Non è difficile immaginare cosa pensò la nobiltà francese quando la contessa di Castiglione, al secolo Virginia Oldoini, esordì nei salotti parigini. La sua fama la precedeva: bionda, con gli occhi azzurri, dalla carnagione candida e la sensualità di una dea. Per molti e, soprattutto per lei stessa, era la più bella dell’Ottocento. Gli uomini caddero ai suoi piedi, le donne non tanto. La odiavano, ma la contessa ricambiava.
Nei suoi diari scrisse:
Io sono io e me ne vanto; non voglio niente delle altre e per le altre. Io valgo molto più di loro
E ancora:
Ogni donna ha il dovere di essere bella, non per sé, ma per gli altri. Per sé, invece, deve essere ambiziosa, astuta e agguerrita

E agguerrita lo era. Virginia Oldoini andò a Parigi per sedurre Napoleone III e prestare il suo corpo e mente alla causa dell’Unità d’Italia. Era il 1856; in una società dove il maschilismo imperava, una giovane di appena diciannove anni affascinò l’uomo più potente di Francia. Ma partiamo dal principio.

Virginia Oldoini nacque a Firenze il 22 marzo del 1837. Era la figlia del marchese Filippo Oldoini e di Isabella Lamporecchi. Fino all’adolescenza visse nel palazzo nobiliare di La Spezia, in un ambiente familiare austero.

Il padre non si interessò alla sua educazione e delegò il compito al nonno Ranieri, che le offrì un’istruzione privata. La marchesina crebbe acuta e intelligente, imparò il francese, il tedesco e l’inglese.

A 16 anni era già consapevole della sua bellezza e i genitori si affrettarono a trovarle un marito per contenerne l’indole libertina. I rampolli della nobiltà italiana si fecero avanti, ma ebbe la meglio un vedovo facoltoso, il ventottenne Francesco Verasis Asinari, conte di Costigliole d’Asti e Castiglione Tinella, che si aggiudicò la mano della marchesina.

Si narra che il conte rimase così folgorato dalla sua bellezza che, pur di averla, le promise un sontuoso ingresso in società e vizi materiali di ogni sorta. L’unione fu celebrata in pompa magna il 9 gennaio del 1854, nella cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore. Virginia voleva vivere nel lusso e il marito subito s’indebitò per ordinare dei lavori al palazzo torinese di via Lagrange, dove andarono a vivere, e la restaurazione della villa di famiglia a Costigliole d’Asti. Lì, la contessa partorì il suo unico figlio, Giorgio, il 9 marzo del 1855, ma la maternità fu solo una breve parentesi di 9 mesi. Il giovane Verasis morì di vaiolo nel 1879 e per sua madre, una donna sempre assente, non nutrì altro che odio.
Il marito, che era capo del gabinetto privato e 1° scudiero del re, la introdusse alla corte di Vittorio Emanuele II, dove intrecciò le prime relazioni adultere. In quel periodo sedusse ben tre principi Doria, un’antica e nobile famiglia genovese. Se si tiene in conto quel che dicevano le malelingue dell’epoca andò a letto con tutti e tre. Insieme. I pettegolezzi e la contessa viaggiavano in simbiosi: amava far parlare di sé e osare oltre i limiti della morale.
Un’altra sua celebre massima fu:
Non mi piacciono le mezze misure, le mezze parole, le mezze fiduce, le mezze ignoranze e i mezzi amori. O tutto o niente

