8 marzo 1845. Roma è in fermento e il popolo accorre nei pressi della chiesa di San Giovanni Decollato per garantirsi un posto in prima fila attorno al patibolo. La ghigliottina è pronta, ma del condannato non c’è traccia. Passano le ore, il sole sale sempre più in cielo fino a iniziare la sua lenta discesa verso il tramonto; intanto si sparge una voce: il criminale del giorno rifiuta di confessarsi.
La folla rumoreggia, si agita, pretende che lo spettacolo cominci. All’improvviso riecheggia nell’aria uno squillo di trombe: è giunto il momento. Un lungo corteo scorta l’omicida sul luogo dell’epilogo. Ha le mani legate dietro la schiena, la camicia strappata all’altezza del collo. Mentre s’inginocchia al cospetto della lama, un soldato adagia una borsa di cuoio atta a raccogliere la testa e un monaco gli pone davanti un crocifisso, affinché lo sguardo di Cristo lo accompagni fino agli ultimi istanti. Un uomo con indosso un mantello scarlatto si avvicina e tende la mano per azionare la ghigliottina. Giustizia è fatta. La testa rotola nel cesto; il boia la afferra per i capelli e la esibisce per mostrare a tutti il destino di chi sfida la legge. Il boia in questione, però, non è uno fra tanti, ma è Mastro Titta, al secolo Giovanni Battista Bugatti.

Anche conosciuto con l’appellativo de “il boia di Roma”, il suo nome ha segnato un’epoca ed è diventato il paradigma di tutti i carnefici vissuti prima e dopo di lui, guadagnandosi una fama che ha attraversato la letteratura del XIX secolo fino ad approdare nelle sale cinematografiche. Entrato di diritto nell’immaginario comune del popolo capitolino, la sua storia è indissolubilmente legata al patibolo, un palcoscenico di cui fu assoluto protagonista.
Bugatti nacque a Senigallia il 6 marzo del 1779. La sua biografia è frammentaria, spesso contraddittoria, e le uniche nozioni dettagliate sono quelle professionali. Formalmente era un verniciatore di ombrelli, ma la tetra reputazione di cui godeva era legata al suo secondo lavoro. Era un maestro di giustizie, la mano incaricata di eseguire le condanne emesse dai tribunali del papa. Fino al 1870, anno della presa di Roma, la città era sede di una sorta di monarchia assoluta in chiave religiosa, governata da un sovrano che, pur essendo, formalmente, un ecclesiastico, esercitava il potere sulla falsariga di qualsiasi altro regnante europeo. La pena di morte era il destino finale di tutti coloro che sfidavano la legge vaticana, e qualcuno doveva pur svolgere l’incarico. Quel qualcuno, per un certo periodo, fu proprio Mastro Titta. La sua carriera sul patibolo fu una delle più longeve; esercitò la professione quasi ininterrottamente per 68 ben anni, al servizio di sei papi, da Pio VI a Pio IX, per una media di 7 esecuzioni annue. I condannati dell’epoca si sottrassero al boia solo per pochi mesi del 1849, quando la Repubblica Romana di Mazzini spodestò il Papa e abolì la pena di morte. Dopo l’interferenza di Napoleone III e la restaurazione del potere temporale di Pio IX, Mastro Titta riprese le sue mansioni.

Abitava nella cinta vaticana, sulla riva destra del Tevere, più precisamente, a Vicolo del Campanile, nel rione Borgo, a pochi passi da San Pietro. In cambio dei suoi servigi, i papi gli concessero uno stipendio, vitto e alloggio e, al contempo, ne salvaguardarono l’incolumità. Ovviamente, era mal visto dal popolo, quindi, per scongiurare linciaggi o ritorsioni da parte dei familiari delle vittime, gli era vietato attraversare ponte Sant’Angelo, se non nei giorni delle condanne, che avvenivano sulla riva sinistra del Tevere, principalmente a Piazza del Popolo, a Campo dei Fiori (dove Giordano Bruno fu arso vivo) e a Piazza del Velabro. Da questo particolare aneddoto sono nati due detti:
“Boia non passa ponte” e “Boia passa ponte”
Nel primo caso, il significato è generico: che ognuno stia al suo posto. Nel secondo caso, era un modo di dire per indicare che quel giorno qualcuno sarebbe passato a miglior vita.
Inviso a tutti per la sua fama di carnefice, paradossalmente, svolgeva un’attività che risultò essere l’intrattenimento preferito dal popolo. Negli anni dello Stato Pontificio, le esecuzioni erano all’ordine del giorno e intere folle di romani si accalcavano attorno al patibolo per assistere alla morte dei criminali. Era uno spettacolo macabro, ma ugualmente adatto a tutte le età e arricchito da una particolare tradizione dal valore pedagogico. Pare che gli uomini portassero con sé i figli maschi e, nell’esatto momento in cui i condannati subivano l’esecuzione di mastro Titta, erano soliti dargli uno schiaffo come monito a non sfidare mai la legge e rigare sempre dritto.
