Estate 1946: la seconda guerra mondiale è finita da un anno, ma non si può certo dire che sia ormai un ricordo. Troppo orrore, troppe devastazioni e ideologie aberranti hanno ridotto l’Europa a un cumulo di macerie. E comunque, pur se la guerra è finita, rimangono da risolvere spinosi problemi che sono ancora motivo di aspre e sanguinose contese, come la questione dei confini orientali dell’Italia: il maresciallo Josip Broz “Tito” rivendica per la Jugoslavia i territori di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, regioni dove, dopo l’armistizio del 1943, hanno di fatto governato con pugno di ferro i nazisti, con la collaborazione dei fascisti della Repubblica Sociale Italiana.
Terre martoriate dunque, dove alla lotta al nazifascismo si associano le rivalità tra italiani e slavi ed anche tra fazioni di fede politica diversa all’interno dello stesso movimento di Resistenza. Di quel periodo rimane la vergogna del campo di concentramento nazista di Trieste, la Risiera di San Sabba e lo sterminio di italiani perpetrato nelle foibe.
Repubblica Sociale Italiana – Le aree segnate in verde facevano ufficialmente parte della R.S.I. ma erano considerate dalla Germania zone di operazione militare e sottoposte a diretto controllo tedesco:
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La questione dei confini viene discussa proprio in quei giorni d’estate del ’46 a Parigi, alla Conferenza di Pace che porterà poi alla firma del Trattato di Parigi del 1947.
Le conclusioni sono note: parte della Venezia Giulia, l’Istria e l’intera Dalmazia diventano territorio jugoslavo, con il conseguente esodo di decine di migliaia di italiani che non si sentono al sicuro sotto il regime di Tito.
Dalla fine della guerra fino alla firma del Trattato, l’area in questione era stata divisa in due dalla cosiddetta Linea Morgan: la Zona A, amministrata da un Governo Militare Alleato, e la Zona B, amministrata dall’esercito jugoslavo.
La linea Morgan (in rosso) evidenzia Zona A e Zona B
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La città di Pola viene assegnata alla zona A e diventa di fatto il rifugio di molti italiani che si erano ritrovati a vivere nella zona B. In quell’estate del ’46 è ben chiaro che, se la città fosse stata annessa alla Jugoslavia, ci sarebbe stato un massiccio esodo di italiani (28.000 su 31.000 residenti avevano sottoscritto la volontà di abbandonare la città).
Tuttavia i polesani sperano ancora, a conferenza in corso, che alla fine prevalga il diritto dei cittadini a essere consultati in merito ai cambiamenti territoriali (previsto dalla Carta Atlantica). La città, un exclave a netta maggioranza italiana nella penisola istriana, controllata interamente da Tito, vuole mostrare la volontà di rimanere sotto la sovranità italiana con manifestazioni di stampo politico, come lo sciopero generale del 25 giugno, ma anche con eventi apparentemente meno incisivi, come delle gare di nuoto organizzate da una società sportiva locale, la Pietas Julia, valide per la qualificazione a un torneo italiano, la Coppa Scarioni.
Prima pagina dell’Arena di Pola uscito il 4 luglio 1946
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18 agosto 1946: è una caldissima giornata estiva e tantissime famiglie affollano la spiaggia di Vergarolla, dove si svolgono le gare di nuoto. Ci sono giovanissimi atleti impegnati nella competizione, mamme e papà con i loro bambini, insomma una gran quantità di gente che vuole trascorrere una tranquilla giornata al mare, lontana dai pur assillanti pensieri sul loro futuro.
La sede della “Pietas Julia”
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Invece quel 18 agosto si trasforma in un inferno: una strage che non ha ancora colpevoli (e probabilmente non li avrà mai) si porta via per certo 65 persone, più un numero imprecisato di vittime, polverizzate dall’esplosione di alcuni ordigni recuperati dalle acque del porto e lasciati sulla spiaggia.
Si trattava, almeno secondo la versione più conosciuta, di 28 mine antisbarco, alle quali gli artificieri, sotto la supervisione delle forze anglo-americane, hanno rimosso i detonatori. Secondo ricerche più recenti, condotte dello storico Gaetano Dato, che ha consultato documenti degli archivi britannici, si trattava di bombe antisommergibili e testate di siluro, comunque messe in sicurezza. E dovevano esserlo per forza, perché gli ordigni si trovavano sulla spiaggia già da molto tempo, tanto che i bambini ci si arrampicavano sopra per giocarci, sotto gli occhi vigili delle mamme.