Il suo carattere civettuolo e quell’aura mistica da dea della seduzione, però, scatenarono la gelosia del marito e dopo solo un mese di matrimonio nacquero i primi dissapori coniugali.
“13 febbraio (1854; n.d.r.). Ho pranzato da sola nel mio boudoir. Verasis è venuto a dirmi che vuole separarsi, poi è venuto con me a letto per fare la pace”.
Tutto ciò che sappiamo della sua sfera privata lo dobbiamo ai suoi diari, fra le cui pagine emerge che la contessa fosse pienamente consapevole di avere una personalità camaleontica, che le permetteva di adattarsi a qualsiasi situazione, ma sempre alla scopo di dominare il prossimo. Se risultava antipatica, se la odiavano, ammiravano o invidiavano, non le importava. In qualsiasi modo, voleva che il suo ego prevalesse sugli altri. Amava scrivere di sé e narrarsi, perché si sentiva un’eroina romantica, ma, oltre che bella, era una donna astuta. Per evitare che qualcuno leggesse cose sconvenienti usava delle sigle per camuffare i dettagli delle sue avventure. E stava per carezze, B per bacio, BX per molto più di un bacio ed F per rapporto completo.

Ma Virginia era anche fragile. Piangeva spesso ed spesso andava in depressione. Durante la giovinezza le debolezze dell’essere erano un effetto collaterale, di poco conto. All’esterno nulla poteva scalfirla. Era la protagonista indiscussa di un gioco dove lei dettava le regole, dove l’invidia altrui era il suo pane quotidiano. Con un carattere tanto inusuale per un’aristocratica dell’Ottocento non passò molto prima che Camillo Benso, conte di Cavour e cugino di Verasis, si accorgesse di lei.

A quei tempi il Regno di Sardegna si trovava in una fase storica delicata. Il primo tentativo di cacciare gli austriaci dal Lombardo-Veneto era fallito. Nel 1852 Cavour fu eletto presidente del Consiglio dei ministri e intuì che il Regno di Sardegna era troppo debole per tenere testa all’Austria e necessitava dell’appoggio di un’altra grande potenza, ma, prima di stringere un’alleanza, la questione italica doveva assumere una rilevanza politica internazionale.

L’occasione perfetta si presentò con la Guerra di Crimea, che, dal 1853 al 1856 vide Inghilterra, Francia e Impero Ottomano contrapporsi all’espansionismo russo. Nel 1855 il Regno di Sardegna si schierò al fianco dei francesi e partecipò al conflitto con circa 18.000 uomini. In seguito alla sconfitta dell’Assedio di Sebastopoli nel settembre del 1856, la Russia capitolò e iniziarono i preparativi per il Congresso di Parigi, dove ogni delegazione avrebbe discusso i termini della resa. Napoleone III, che aveva apprezzato l’intervento italiano, propose che anche la corte sabauda vi partecipasse, ma le altre potenze europee, Austria in primis, non erano d’accordo. E lì ebbe inizio la missione, se così la si può definire, di Virginia Oldoini.

Cavour voleva che il Regno di Sardegna sedesse al “tavolo dei grandi” del Congresso e, in seconda istanza, che le delegazioni discutessero anche della questione italiana.
Ma le semplici relazioni diplomatiche bastavano per influenzare la politica europea?
La diplomazia è cosa buona e giusta, ma Cavour si assicurò un piano di riserva: chiese alla contessa di Castiglione di sedurre Napoleone III e perorare la causa italiana.
Dovete riuscire, cugina mia. Non importa con quali mezzi, ma dovete riuscire
Virginia accettò senza indugio. Chissà se aveva intuito che da semplice nobildonna potesse diventare un’eroina del Risorgimento…

Verasis, che era all’oscuro di tutto, accontentò ancora una volta la moglie e acconsentì al trasferimento. Virginia giunse a Parigi agli inizi del 1856 insieme a Costantino Nigra, uomo di fiducia di Cavour, che la affiancò nella missione e la rese una spia a tutti gli effetti, stipendiata, con un fondo segreto a sua disposizione e un cifrario numerico per la comunicazione epistolare con le alte sfere sabaude.

