Viola Liuzzo e James Reeb: la storia dei due bianchi uccisi dal Ku Klux Klan

Correva l’anno 1965: durante gli anni della lotta contro la segregazione razziale si chiedeva, a gran voce, il diritto di voto ai neri. Fin lì non vigeva il divieto ma in alcuni Stati del sud, tra cui l’Alabama, l’accesso era previsto solo tramite un apposito test di cultura generale degli Stati Uniti, con domande al limite dell’impossibile:

Soltanto l’1% per cento dei neri riusciva ad ottenere il pass.

Si organizzò quindi una storica marcia in Alabama, cui presero parte anche due persone bianche: Viola Liuzzo e James Reeb. Uccisi dal Ku Klux Klan, i due nomi diventeranno un punto di svolta verso la firma, a Washington, del Voting Rights Act (la Legge del diritto di voto).

Viola Liuzzo nacque l’11 aprile 1925 a California, in Pennsylvania, non lontano da Pittsburgh: il suo nome, all’anagrafe, era Viola Fauver Gregg ed era figlia di Eva Wilson, insegnante precaria e di Heber Ernest Gregg, minatore nel settore carbonifero e veterano della prima guerra mondiale. Il padre, poco dopo la nascita di Viola, perse la mano destra in un’esplosione sul lavoro e le uniche entrate finanziarie erano quelle di Eva: non erano però garantite, lavorando saltuariamente da una scuola all’altra.

La famiglia si ritrovò, dunque, costretta a spostarsi in continuazione: doveva non solo sfamare Viola, ma anche Rose-Mary, nata nel 1930. Vissero in Georgia, in Tennessee e infine in Michigan, dove la mamma rinunciò al sogno della cattedra per lavorare alla Ford di Detroit. Il continuo cambio ambientale non giovava a Viola, che nel frattempo non riuscì a concludere la scuola: lavorò in un ristorante e nel 1943 sposò George Argyris, il suo datore di lavoro, con cui ebbe due figlie, Penny e Evangeline Mary. La coppia divorziò, poi, nel 1949.

Viola Liuzzo e George Argyris:

Più tardi, Viola convolò a nozze con Anthony Liuzzo, sindacalista degli autotrasportatori appartenente al sindacato International Brotherhood of Teamsters (Fratellanza Internazionale dei Camionisti). Prese il cognome dal marito, originario di Reggio Calabria, e nacquero altri tre figli: Tommy, Anthony e Sally.

Ritornò poi a scuola, diplomandosi al Carnegie Institute di Detroit e laureandosi, poi, alla Wayne State University in infermieristica, lavorando, nel frattempo, come cassiera.

Fu proprio l’universo sociale di Detroit a spingerla all’attivismo: le marcate disuguaglianze, accompagnate dalla divisione razziale interna, portarono Viola ad appoggiare la causa dei diritti civili per i neri e a battersi in prima linea contro l’abbandono scolastico. Capiva come lo studio, per molte famiglie, fosse un costo insostenibile. Per protesta, Viola ritirò i suoi figli dalla scuola, organizzandogli la didattica a casa. Fu, per questo, arrestata, avendo violato l’obbligo scolastico della legge federale.

Dopo l’iscrizione, nel 1964, alla National association for the advancement of coloured people (l’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore), Viola strinse amicizia con l’afroamericana Sarah Evans, che sarà di enorme aiuto alla famiglia Liuzzo dopo il tragico omicidio di cui parleremo fra poco.

Il 1965 si preannunciava, poi, come un anno di lunghe lotte e tensioni: il 26 febbraio, a Marion, Alabama, l’afroamericano Jimmie Lee Jackson rimase ferito, morendo otto giorni dopo, da un proiettile sparato dall’agente James Bonard Fowler. Quel fatto, avvenuto durante una protesta pacifica, spinse Martin Luther King a dare vita alla grande marcia di marzo, pur con grandi difficoltà: mancavano le autorizzazioni dal tribunale federale e dal governatore dell’Alabama George Wallace, in quegli anni avverso alla lotta contro la segregazione razziale (se ne pentirà, cambiando idea, negli anni ‘70).