La carriera di Bugatti fu lunga e ricca di vittime. Ne conosciamo il numero esatto, 516 perché aveva l’abitudine di annotare tutto su un taccuino, anche se dal conto ufficiale va escluso un condannato fucilato e un altro impiccato e squartato dal suo aiutante. Ritrovato dallo scrittore Alessandro Ademollo e, successivamente, pubblicato nel 1886, recava data, nominativo, luogo, colpa e motivo della pena. Tutti questi dati da lui registrati, nel complesso, restituiscono a noi posteri un quadro generale di ciascun uomo passato sotto la sua scure.
Non operava solo a Roma, ma, in quanto boia ufficiale del papa, eseguiva condanne in tante altre zone dei possedimenti vaticani, come Ancona, Foligno, Macerata, Frosinone o Perugia. I capi di imputazione erano molto variegati e permettono di conoscere le cause che portavano le persone al suo cospetto. La pena di morte era prevista per i reati di cospirazione, criminalità organizzata, omicidio e grassazione (aggressione a mano armata a scopo di rapina). Per i crimini minori Mastro Titta sfoderava il suo pugnale e mutilava i malcapitati, asportando loro un occhio, tagliandogli un orecchio, il naso, la mano sinistra e, in caso di recidività, anche la destra.
I veri e propri condannati, invece, li giustiziava con il mazzolamento, ossia l’uccisione con un preciso colpo di mazza, l’impiccagione e la decapitazione con la scure. In quest’ultimo caso, l’avvento della ghigliottina, fresca introduzione dei venti rivoluzionari provenienti dalla Francia, facilitò il lavoro del boia. Qualora vi fossero delle aggravanti, ad esempio l’uccisione di un prelato, la legge pontificia prevedeva che Mastro Titta infierisse sui corpi esanimi, squartandoli e affiggendo gli arti attorno al patibolo.
L’esibizione dei resti di un criminale era uno degli elementi caratteristici delle esecuzioni e, anche nel caso della decapitazione, era usanza che la testa mozzata venisse presa per i capelli, mostrata al popolo e, infine, infilzata su una picca. Ogni sentenza sottostava a un preciso rito cerimoniale. Prima di svolgere il suo compito, Mastro Titta si confessava e riceveva la comunione, dopodiché indossava il suo caratteristico mantello scarlatto e s’incamminava lungo il ponte.
Anche al condannato del giorno era concesso un ultimo passaggio in chiesa per assicurare l’anima a Dio, ma rigorosamente con le mani legate dietro la schiena per impedirgli di fuggire. Da lì in avanti, veniva scortato al patibolo da un corteo che, a mo’ di processione, gli si raccoglieva intorno e camminava al suo fianco. In testa vi era il boia, seguito da alcuni soldati e dai frati incappucciati dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato. Questi ultimi, proprio come Mastro Titta, erano presenze fisse di ogni esecuzione. A loro spettava il compito di pregare lungo il cammino per i criminali prossimi alla morte, di raccogliere fra la folla offerte per le loro famiglie e conservare i cappi di ciascun impiccato. A spettacolo concluso, dopo i consueti riti di esibizione post-mortem, il boia ripuliva l’attrezzatura e faceva ritorno sulla riva destra del Tevere, in attesa di una nuova sentenza da eseguire.

Come da lui stesso riportato, Mastro Titta esordì sul patibolo a 17 anni il 22 marzo del 1796, quando impiccò e squartò a Foligno Nicola Gentilucci, reo di aver ucciso un sacerdote e due frati. Da allora, la sua carriera fu più che longeva e ogniqualvolta passava ponte la città accorreva in massa. Anche due grandi nomi della letteratura inglese furono testimoni del suo lavoro e, sebbene fosse nota la popolarità di quella macabra usanza, rimasero profondamente turbati da ciò che videro. Il primo fu Lord George Gordon Byron. A Roma di passaggio, il 19 maggio 1817 si imbatté nell’esecuzione di Giovanni Trani, Felice Rocchi e Felice De Simoni. A Piazza del Popolo assistette a un cerimoniale che, in una lettera al suo editore John Murray, definì:
Più impressionante del volgare e sudicio new drop (l’impiccagione; ndr.) e dell’agonia da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi
Nelle sue parole, l’autore lasciò trasparire una certa incredulità nel constatare come, al terrore di uno dei condannati, la folla contrappose un’ansia spasmodica per ammirare l’attimo fatale. L’8 marzo 1845, invece, fu il turno di Charles Dickens che, nel mezzo del suo tour per l’Italia, fu anch’egli testimone dell’ormai celebre boia di Roma. Era il periodo pasquale; solitamente non vi erano esecuzioni, ma per il malcapitato di quel giorno fu fatta un’eccezione. Come narrato dal padre di Oliver Twist nel suo libro Lettere dall’Italia, l’uomo aveva commesso un reato gravissimo, seguendo, derubando e uccidendo presso la Tomba di Nerone, lungo la via Cassia, una contessa bavarese in pellegrinaggio nella Città Eterna. Con perizia di particolari, ne descrisse l’atmosfera, i riti e l’inspiegabile boato orgiastico che accompagnò il calar della lama.