Debuttò in società, partecipò agli eventi e si mosse con disinvoltura negli ambienti parigini. Diversi uomini caddero ai suoi piedi, le donne, come consueto, iniziarono a odiarla e, al contempo, invidiarla. La principessa di Metternich la definì “una statua di carne”. Il primo incontro con Napoleone ebbe luogo in casa di Matilde Bonaparte, cugina dell’Imperatore, ma, anziché partire all’attacco, la contessa volse lo sguardo altrove. Ebbe una serie di flirt minori, di cui il più significativo fu con il barone Rothschild, uno dei banchieri più ricchi di Francia.

Verasis non resse l’onta delle voci su sua moglie e tornò in Italia con il figlio. Pur amandola, forse per salvare le apparenze, si separò da lei, ma continuò a sostenerla economicamente. La crisi matrimoniale, però, non scalfì la contessa, che andò avanti per la sua strada. In poco tempo, Napoleone si infatuò di lei e cominciò a corteggiarla, ma Virginia tergiversò e lo tenne sulle spine. Infine, galeotta fu una festa al castello di Compiègne.

La contessa cedette, se così possiamo dire, alle avance dell’Imperatore, e gli concesse le sue grazie. Come lei stessa ribadì, le bastò mezz’ora d’amore per “cambiare la storia d’Italia”. Quella notte indossava una vestaglia di seta verde, una reliquia che conservò per tutta la vita in una boccia di cristallo.

Ma apriamo una breve parentesi storica.
Virginia Oldoini ha davvero giocato un ruolo fondamentale nell’Unità d’Italia? E Cavour pensò davvero che una donna avrebbe potuto cambiare i destini della geo-politica europea?
Il dibattito sul coinvolgimento dello statista piemontese si esaurisce con una sua lettera molto esplicita.
“21 febbraio 1856. Caro collega, vi avverto che ho arruolato nelle file della diplomazia la bellissima contessa di Castiglione; invitandola a conquérir e ove d’uopo (a conquistare e al momento opportuno; n.d.r.) sedurre l’Imperatore. Essa ha cominciato discretamente la sua parte al concerto delle Tuileries di ieri”.

Infine, la delegazione dei Savoia prese parte al Congresso di Parigi e, grazie al supporto di Napoleone III, Cavour discusse della questione italiana davanti a tutte le grandi potenze europee. In seguito Francia e Regno di Sardegna strinsero un’alleanza che favorì la vittoria nella Seconda guerra d’Indipendenza contro l’Austria, e il 17 marzo del 1861 nacque il Regno d’Italia. La contessa portò a termine il suo compito, ma non cambiò la storia della penisola. Cavour la volle nel letto dell’Imperatore per rafforzare il legame tra Francia e Italia, magari per influenzare il sovrano; tuttavia, Napoleone aveva già di per sé buone ragioni politiche per supportare il Regno di Sardegna.

E ora torniamo alla contessa. A soli diciannove anni, Minà, come la chiamava Napoleone, era esattamente dove voleva essere: al centro dell’attenzione di mezzo mondo. Divenne la favorita del sovrano e questi le concesse un sontuoso appartamento a Rue de Passy, 40.000 franchi al mese, e la ricoprì di regali di grande valore. Le malelingue si scatenarono e le nobildonne le affibbiarono l’appellativo poco lusinghiero di “vulva d’oro”. Mentre allietava le notti di Napoleone, rimase folgorata dalla fotografia e cominciò un lungo sodalizio con lo studio del celebre Pierre-Louis Pierson, diventando una musa di sé stessa, se così possiamo dire, e trasformarsi in un’opera d’arte vivente.

Nel primo periodo parigino la contessa dettò moda e cementò la sua posizione attraverso amicizie molto influenti, ma il suo dispendioso tenore di vita necessitava di grandi fondi, e per mantenerlo ideò un audace stratagemma finanziario. In tempi in cui non esisteva la televisione, il telefono o la radio, Virginia riusciva a ottenere notizie con largo anticipo rispetto ai bollettini ufficiali grazie alla vicinanza con Napoleone III e la corte francese, e ciò le dava un enorme vantaggio per passare le informazioni alla sua fiamma il Barone Rothschild, e giocare in borsa con informazioni che nessun altro aveva.

