Witold Pilecki: la Drammatica storia della Spia internata volontariamente ad Auschwitz

Witold Pilecki ricordò così il momento in cui attraversò il cancello di Auschwitz:

Ho detto addio a tutto ciò che avevo finora conosciuto in questa terra e sono entrato in qualcosa che non ne faceva più parte

Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:

Sotto: Pilecki in un immagine antecedente al 1939

Immagine di pubblico dominio

Però, a differenza degli altri deportati, il capitano dell’esercito polacco Pilecki attraversò quel cancello volontariamente, per scoprire cosa succedeva realmente nel campo di concentramento.

Già durante le prime fasi della Seconda Guerra Mondiale giravano voci inquietanti su ciò che accadeva ad Auschwitz, ma la resistenza nazionalista polacca, a cui Pilecki aveva aderito, non aveva modo di sapere quale fosse la realtà dei fatti.

Qualcuno doveva scoprirlo

Witold, ben consapevole del rischio che correva, si offrì come volontario per entrare nel campo di concentramento. La mattina del 19 settembre 1940, il trentanovenne Pilecki si fece deliberatamente arrestare, a Varsavia, durante un rastrellamento di polacchi da parte dei nazisti, che in quell’occasione catturarono circa duemila persone. Anche se l’ufficiale sapeva bene quello che stava facendo, non era certo preparato agli orrori di cui fu testimone.

“Con almeno cento altri mi hanno portato in bagno. Qui hanno dato a tutti dei sacchi, contrassegnati dal rispettivo numero. Hanno tagliato i nostri capelli, i peli del corpo, e ci hanno spruzzato acqua fredda. Ho ricevuto un colpo alla mascella con una sbarra pesante. Ho sputato due denti. Ho cominciato a sanguinare. Da quel momento siamo diventati semplici numeri – Ho indossato il numero 4859.”

Sotto la fotografia di Pilecki realizzata da Wilhelm Brasse:

Nei successivi tre anni Pilecki fu il protagonista di una delle operazioni di intelligence più pericolose della guerra, testimone della trasformazione di Auschwitz da campo di prigionia per dissidenti e per soldati sovietici, nella più infernale fabbrica di morte dei nazisti.

Auschwitz nel 1944

Gli internati polacchi di Auschwitz venivano spesso uccisi pubblicamente, in modi improvvisati e sovente brutali. Durante il primo anno di permanenza di Pilecki, costituivano il gruppo di prigionieri più numeroso, quello col maggior numero di vittime; alla fine della guerra il triste primato passò agli ebrei ungheresi, seguiti dagli ebrei polacchi e quindi dai polacchi non ebrei.

Pilecki, che si era fatto arrestare sotto falso nome (per non mettere a rischio la propria famiglia), fu abbastanza fortunato da avere un incarico all’esterno del campo, mentre intorno a lui, nel 1942, iniziarono a funzionare senza sosta le camere a gas.

“Più di mille ebrei al giorno, dai nuovi arrivati al campo, furono gasati. I cadaveri furono bruciati nel nuovo crematorio”

Il netto contrasto tra quello che accadeva al campo, e la vita che scorreva normale al di fuori – campi coltivati e alberi in fiore, la luce rossa dell’alba, coppie di innamorati che passeggiano, madri che spingono le carrozzine dei bambini – faceva sorgere in Pilecki una domanda alla quale, pur girandoci intorno, non era possibile trovare una risposta:

“Eravamo tutti noi… persone?”

Pur guardando in faccia la morte ogni giorno, Pilecki riuscì ad organizzare una rete di “sostegno” all’interno di Auschwitz, i cui membri – circa 500 – si aiutavano con le razioni alimentari, i compiti di lavoro, ma anche portando fuori messaggi che facessero conoscere la terribile realtà del campo. L’obiettivo di Pilecki e dei suoi compagni era quello di organizzare una rivolta che doveva coincidere con un tentativo di salvataggio da parte della resistenza polacca, o di altri alleati. Tutto ciò non avvenne:

Chi stava fuori stentava a credere agli orrori raccontati dall’ufficiale infiltrato

 Pilecki nel 1939

Immagine condivisa dal sito pilecki.ipn.gov.pl

Dopo quasi tre anni trascorsi a raccogliere dati per trasmetterli ad un’organizzazione poco ricettiva, Witold Pilecki decise che sarebbe stato più utile informare di persona i suoi superiori. Così, nell’aprile del 1943 riuscì a scappare dal campo: con il favore delle tenebre, approfittò di un breve momento in cui la porta della cucina dove lavorava era rimasta incustodita.

Pilecki aveva trascorso 947 giorni all’interno di Auschwitz, dove l’aspettativa di vita di un prigioniero era di circa 42 giorni. Quando tornò a Varsavia, Witold scoprì che l’ufficiale che l’aveva incaricato della pericolosa missione era stato arrestato, e che i nuovi comandanti non erano interessati a un tentativo di liberazione del campo, dove nel frattempo morivano decine di migliaia di persone.

Pilecki continuò a combattere per il proprio paese: nel 1944, durante la rivolta di Varsavia, fu nuovamente arrestato dai tedeschi, e mandato in un campo di concentramento. Uscì vivo anche da lì, liberato dalle truppe statunitensi nell’aprile 1945.

Alla fine della guerra Pilecki entrò a far parte del “Corpo Polacco”, militari che non accettavano la dominazione sovietica nel loro paese. Mentre era in Italia, in attesa di un nuovo incarico di intelligence in Polonia, scrisse il resoconto definitivo sulla sua missione ad Auschwitz: “Il Volontario di Auschwitz”, che rimase inedito per molti decenni in Polonia. Lo scrisse in tutta fretta, forse consapevole del fatto che non avrebbe vissuto ancora a lungo.

Rientrato a Varsavia con l’incarico di cercare prove sui brogli del referendum del 1946 (sulla forza politica che doveva governare il paese), andò incontro al suo destino: nel 1947 fu arrestato dalla polizia segreta comunista, torturato, processato e condannato a morte grazie a prove false.

L’eroe che combatté contro i totalitarismi morì il 25 Maggio del 1948 in una cella di Varsavia, ucciso con un colpo di pistola alla nuca. Alla moglie e ai due figli, Andrzej e Zofia, fu imposto di non celebrare alcun rito funebre né di ricordarne la memoria.

Sotto, una fotografia durante il processo:

Il suo eroismo durante la seconda guerra mondiale non ebbe alcun peso, i tentativi di riabilitare la sua memoria non ebbero alcun successo. Solo nel 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino, ottenne quella giustizia postuma che lo scagionò da tutte le accuse che avevano portato alla sentenza di morte, ma nessuno ancor oggi, può deporre un fiore sulla tomba:

Nessuno sa dove (e se) fu sepolto

Annalisa Lo Monaco

Lettrice compulsiva e blogger “per caso”: ho iniziato a scrivere di fatti che da sempre mi appassionano quasi per scommessa, per trasmettere una sana curiosità verso tempi, luoghi, persone e vicende lontane (e non) che possono avere molto da insegnare.