Il 24 febbraio del 2022 è una data che già si è imposta nell’immaginario collettivo del XXI secolo. Non è solo il giorno in cui la Russia ha iniziato le operazioni militari in Ucraina, ma è il culmine di una crisi politica che ha radici molto profonde. Luoghi come il Donbass, l’Oblast del Lugansk o la Crimea non sono nuovi alle controversie fra questi due stati.
Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:
Nella storia dell’Ucraina si registrano questioni politiche, economiche e culturali che si protraggono da secoli. Parliamo di un popolo, quello ucraino, che non è mai stato unito e compatto, che è sempre stato in bilico fra occidente e oriente e, soprattutto, che non è ancora riuscito a integrarsi vicendevolmente fra genti che parlano lingue diverse, nella maggior parte bilingui. Se mescoliamo tutti questi elementi, il risultato è quello che oggi leggiamo sui titoli di giornale: l’Ucraina è uno stato sospeso a mezz’aria fra la Russia e l’Europa.

Per capire bene come questi contrasti siano iniziati torniamo indietro nel tempo e scopriamo quando ebbe inizio questa storia travagliata e, in particolare, come si è evoluta fino ai giorni nostri.

Durante l’Alto Medioevo, nelle regioni che oggi corrispondono alla Bielorussia, all’Ucraina e alla Russia occidentale, si insediò una popolazione, forse, di origine norrena, che si sovrappose a quella slava già presente nell’area, e fondò una sorta di monarchia chiamata Rus’ di Kiev.

Con l’avvicinarsi dell’anno 1.000, però, sorsero i primi problemi. Nel 998, il sovrano Vladimir I sposò la sorella dell’imperatore bizantino Basilio II e si convertì al cristianesimo insieme a tutti i suoi sudditi.

Kiev, quindi, entrò nell’area d’influenza di Costantinopoli e continuò a prosperare fino alla morte di Vladimir, quando i suoi successori diedero vita a una serie di lotte dinastiche che indebolirono il regno e lo resero più vulnerabile alle incursioni straniere. In quel periodo, dall’est, giunsero i Mongoli, che devastarono l’intera regione e divisero la Rus’ di Kiev in tanti stati vassalli.

A un certo punto, i Mongoli si ritirarono dall’area e tornarono a est, da dove erano arrivati. Di conseguenza, le popolazioni locali approfittarono del vuoto di potere e si spartirono le terre. La zona più occidentale andò al Granducato di Lituania, il cui re, Ladislao II Jagellone, sposò Edvige di Polonia e diede vita alla Confederazione polacco-lituana. I nuovi sovrani si ritrovarono a regnare su dei sudditi in prevalenza parlanti ucraino, ma vollero imporre la nobiltà polacca a discapito di quella ucraina. Oltre a un avvicendamento aristocratico poco gradito, ci fu anche un problema religioso, perché gli ucraini erano cattolici e i polacchi ortodossi. Tutti questi fattori spinsero gran parte della popolazione ucrofona ad abbandonare la Confederazione e spingersi più al centro, dove, oltre al Khanato di Crimea dei Tartari, si era formato l’Etmanato cosacco, uno stato autonomo dove finirono per convivere i cosacchi, i russi, i mongoli rimasti nella zona e gli ucraini scappati dai polacchi.

Gli ultimi territori che videro la ritirata dei Mongoli, però, furono quelli più orientali, dove un discendente diretto del primo Rus’ di Kiev, che aveva come base il piccolo villaggio di Mosca, si impose sempre di più e favorì la nascita del successivo Granducato di Mosca, antesignano della Russia zarista. Questo evento è uno di quelli che viene portato avanti come rivendicazione storica da Putin per quanto concerne il territorio ucraino.

La spartizione territoriale continuò anche negli anni successivi e, nel XVIII secolo, la zar Caterina II sfruttò l’annessione dell’Etmanato cosacco per estendere il dominio russo verso l’Ucraina centrale. Inoltre, insieme all’Impero austriaco, poi austro-ungarico, si spartì i territori ucraini della Polonia. Più nello specifico, la parte occidentale, quindi la zona di Leopoli, andò agli Asburgo e tutto il resto ai russi. In quel periodo l’Ucraina iniziò a farsi conoscere come granaio d’Europa grazie alle sue coltivazioni, ma i nuovi sudditi zaristi ebbero notevoli difficoltà ad adattarsi all’avvicendamento monastico per via di un’accanita politica discriminatoria e di russificazione.
Il motivo è semplice: la corte moscovita voleva favorire il trasferimento dei cittadini russi nei territori ucraini e bisognava spianare la strada anche a livello culturale. Il 18 luglio del 1863, il ministro dell’interno russo firmò la cosiddetta circolare di Valuyev, che bandì la lingua ucraina e i libri non russofoni. La situazione si inasprì nel 1876, con un decreto imperiale di Alessandro II. Da quel momento l’ucraino riuscì a sopravvivere solo nell’ambito familiare e, per entrare nell’élite della società zarista, gli intellettuali ucraini dovettero abbandonare la propria lingua madre.