A partire dal 1857 la sua stella cominciò a offuscarsi e si guadagnò l’astio della cattolicissima imperatrice consorte dei francesi Eugenia de Montijo, che la disprezzava per la sua immoralità. Rispetto a tutte le altre amanti di Napoleone, lei era spregiudicata, licenziosa, priva di ogni decoro; quindi, non è difficile immaginare il perché di una rivalità tanto accesa. D’altro canto, Eugenia era a conoscenza della sua amicizia con Nigra e sospettava che l’ingresso in società della contessa celasse dei fini politici. In un clima di tensione tutto al femminile, la notte del 2 aprile l’Imperatore si trovava nella dimora dell’amante quando le sue guardie del corpo sventarono l’attentato di matrice mazziniana di un gruppo di italiani. Virginia si ritrovò nell’occhio del ciclone, perché, oltre lei, solo i servizi segreti conoscevano gli spostamenti di Napoleone. In molti ipotizzarono che dietro l’attentato ci fosse Eugenia, che desiderava così tanto mettere in cattiva luce la rivale da orchestrare una messinscena.

Al di là delle illazioni, la contessa perse il suo appeal nei confronti del sovrano. Inizialmente i servizi segreti impedirono all’Imperaore di trattenersi fino a tarda notte dall’amante, ma, in seguito, lo stesso Napoleone trasferì le sue attenzioni su altre nobildonne. Virginia divenne un personaggio scomodo e il Ministro degli Esteri, forse su esortazione dell’Imperatrice, la invitò ad abbandonare la Francia.

La contessa tornò a Torino, dove ricominciò a frequentare l’ambiente dei Savoia, e fu l’amante di Vittorio Emanuele II, ma il sovrano, che preferiva le popolane alle nobildonne, aveva un’altra favorita, Rosa Vercellana. Virginia non riuscì a soppiantare la rivale e nel 1861, su intercessione di Nigra, ottenere il permesso di tornare in Francia, a patto che si tenesse alla larga dalla corte imperiale.

Nel secondo periodo parigino continuò il sodalizio con Pierson e diede vita a una lunga serie di ritratti fotografici. Non fu una semplice modella; anticipò i tempi e impresse drammaticità alla nascente arte fotografica. Curava personalmente ogni dettaglio e si dimostrò molto all’avanguardia nella scelta delle scenografie, dei costumi o delle acconciature.

Fra il 1861 e il 1867, Pierson la immortalò nei panni della Madonna, di una regina etrusca, di donne afflitte o sofferenti, come un’affascinante seduttrice o una vergine innocente. Ma Virginia si spinse oltre e scandalizzò l’opinione pubblica facendosi fotografare anche con gambe e piedi scoperti.

Le sessioni di posa con Pierson celavano un fine auto-celebrativo e, considerate nel complesso, le circa 450 fotografie furono una sorta di testamento su pellicola, un romanzo visivo della sua bellezza e della sua vita mondana. Ne è un esempio il fatto che la contessa amava posare con gli abiti con cui appariva alle serate mondane proprio per ricreare e rendere immortali quei momenti.

Nel 1867, uno dei suoi scatti più famosi, intitolato “Regina di Cuori”, andò in mostra all’Esposizione Universale e l’abito con cui aveva posato era legato a un particolare aneddoto. Lo aveva indossato nel 1857 a un ricevimento presso il Ministro degli Esteri francese; la sua particolarità era un grosso cuore all’altezza dell’inguine. Quando l’imperatrice Eugenia lo vide disse: «È un po’ troppo in basso quel cuore, signora contessa». Al che Virginia le rispose: «Il mio cuore batte ovunque».