Eppure, alle ore 14.15 di quel maledetto 18 agosto, un’esplosione squarcia l’aria immobile di agosto e si scatena l’inferno: corpi dilaniati proiettati verso il mare, la pineta in fiamme, il fumo acre che sale verso il cielo, e i gabbiani che banchettano con i brandelli di carne delle vittime (secondo le testimonianze riportate dal giornale Avvenire).
I morti accertati sono 65, ma resti non identificabili e non ricomponibili allungano la lista fino a un numero che supera il centinaio, oltre a cinque dispersi, probabilmente finiti in niente altro che polvere.
La colonna di fumo sprigionata dall’esplosione
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Ci sono poi i feriti, 211 persone che vengono quasi tutte traportate all’ospedale Santorio Santorio, dove opera il dottor Geppino Micheletti. La sua storia aggiunge strazio allo strazio: il chirurgo presta la sua opera per 24 ore consecutive, malgrado sappia che quell’esplosione gli ha portato via i suoi due bambini, di 9 e 6 anni, oltre al fratello e alla cognata. Del figlio più piccolo, Renzo, si troverà solo una scarpa.
Il dottor Geppino Micheletti
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Carlo e Renzo Micheletti
Immagine di Archivio Arena di Pola
Una strage dunque, seguita da un’indagine effettuata dagli angloamericani, che non individuano nessun colpevole, e a malapena concludono che “gli ordigni furono deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute”.
Nonostante questo, il dubbio sulla reale causa dell’esplosione rimane per molto tempo:
Incidente o attentato?
Nell’immediatezza dell’evento, i giornali italiani sostengono tesi che si adeguano al loro orientamento politico. Il quotidiano l’Unità, per esempio, titola: “Gli anglo-americani responsabili della strage di Pola”, a sostegno quindi dell’ipotesi di una “sciagura dovuta ad incuria dei colpevoli”, escludendo l’attentato terroristico, timidamente ipotizzato dalla Nuova Stampa di Torino.
D’altronde, se si fosse trattato di un attentato, la mano non poteva che essere jugoslava: un cruento modo per far capire a tutti gli italiani che era meglio scegliere la via dell’esodo, oppure, secondo un’ipotesi più recente dello storico Dato, per “bloccare l’insurrezione italiana in Istria in chiave anti-croata, tra l’altro sostenuta dallo stesso De Gasperi e dal generale Cadorna”.
Malgrado le indagini degli alleati non abbiano portato a nulla se non a escludere l’ipotesi dell’incuria, ci sono numerose testimonianze che indicano come più attendibile l’altra opzione: in tanti – compresi alcuni militari inglesi presenti – sentono il rumore come di uno sparo (l’innesco) e vedono un filo di fumo blu serpeggiare verso gli ordigni.
Una pagina della relazione finale della commissione d’inchiesta inglese
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Per chi ha assistito alla strage e ha avuto la fortuna di sopravvivere, non ci possono invece essere dubbi: fu un attentato. Attentato sconosciuto ai più e dimenticato dal governo italiano, sul quale nessuno ha mai veramente voluto fare luce, per motivi che all’epoca erano legati alla difficile situazione tra Italia e Jugoslavia – addirittura a rischio guerra – con inglesi e americani a frapporsi cercando di evitare il peggio. In quel contesto storico era poi indispensabile tenersi buono il maresciallo Tito, comunista sì, ma pur sempre ostile a Stalin…
Considerando la strage sotto quest’ottica, secondo il professor Dato, l’ormai conclusa seconda guerra mondiale stava gradatamente lasciando il posto alla guerra fredda.
Un’altra ipotesi dello storico, ancora più agghiacciante, è che l’attentato sia stato opera di “gruppi nazionalisti italiani” che volevano screditare Tito e addirittura innescare un conflitto tra USA e Jugoslavia, i cui rapporti erano comunque molto tesi.
Insomma, anche a Vergarolla, come nella migliore tradizione dello stragismo italiano, vi furono tanti colpevoli per finire in nessun colpevole…
Per approfondire: Vergarolla 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda – Gaetano Dato