Con queste premesse non è difficile immaginare la felicità della popolazione ucraina quando seppe della rivoluzione bolscevica. Grazie a Lenin, gli ucraini intravidero una via d’uscita, ma il frammentario mondo etnico, culturale e linguistico delle loro terre li portò a un periodo di totale anarchia.
A est nacquero due stati indipendenti, la Repubblica popolare ucraina, con capitale Kiev e dalla parte dell’armata bianca, e la Repubblica socialista sovietica ucraina, con capitale Charkiv e dalla parte dell’armata rossa. A ovest, invece, con la fine della Grande Guerra, nel 1918, la Galizia, ovvero la regione di Leopoli, che apparteneva all’Impero austro-ungarico, si scisse in due parti: una si unì alla Polonia e una proclamò la Repubblica Nazionale dell’Ucraina Occidentale.
Fra il 1917 e il 1922, quindi, ebbe luogo la convivenza poco felice di ben tre Ucraine, che, come è facile immaginare, non durò a lungo.

L’ascesa di Lenin sancì il ritorno delle repubbliche orientali sotto il controllo della neonata Unione Sovietica e i territori occidentali della Galizia se li spartirono Polonia e Romania, per poi restituirli all’Ucraina sovietica dopo la Seconda guerra mondiale.
Nel periodo compreso fra i due conflitti, però, l’avvento di Stalin provocò nuove sofferenze. Se da un lato Lenin aveva come obiettivo l’esportazione della rivoluzione comunista, dall’altro il suo successore preferì consolidare il fronte interno dell’Unione Sovietica, che, nel caso dell’Ucraina, equivaleva all’ennesima ondata di russificazione. In seconda istanza, Stalin non si era dimenticato dei disordini ucraini ai tempi della rivoluzione e, soprattutto, l’appoggio nei confronti dell’armata bianca.
Con queste premesse, coinvolse l’Ucraina nella sua scellerata riforma agraria e punì la popolazione attraverso la grande carestia dell’Holodomor, che causò milioni di vittime, ma di questo abbiamo già parlato in un video dedicato e censurato ai minori di 18 anni, grazie YouTube.

Il 22 giugno del 1941, il giorno in cui Hitler invase la Russia e diede inizio all’Operazione Barbarossa, rappresentò il culmine delle tensioni fra le due Repubbliche Socialiste. Il Führer si spinse verso Kiev e Odessa per sfruttarne le ricchezze e, paradosso dei paradossi, ci fu chi accolse i soldati della Wehrmacht come dei liberatori. Ancora una volta l’Ucraina si spaccò in due: a coloro che formarono un movimento partigiano contro gli invasori si contrapposero circa 30.000 volontari che si unirono ai tedeschi con un esercito di insurrezione e, addirittura, contribuirono all’Olocausto.

A fine guerra, Stalin riprese il controllo dell’Ucraina e punì i collaborazionisti, ma le relazioni fra i due stati si raffreddarono con l’avvento di Nikita Chruščëv, che, nel 1954, donò al governo di Kiev la Crimea. A questo punto, però, è necessario aprire una breve parentesi geopolitica. Il controllo della penisola era di fondamentale importanza per la Russia perché gli forniva il controllo strategico del Mare d’Azov, che, cartina alla mano, altrimenti non avrebbe avuto.

L’Ucraina, però, era pur sempre una repubblica socialista legata a Mosca, e il trasferimento si trattò di un atto di facciata, perché, nei fatti, la Crimea restava a piena disposizione del Cremlino.
La situazione mutò nel 1991. Con la disgregazione dell’Unione Sovietica, l’Ucraina divenne uno stato indipendente il 24 agosto del 1991, ma sorsero tre grandi problemi. I primi due riguardavano proprio la Crimea, dove risiedeva una popolazione in prevalenza russofona, al 77% circa, e vi erano stanziate diverse navi russe. In parole povere, la flotta di uno stato sovrano si ritrovò nei porti di un altro stato sovrano. In ultimo, in quanto ex membro dell’URSS, l’Ucraina ospitava delle testate nucleari. Nel 1994 si giunse a un accordo a metà strada fra le parti.

