Per un antico romano era importante svolgere il proprio dovere da buon cittadino e dedicarsi al negotium, ovvero al lavoro e alle faccende quotidiane, ma, come si suol dire, c’è un tempo e un luogo per ogni cosa, anche per il riposo e il dolce far niente, che in latino corrispondeva al termine otium, di cui negotium era appunto la negazione.

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Se il turismo, nella sua accezione moderna, è nato fra l’Ottocento e il Novecento, il concetto di vacanza – dal latino vacantia, che deriva dal participio presente di vacare, ossia “essere liberi o senza occupazioni” – esisteva già ai tempi dei nostri antenati, che praticavano una sorta di prototurismo, visitando spesso le meraviglie delle province orientali. Fra le mete preferite dei più facoltosi, gli unici che potevano permettersi determinati viaggi, c’erano soprattutto la Grecia e l’Egitto, ma quando a Roma il caldo si faceva insopportabile, ecco che iniziavano le ferie, dal latino feria, giorno di festa, da cui trae origine il Ferragosto, ovvero feriae augusti, introdotto dal princeps Ottaviano nel 18 a.C.

Dopo il negotium, il patriziato romano faceva i bagagli e migrava verso climi più freschi e località ideali per l’otium; una pratica che prese piede nel periodo che va dalla fine della repubblica all’inizio dell’età imperiale, fra il I secolo a.C. e il II secolo d.C.

Esistevano due tipi di vacanza: chi preferiva dedicarsi a un periodo di assoluta contemplazione si receva in campagna, immerso nel silenzio della natura e lontano dal caos dell’Urbe; chi era in cerca di qualcosa di più “movimentato”, invece, ripiegava sulle zone balneari.

Si partiva ad agosto, perché era il mese in cui il Senato sospendeva i lavori e, oltre alle mete di campagna, che variavano a seconda dei gusti personali, i romani avevano una particolare predilezione per il Golfo di Napoli, dove le destinazioni più gettonate erano Ercolano, Stabia e Oplontis (grossomodo l’odierna Torre Annunziata), tutte spazzate via dalla tremenda eruzione del 79 d.C.

Il capostipite dei colonizzatori estivi della Campania Felix fu Scipione l’Africano, seguito a ruota da sua figlia Cornelia, la celebre madre dei Gracchi, che era solita alloggiare a Miseno, a pochi passi dall’antica Baia, nel Golfo di Pozzuoli, frequentata da grandi personalità del calibro di Pompeo e Cesare.

Le coste partenopee erano una località molto apprezzata dalla nobiltà romana sia per la vicinanza all’Urbe sia per la presenza di varie sorgenti termali e l’abbondanza di ostriche e murene, che non potevano assolutamente mancare nei fastosi banchetti estivi dei vacanzieri. Uno dei primi a investire nell’acquacoltura a Baia – quindi anche nell’allevamento di ostriche – fu l’imprenditore Gaio Sergio Orata, che, nel I secolo a.C., iniziò a sfruttare la popolarità del Golfo di Napoli per ristrutturare e rivendere a caro prezzo le ville del litorale.

Ovviamente, la presenza di illustri personalità dell’Urbe attirò in Campania tutto il jet set romano dell’epoca, tanto che, come ci tramanda Orazio, a un certo punto, in acqua c’erano quasi più barche che pesci. Le migrazioni di massa dei patrizi diedero vita a una sorta di grande speculazione edilizia, con la costruzione di una moltitudine delle cosiddette ville dell’otium, imponenti residenze estive, non dissimili dai lussuosissimi resort di oggi, costruite a ridosso del mare e, in parte, andate perdute sott’acqua a causa del bradisismo – un fenomeno vulcanico che provoca l’abbassamento e l’innalzamento progressivo del suolo – che da sempre interessa i Campi Flegrei.