La prima marcia si tenne comunque, il 7 marzo, e passò alla storia come Bloody Sunday (la Domenica di sangue): furono attaccati, a colpi di manganello e lancio di gas lacrimogeni, circa 600 manifestanti che tentarono di oltrepassare il ponte Edmunds Pettus. La massa si disperse e si ritrovò nello stesso punto due giorni dopo, il 9 marzo.

La Bloody Sunday statunitense:

Un’ordinanza del giudice, nel frattempo, vietò agli agenti di sparare, onde evitare un altro clima di violenza, ma la folla indietreggiò: Luther King non volle correre il rischio di nuovi scontri. Dopo il Bloody Sunday, quel martedì fu ribattezzato come il Turnaround Tuesday (il Martedì dell’inversione di marcia) e parve essere un giorno tranquillo, almeno fino alla sera: nei pressi di un ristorante venne aggredito brutalmente il Reverendo James Reeb, proveniente da Boston e membro dell’organizzazione per i diritti civili Southern Christian Leadership Conference.

Nato a Wichita, Kansas, il 1° gennaio 1927, James si trasferì qualche anno dopo a Casper, nel Wyoming. Durante la seconda guerra mondiale, giovanissimo, fu arruolato nel corpo militare, ma per sua fortuna non combatté la guerra al fronte: fu designato come dattilografo e inviato ad Anchorage, in Alaska. Nel 1953 fu ordinato sacerdote presbiteriano dopo gli studi in teologia, a Princeton, in New Jersey.

Il revedendo James Reeb:

Sposatosi nel 1950 con Marie Deason e padre di quattro figli, scelse di assistere i malati e i poveri, portando con sé la famiglia ovunque: lavorò al General Hospital di Philadelphia e, cambiando sedi, assisteva le comunità nere e ispano-americane più in difficoltà fino a giungere a Boston. Quel 9 marzo c’era anche lui tra la folla di Selma e la sera si recò a cena in un ristorante assieme ad altri due religiosi, Clark Olsen e Orloff Miller: nei pressi del locale, però, un gruppo di membri affiliati al Ku Klux Klan intercettò James.

Preso a bastonate, cadde a terra riverso in una pozza di sangue ancora cosciente

A Selma c’erano due ospedali: quello riservato ai neri, che per ovvie ragioni non poté intervenire, e quello dei bianchi. Da lì, partì un’ambulanza, ma fu fermata, lungo la strada, da uno sceriffo ad un posto di blocco e non giunse mai a destinazione. Si provò, con la forza della disperazione, nella più vicina Montgomery, a 50 chilometri a est, ma non c’erano posti disponibili. Padre James dovette quindi essere trasportato a Birmingham, 120 chilometri a nord. Troppo, però, fu il tempo perso: passarono due, interminabili, ore. Operato d’urgenza alla testa, James cadde in coma e morì due giorni dopo.

La morte di James Reeb scosse l’opinione pubblica statunitense, anche quella conservatrice: com’era possibile che un sacerdote, bianco anglosassone e figlio dell’America presbiteriana, cadesse vittima del Ku Klux Klan?

Il memorial di James Reeb. Fotografia di Pensées de Pascal condivisa con licenza Creative Commons 4.0 via Wikipedia:

L’onda emotiva dovuta all’uccisione di Reeb portò, poi, alla terza marcia: questa volta, il giudice federale diede l’autorizzazione. E il 16 marzo, convinta al telefono da Martin Luther King in persona, Viola Liuzzo non ci pensò due volte: con la sua Oldsmobile fuoristrada percorse oltre 700 chilometri, partecipando alla marcia domenica 21 marzo.

Viola Liuzzo:

Accanto alla comunità afroamericana arrivarono a Selma i bianchi di ogni classe sociale, da tutti gli Stati Uniti: medici, operai, allevatori, studenti, attori e un consistente numero di reverendi protestanti, preti cattolici e rabbini. Furono percorsi, a piedi, 80 chilometri in 4 giorni. Destinazione: la piazza del tribunale di Montgomery, dove Luther King tenne il suo discorso. Passarono il Ponte Edmund Pettus di Selma in 3 mila e giunsero a Montgomery in 25 mila: Viola, in quei giorni, si spostava in macchina per accompagnare i manifestanti che volevano aggregarsi. Il 25 marzo, concluso il lungo cammino, fece da navetta per il ritorno a Selma, accompagnando un giovane diciannovenne afroamericano, Leroy Moton, lungo la Route 80.