L’Ucraina smantellò alcune testate nucleari e il resto le restituì alla Russia, proprio come l’80% della flotta ancorata in Crimea. La penisola, invece, restò sotto il governo di Kiev, che, tuttavia, prestò ai vicini le basi navali di Sebastopoli, per sfruttarle in ambito militare.

Da quel momento, ebbero inizio una serie di avvicendamenti politici che si focalizzarono soprattutto sulla divisione fra filo-europei e filo-russi.

Il 19 luglio del 1994, Leonid Kučma, del Partito delle Regioni, vinse le elezioni e assunse la carica di presidente dell’Ucraina per due mandati. In quegli anni il suo governo non si sbilanciò sulla questione est e ovest, ma fu al centro di numerose controversie con lo scoppio del cosiddetto scandalo delle cassette, anche noto come Kuchmagate. Saltarono fuori delle registrazioni illegali in cui, fra le tante cose, il leader ucraino ammetteva di aver venduto armamenti a Saddam Hussein e, soprattutto, parlava di un possibile allontanamento di Gueorgui Gongadzé, un giornalista che era un suo fermo oppositore. Il 16 settembre del 2000, infatti, Gongadzé era scomparso nel nulla e le autorità ne avevano ritrovato il cadavere il successivo 3 novembre, in una foresta a 70 chilometri da Kiev.
Qualcuno lo aveva decapitato e immerso nell’acido

Il Kuchmagate sollevò dei più che ragionevoli dubbi sull’innocenza del premier, ma l’autenticità delle cassette non è mai stata provata in via definitiva. Lo scandalo ebbe notevoli ripercussioni sulla politica del paese, e nacque il movimento Ucraina senza Kučma, che unì, sotto un’unica bandiera, tutta l’opposizione. In questa coalizione vi era anche una componente nazionalista, con a capo la deputata Julija Tymošenko, che sposava l’idea di una politica filo-europea. In sostanza, l’Ucraina era divisa in due blocchi linguistici: a ovest c’era una maggioranza ucrofona, quindi a favore all’Europa, e a est una maggioranza russofona, più orientata verso la Russia. E’ bene specificare, però, che in tanti casi si tratta di popolazioni bilingue, che capiscono sia russo sia ucraino. In quest’ottica, il Vecchio Continente era il partner ideale per un partito come quello della Tymošenko, che, appunto, mirava a cementare il nazionalismo ucraino a discapito della componente russofona della popolazione.

La coalizione anti-Kučma si presentò alle elezioni del 2004 con Viktor Juščenko, che godeva di ampi consensi nell’occidente ucrofono. Il Partito delle Regioni, invece, candidò il primo ministro uscente, Viktor Janukovyč, che aveva il compito di risollevare la popolarità del partito dopo gli scandali di Kučma, e fece terra bruciata attorno al rivale. In sostanza asserì che Juščenko mirava a emarginare la popolazione russofona e si guadagnò il voto delle zone orientali, molto più ricche delle povere città occidentali.

Sempre nel 2004, Juščenko si ammalò. Il suo volto cominciò a gonfiarsi e comparvero delle eruzioni cutanee, con eritemi ed eczemi, che gli lasciarono delle cicatrici permanenti. Il responso tossicologico fu: avvelenamento da diossina per ingestione. Senza girarci troppo intorno, qualcuno cercò di ucciderlo e, forse, quel qualcuno fu proprio Janukovyč o un suo seguace.

Le votazioni per eleggere il nuovo presidente ucraino iniziarono a ottobre e si protrassero fino a una seconda tornata elettorale. Dai sondaggi si prospettava una vittoria schiacciante di Juščenko, ma i risultati del 21 novembre lasciarono tutti a bocca aperta:
Il popolo aveva scelto Janukovyč

L’incredibile abisso che separava i dati dei sondaggi dagli scrutini destò scalpore, e si venne a sapere di numerosi casi violenze e brogli nei seggi. Ebbe inizio la cosiddetta rivoluzione arancione, una protesta non violenta che chiedeva l’annullamento delle elezioni. Mentre i sostenitori di Juščenko scendevano in piazza, anche i pro-Janukovyč si fecero sentire e alcuni territori orientali minacciarono la secessione.