Nel frattempo, il 30 maggio del 1861 suo marito prese parte al corteo nuziale del principe Amedeo di Savoia, secondogenito del re, ma cadde da cavallo e una carrozza lo travolse, uccidendolo. La vedovanza non la scalfì, ma la disfatta di Sedan del 1870 rimescolò le carte della politica Europea e la fine del Secondo Impero la costrinse ad abbandonare Parigi, per poi tornare nel 1872 sotto la Terza Repubblica.

Gli anni passavano, ma non per lei. Nella sua personale concezione di sé, Virginia Oldoini era sempre la donna più bella dell’Ottocento e continuò a collezionare avventure romantiche. Oltre a Costantino Nigra, con il quale intraprese una longeva relazione occasionale, ebbe altri 43 amanti, di cui ben 12 in contemporanea, gli uni all’insaputa degli altri.

Alla soglia dei quarant’anni, però, s’incamminò sul viale del tramonto. Il suo fascino da femme fatale si affievolì e si trasferì in un lussuoso appartamento a piazza Vendôme, dove coprì tutti gli specchi con un velo nero. Si chiuse nel lutto per la perdita della sua bellezza, e si narra che uscisse solo di notte e con il volto coperto. Nel 1893, la sua fragile psiche si aggravò ancora di più quando un ricco gioielliere acquistò l’intero stabile dove abitava e la costrinse a traslocare in Rue Cambon.

Il suo canto del cigno fu un’ultima collaborazione con Pierson. Nell’arco di due anni, fino al 1895, posò per una serie di ritratti fotografici in cui riprese gli abiti della sua giovinezza. Ma la modella non era più la stessa e il suo sguardo era malinconico e privo del brio, dell’estro, che aveva caratterizzato le sessioni di trent’anni prima.

Eppure, Virginia raccolse tutto il corpus fotografico della sua vita e tentò invano di aggiudicarsi un padiglione all’Esposizione Universale del 1900. Voleva che tutti la ammirassero per l’ultima volta in una mostra che, nei suoi piani, si sarebbe dovuta intitolare “La donna più bella del secolo”.

Ma proprio al tramonto di quel secolo che aveva visto nascere il suo mito, la contessa si chiuse in un esilio forzato. I suoi diari si trasformarono in un compendio di rimpianti e nostalgia e si negò a tutti, perché non voleva che qualcuno, prima fra tutti lei stessa, s’imbattesse in un’ultracinquantenne afflitta dalle piaghe del tempo.

Infine, a 62 anni, si spense in solitudine il 28 novembre del 1899, in seguito a un ictus. La sua morte non significò molto per l’opinione pubblica. Solo in pochi ricordavano chi fosse Virginia Oldoini, ma il Governo Italiano non si era dimenticato dei servigi spionistici della contessa, e incaricò un giovanissimo Carlo Sforza di bruciare ogni documento che testimoniasse i coinvolgimenti politici della contessa.

Ma non tutto andò perduto. A differenza degli atti ufficiali che la riguardavano, molti dei suoi diari si salvarono. Nelle ultime volontà, Virginia chiese di essere sepolta a La Spezia con la sua cara vestaglia di seta verde, ma non fu accontentata. Il suo funerale si tenne nel cimitero parigino di Père-Lachaise e vi parteciparono solo dieci persone.

Ma torniamo un secondo agli inizi del 1856. È facile immaginare cosa pensò la nobiltà francese quando la contessa di Castiglione debuttò in società, ma è altrettanto facile immaginare cosa pensò lei mentre incrociava lo sguardo delle altre e le giudicava dall’alto verso il basso.
Le eguaglio per nascita, le supero per bellezza

Una frase, tratta dai suoi diari, che ben riassume ciò che è stata Virginia Oldoini, perché quella bellezza di cui tanto si vantava fu davvero la sua forza e quando il tempo gliela portò via restò nuda, con le fragilità di una donna che aveva fatto di sé un’opera d’arte vivente.