Non vi era alcuna manifestazione di disgusto, o di pietà, o di indignazione, o di mestizia. […] Fu uno spettacolo brutto, sporco, ributtante
Ciascuno a suo modo, gli inglesi fornirono dei resoconti minuziosi dei rispettivi eventi, ma ciò che più li colpì non fu l’atto in sé delle esecuzioni, piuttosto la reazione entusiasta del popolo, infatuato di quei macabri momenti permeati di morte e indifferente alla sventura altrui.
In ambito lavorativo Mastro Titta fu un libro aperto, ma a livello personale vi è una notevole divergenza d’opinioni. La sua figura, strettamente legata allo Stato Pontificio, è stata ripetutamente passata al vaglio delle correnti di pensiero anticlericali e per tutti i nemici del papa il boia era un cinico e freddo assassino, un macellaio che, sadicamente, gioiva nell’infliggere la morte ai condannati. Completamente in antitesi a questa lugubre descrizione, c’era chi affermava che, in realtà, era un bonaccione, un uomo dal viso sereno e paffuto che svolgeva quella mansione perché qualcuno doveva pur farlo.
D’altronde, Mastro Titta era molto professionale ed era solito rassicurare i condannati, promettendo loro di eseguire la sentenza con precisione e velocità. Talvolta, gli offriva un ultimo omaggio terreno: un sorso di vino o una presa di tabacco. A inquinarne ancora di più la memoria, cercando di estrapolare il suo lavoro dalle varie circostanze, alcuni anni dopo la presa di Roma, nel 1891, fu pubblicato il libro Mastro Titta, il boia di Roma: Memorie di un carnefice scritte da lui stesso. L’opera, che prendeva spunto dal suo personale taccuino, era un falso in chiave anticlericale, forse scritto dal giornalista Ernesto Mezzabotta, ma, ufficialmente, di firma anonima.
La carriera di Bugatti giunse al termine il 17 agosto del 1864, dopo oltre mezzo secolo. Alla veneranda età di 85 anni, giustiziò Antonio Olietti e Domenico Demartini, per poi lasciare il posto al suo allievo Vincenzo Balducci. Pio IX lo premiò con la concessione di una pensione di 30 scudi mensili e, fino al sopraggiungere della morte, si dedicò alla formazione di nuovi apprendisti a cui svelare i trucchi del mestiere. Si spense a Roma il 18 luglio 1869, al tramonto dello Stato Pontificio che per lungo tempo aveva servito. Da allora, Mastro Titta divenne sinonimo di boia, sia per i suoi successori sia per i predecessori. Ne è un esempio il sonetto n. 68 composto nel 1830 dal poeta Giuseppe Gioacchino Belli. Nei suoi versi narrò dell’impiccagione di Antonio Camardella, colpevole di aver brutalmente assassinato il suo socio in affari. La condanna fu eseguita nel 1749, ma il boia è ugualmente indicato col nomignolo di Mastro Titta, a riprova di quanto fu grande la fama che accompagnò il suo nome.
Nella parte finale Belli scrive:
Tutt’a un tratto, al “paziente”, Mastro Titta
appioppò un calcio in culo, e il papà a me
uno schiaffone sulla guancia con la destra.
«Tieni!», mi disse, «e ricordati bene
che questa stessa fine sta già scritta
per mille altri che sono meglio di te».
La memoria di Bugatti sopravvisse nell’immaginario comune della capitale che, dopo averlo visto come un onnipresente protagonista delle cronache giudiziarie dell’epoca, gli ha riservato uno spazio nel Museo Criminologico sito nel Palazzo del Gonfalone, dove è possibile osservare l’inconfondibile mantello scarlatto da lui indossato sul lavoro per 68 anni. Secondo una leggenda popolare, il suo fantasma si aggira alle prime luci dell’alba presso ponte Sant’Angelo, offrendo una presa di tabacco a chi lo incontra, come era solito fare per consolare gli sventurati che incrociavano il suo cammino sul patibolo.