Martin Luther King Jr:

Sostando per il pieno in una stazione di servizio, si fermarono quattro uomini che inveirono verbalmente, con insulti a sfondo misogino e razziale, contro Viola e Leroy. Appena ripreso il viaggio, i quattro risalirono in macchina seguendo la direzione di Viola: il semaforo rosso, per lei, divenne fatale. Schiacciato l’acceleratore, in un’area senza testimoni a Lowndesboro partirono due colpi di arma da fuoco che raggiunsero Viola alla testa:

Finì la corsa, col fuoristrada, in un fossato

Leroy, sopravvissuto alla sparatoria e cosparso di sangue, si finse morto nell’abitacolo: fu la sua salvezza. In cerca di soccorso, trovò un camion guidato da un reverendo, Leon Riley, anche lui di ritorno da Montgomery, ma non bastò: Viola era già morta. Dopo i funerali cattolici, tenuti a Detroit il 30 marzo alla presenza di Luther King, il Ku Klux Klan continuò a perseguitare la famiglia Liuzzo: messaggi di insulti a Viola, telefonate anonime di minaccia, croci in fiamme sotto casa nella tipica e macabra usanza del Ku Klux Klan e offese al marito Anthony, etichettato dal KKK come il “mafioso italiano”.

Che ne fu, poi, della giustizia dopo la morte di Viola e James?

Per l’omicidio di Viola Liuzzo furono subito arrestati Eugene Thomas, 42 anni, William Eaton, di 41, Gary Rowe, di 34 anni e Collie Wilkins, il più giovane di 21 anni.

Memorial a Viola Liuzzo. Fotografia di Carol M. Highsmith di pubblico dominio via Wikipedia:

Vennero condannati a 10 anni di galera Thomas, Eaton e Wilkins (colui che, stando alle testimonianze, sparò) mentre Rowe, presente in auto durante l’esecuzione, se la cavò in quanto informatore dell’FBI: per non perdere la credibilità popolare verso l’intelligence, l’allora direttore dell’FBI, Edgar Hoover, in diversi dossier difese Rowe, definendo Selma come “un luogo di orge, di consumo di droga e di violenza”. Puntò il dito anche verso Viola: solo il rapporto dell’autopsia sulla donna riuscì a contraddire Hoover. Fu escluso, infatti, l’uso di droga e ogni rapporto sessuale. Alla fine, tra gli imputati, Eaton morì prematuramente di infarto il 9 marzo 1966. Thomas scontò 6 anni. Rowe e Wilkins finirono sotto protezione, cambiando più volte identità.

Per il delitto di James Reeb, invece, vennero arrestati e accusati Elmer Cook, William Stanley Hoggle, Namon O’Neal e R.B. Kelley. Furono assolti in tre da una giuria di soli bianchi mentre il quarto, Kelley, fuggì in Mississippi, senza più tornare in Alabama (il processo apparteneva alla giustizia federale). Il caso fu riaperto nel 2007: solo Hoggle era ancora in vita e dalle indagini emerse la colpevolezza degli altri tre, ormai deceduti. Hoggle fu assolto nel 2011 e morì, ottantunenne, nel 2016.

Per l’omicidio di Reeb, dunque, nessuno ha mai scontato alcuna pena

I due omicidi spinsero il presidente Lyndon B. Johnson a firmare, il 6 agosto 1965, il Voting Rights Act, volto a proibire la discriminazione razziale nel voto. A Selma, invece, due strutture sono entrate nella memoria collettiva di quel marzo: la Route 80, con diversi cartelli che ricordano la sua storicità, e il Ponte Edmund Pettus che, paradossalmente, porta il nome di un politico e militare ottocentesco dell’Alabama appartenente al Ku Klux Klan. Da anni resta aperta la discussione su un possibile cambio del nome, una delle infinite stranezze di quel grande ma contraddittorio paese che sono gli Stati Uniti d’America.


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