Proprio in quest’area ci sono i resti della villa imperiale di Pausilypon, dal greco “riposo dagli affanni”, che, nei suoi 90.000 m², comprendeva porticati, fontane, vigneti, boschetti, viali, terrazze, un teatro con circa 2000 posti a sedere e un Odéion adibito alle rappresentazioni musicali e ai concorsi di musica e poesia. Publio Vedio Pollione la fece costruire nel I secolo a.C., in una posizione molto suggestiva, con vista mare e panoramica su Napoli, Capri, Vesuvio e penisola sorrentina, per poi lasciarla in eredità ad Augusto e ai suoi successori, con Adriano che fu l’ultimo princeps a soggiornarvi prima del deterioramento ambientale.

Ma quella del Pausilypon non era l’unica villa dell’otium degna di nota. Ad esempio, a Stabia, presso la collina del Verano, abbondavano residenze estive con piscine, impianti termali privati, palestre e, quasi sempre, un accesso diretto sul mare, come villa San Marco, di 11.000 m², villa Arianna, all’incirca delle stesse dimensioni, ma più antica, o la villa del Pastore, che si estendeva su una superfice di ben 19.000 m².

A Ercolano, invece, c’era la villa dei Papiri (o dei Pisoni), così chiamata perché la sua biblioteca conteneva circa 1.800 preziosissimi rotoli di papiro. Apparteneva al suocero di Cesare, il console Lucio Calpurnio Pisone, che la fece costruire su due livelli a strapiombo sul mare fra il 60 e il 50 a.C.

Aveva agi e lussi di ogni sorta, ma fu gravemente danneggiata dal terremoto del 62 d.C. e finì sepolta sotto i detriti vulcanici dell’eruzione del 79; un destino condiviso con tutte le altre ville di Pompei e dintorni.

La domanda sorge spontanea: perché delle semplici residenze estive avevano giardini sconfinati, biblioteche, piscine, terme private, ippodromi, teatri e meravigliose sale ricche di statue e affreschi? L’otium serviva ad allontanarsi momentaneamente dal negotium, ma doveva comunque essere un riposo produttivo e, anziché star fermi a poltrire, bisognava godere di piaceri fisici e intellettuali, prendendosi cura del proprio corpo, leggendo, andando a caccia, uscendo in barca e organizzando banchetti accompagnati da spettacoli teatrali, di danza, musica e funamboli. In mancanza di strutture per svolgere determinate attività ricreative e turistiche – come quelle che abbiamo noi oggi – i romani, quindi, includevano tutto nelle ville, per far sì che, all’occorrenza, nulla venisse a mancare.

Ad agosto, infatti, il Golfo di Napoli si trasformava nel fulcro della vita mondana dell’Urbe e, oltre al patriziato, c’erano anche gli imperatori, ognuno con una sua meta prediletta. Se Augusto soggiornava a Pausilypon, il suo successore Tiberio preferiva l’isola di Capri, da cui governò per ben undici anni nell’enorme villa Jovis, mentre l’ultimo dei giulio-claudi, il princeps Nerone, amava trascorrere i momenti di otium a Baia, che abbandonò nel 59 d.C., per i troppi rimorsi in seguito all’assassinio di sua madre Agrippina minore nella vicina Bauli, nome antico dell’odierna Bacoli.

La grande popolarità di questi luoghi, però, attirò il dissenso dei romani più moralisti, che si lamentavano della troppa gente ubriaca sulle spiagge o dell’eccessiva lussuria “priva di ogni freno”, come scriveva Seneca, che abbondava sotto gli occhi di tutti. Per non parlare del poeta elegiaco Properzio, che sconsigliava alle madri di mandare le proprie figlie in vacanza a Baia, o di Marziale, secondo cui perfino la più pudica delle matrone “giungeva Penelope e ripartiva Elena di Troia”.

Poi agosto passava, arrivava settembre e si facevano i bagagli per tornare alla vita di sempre. Basta otium; basta gite e bagni a mare. Le ferie finiscono per tutti… Finivano anche per i romani.
Fonti:
- Matteo Liberti, La vacanza che non c’era, in “Focus Storia“, n. 166, luglio 2020
- Maria Leonarda Leone, In riviera con Nerone, in “Focus Storia“, n. 166, luglio 2020
- Roma va in vacanza – Storica National Geographic
- Dove andavano in vacanza i Romani? – Focus