kutserwalik a Bucksport. La nazione Wiyot sta scomparendo nel giro di pochi giorni. L’Esercito di stanza a Fort Humboldt invia pattuglie in tutta l’area per trovare e scortare ogni Wiyot sopravvissuto all’interno dell’avamposto militare.

I giornalisti di tutta la zona nord occidentale della California sono sul pezzo: diversi articoli, da Sacramento a San Francisco, parlano apertamente di genocidio programmato. Bret Harte dell’Uniontown, nel suo editoriale denuncia:

“Uno spettacolo più scioccante e rivoltante non fu mai esibito agli occhi di un popolo cristiano e civile. Le donne anziane, rugose e decrepite, giacevano contorte nel loro sangue, il cervello sparso tra i lunghi capelli grigi. Bambini piccoli diventati orrendi ammassi sanguinolenti, irriconoscibili per i colpi di accetta”.

Pochi giorni dopo il giornalista è costretto a trasferirsi a sud per le continue minacce di morte.

Alcuni esponenti delle famiglie più in vista di Eureka ed Arcata scrivono lettere ai giornali di San Francisco, dissociandosi e condannando pubblicamente i massacri. In un’editoriale del “San Francisco Bulletin” lo sceriffo Van Ness, titolare delle indagini, glissando sulle domande dei giornalisti inerenti al massacro, dichiara invece che i furti di bestiame compiuti dai nativi ai danni di alcuni allevatori dell’entroterra sono continui ed esasperanti, aggiungendo che il comandante di Fort Humboldt è un debole non in grado di mantenere l’ordine e la sicurezza pubblica.

Le dichiarazioni dell’uomo di legge non convincono però il governatore che, pressato dall’opinione pubblica, incarica proprio il maggiore Gabriel J. Rains, comandante di Fort Humboldt, di condurre accertamenti riservati e paralleli. Con una prima relazione l’ufficiale conferma che lo sceriffo Van Ness mantiene rapporti con una neonata milizia di vigilantes chiamata “I volontari di Humboldt – seconda brigata”, guidata da un marinaio, tale Seman Wright. La milizia si muove nell’entroterra della cittadina di Hydesville, nel territorio degli indiani Nongatl, contro i quali i coloni del posto chiedono da tempo azioni di rappresaglia per i frequenti problemi con i pascoli.

Ma cosa c’entrano in tutto questo gli indiani Wiyot?

L’ufficiale approfondisce le indagini, intercetta una petizione scritta nella quale diversi allevatori di bestiame della zona – facenti capo ad un certo Davis – chiedono allo Stato della California che la milizia di Humboldt sia elevata al rango di truppa regolare, con relativa paga e benefit statali. Tale istituzione è già stata concessa in passato a formazioni temporanee di rangers volontari, assoldati per sedare le razzie degli indiani Nongatl.

Queste milizie di frontiera percepiscono in quegli anni circa 50 dollari al mese – pari a 1.500 dollari odierni – che uniti però ad esenzioni sulle tasse, rimborsi spese spesso gonfiati a dismisura e accumulo di bottini vari come esproprio di miniere e di terre dei nativi (sui quali il governo tende a chiudere un occhio) arrivano a superare gli ottomila dollari mensili del giorno d’oggi. Le motivazioni ufficiali alla base della petizione sono ovviamente il ripristino dell’ordine pubblico in un territorio pericoloso, dove il rischio di fatti delittuosi cresce di giorno in giorno. A sostegno della tesi di instabilità sociale la missiva evidenzia però solamente il furto, da parte dei nativi, di un bue di proprietà del signor Titlow di Hydesville.

Secondo il maggiore Rains vi sono indizi che siano proprio loro i responsabili dello sterminio della pacifica tribù di Wiyot, un progetto di facile attuazione perpetrato con il chiaro intento di colpire in maniera plateale persone inermi e pacifiche, generare terrore e desiderio di vendetta nei nativi, insicurezza nella popolazione dell’intera area, al fine di provocare disordini ed ottenere i lauti finanziamenti statali per la milizia.

Anche lo sceriffo della contea è con tutta probabilità complice del progetto criminale. La milizia può contare sulla segretezza e sull’omertà degli accoliti, verosimilmente una settantina di individui al momento sconosciuti – fatta eccezione per il capitano Wright – ma che potrebbero appartenere evidentemente alle famiglie coloniche della zona.

Il governatore Downey, a seguito del rapporto ricevuto dai militari già nei primi mesi del 1860, decide di rompere gli indugi inviando una compagnia di soldati di rinforzo a Fort Humboldt, con lo scopo di migliorare la sicurezza dell’area. Con tale mossa decide anche di rigettare la petizione e sciogliere la milizia di volontari, in quanto “da ritenersi non più necessaria”. Una decisione pilatesca, che non comporta l’avvio di nessuna ulteriore indagine né di alcun processo per i responsabili dell’eccidio dei Wiyot. Nel giro di poco tempo inoltre tutta la faccenda viene dimenticata dai media, lasciando spazio sui giornali alle insistenti voci provenienti dall’est di una imminente guerra civile contro gli Stati sudisti confederati.

Elisabeth Hockox, della Nazione Wiyot, con i suoi cestini – 1913

I pochi indiani Wiyot sopravvissuti all’eccidio, dopo essere stati trattenuti temporaneamente dai soldati all’interno del Forte, su ordine del commissario per gli affari indiani, vengono trasferiti forzatamente nella riserva Klamath, a settentrione verso l’Oregon. Due anni dopo, in seguito ad un’inondazione, le poche famiglie di nativi Wiyot, stremate e denutrite, sono divise e deportate rispettivamente nelle riserve di Hoopa, Smith River e Round Valley.

Prima dei contatti con i bianchi il popolo Wiyot contava oltre duemila persone, diventate duecento dopo il 1860 ed un centinaio nel 1910. Nonostante tutto, la comunità ha cercato di resistere e di non disperdersi, tentando nel corso degli anni successivi di ricongiungersi e ritornare nella Patria ancestrale. Hanno imparato a vivere all’interno della comunità bianca, a frequentare le scuole dei bianchi, a sposare gli immigrati europei, lavorando nelle industrie del legname, della pesca e dell’agricoltura.

La tribù conta oggi 600 membri e ha ottenuto di costituire una riserva federale a Table Bluff, nella baia di Humboldt. Essa sta attivamente recuperando i vecchi stili di vita, tra cui l’antico linguaggio, la propria storia e la cultura degli antenati.

Anziani Wiyot a una veglia commemorativa del massacro del 1860

In quest’ottica, il 21 ottobre 2019, a quasi 160 anni dall’eccidio, grazie alla concessione dell’amministrazione comunale di Eureka, i responsabili della riserva hanno finalmente ripreso possesso dell’Isola Indiana, nella baia di Humboldt, considerata dai Wiyot il “centro spirituale e fisico dell’Universo”.

“È un ottimo esempio di resilienza perché i Wiyot non hanno mai rinunciato al loro sogno”, ha dichiarato l’amministratrice tribale Michelle Vassel. Il presidente tribale Ted Hernandez ha aggiunto:

“Sapevamo che i nostri antenati sono ancora lì. Possiamo sentirli mentre ci dicono – ti stiamo guardando, sappiamo che quello che stai facendo è giusto – Questa è per noi una grande sensazione di pace”.

Fonti:

New York Times, North Coastal Journal, Archive, Military Museum, Weare Wiyot, Wiyot, Color Lines, Wyot.