Il 3 dicembre, infine, la Corte costituzionale invalidò le elezioni, ne ordinò altre e il 26 di quel mese Juščenko fu eletto presidente, con la Tymošenko come suo primo ministro. Il nuovo governo, però, era palesemente filo-europeo, e la Russia si espose per evitare che l’Ucraina scivolasse via dalla sua sfera d’influenza. Il Cremlino attaccò sul fronte economico, revocò il prezzo di favore con il quale la Gazprom vendeva il gas all’Ucraina e aumentò la tariffa da 50 dollari a 210 dollari per ogni 1.000 m³.
Dal suo canto, l’Ucraina sapeva che i tubi della Gazprom passavano attraverso il suo territorio per giungere fino ai clienti europei; perciò, si rifiutò di pagare tutti quei soldi e minacciò di intercettare il gas per sfruttarlo a suo piacimento. Fra le due nazioni nacque un braccio di ferro che, infine, si risolse con un prezzo che accontentava entrambe le parti, ovvero 110 dollari per ogni 1.000 m³.

Mentre la politica estera ucraina sperimentava le sue prime diatribe con la Russia, sul fronte interno ricominciarono i dissidi ideologici quando, nel 2006, Janukovyč sconfisse la Tymošenko e riconquistò la carica di primo ministro. Per circa un anno si creò una fase di stallo deleteria, perché i vertici di Kiev viaggiavano su due binari completamente opposti. Il primo ministro era un filo-russo, ma il presidente, Viktor Juščenko, era filo europeo e osteggiò tutte le iniziative anti-europeiste del collega. Nel 2007, però, la Tymošenko riprese la sua vecchia carica, che durò fino al 2010, e già l’anno successivo firmò dei pre-accordi per una progressiva integrazione dell’economia ucraina con quella europea.

Ormai erano passati quasi vent’anni dall’indipendenza, e il paese si trovava di fronte a un bivio. Non c’era più tempo per far rimbalzare ancora una volta la palla dalla parte europea o dalla parte russa, e le elezioni del 2010 avrebbero mostrato dove puntava l’ago della bilancia.
A differenza delle tornate precedenti, però, il fronte anti-russo non era più compatto come una volta, e la neonata rivalità interna fra Juščenko e la Tymošenko, che si presentò per concorrere alla carica presidenziale, favorì la vittoria, questa volta legale, di Viktor Janukovyč. Il nuovo premier non se lo fece dire due volte e, oltre a frenare le iniziative europeiste del suo predecessore, si avvicinò all’orbita russa.

Prima di consolidare la posizione ucraina nella scacchiera euro-asiatica, però, aveva la necessità di sbarazzarsi della sua più grande oppositrice, ovvero la Tymošenko, che fu accusata di malversazione di fondi pubblici e corruzione. Il processo a suo carico la riconobbe colpevole l’11 ottobre del 2011 e il tribunale la condannò a 7 anni di carcere. Le proteste dei sostenitori della iron lady ucraina non mancarono, ma, il 29 agosto del 2012, la Corte suprema confermò la sentenza.
Con la Tymošenko fuori dai giochi, Janukovyč disertò la firma degli accordi stretti con l’Europa e gettò l’Ucraina nel caos. Quando la notizia divenne di pubblico dominio, nella notte tra il 21 e il 22 novembre del 2013, scoppiarono una serie di manifestazioni, anche violente, che partirono da Kiev e si diffusero a macchia d’olio. In poco tempo l’intero paese fu vittima del cosiddetto movimento Euromaidan, che chiedeva a gran voce il ritorno a una politica filo-europea, le dimissioni di Janukovyč e nuove elezioni.

A febbraio del 2014 la situazione divenne insostenibile e il controverso premier scappò in Russia, ma non mancò di bollare l’evento come un illegittimo colpo di stato.

Giunti a questo punto, la storia recente dell’Ucraina assume un carattere geopolitico ancora più marcato. Alle proteste degli europeisti si contrapposero quelle dei filorussi e, il 2 maggio del 2014, una di queste finì in tragedia quando, a Odessa, una fazione di estrema destra dell’Euromaidan costrinse i sostenitori di Janukovyč a trovare rifugio presso la Casa dei Sindacati della città. Gli anti-russi, in prevalenza appartenenti a frange della destra estrema, non si fermarono, e appiccarono un incendio che uccise circa 48 persone e ne ferì quasi 200.

In un’ottica più generale, la reazione dell’Ucraina dell’est non fu pacifica come in passato e, dato che lo spettro di un’adesione all’Europa Unita si stava materializzando sempre di più, le comunità russofone insorsero contro il governo. La prima in assoluto fu la Crimea, che chiese maggior autonomia. Il 27 febbraio del 2014, però, dalle parole si passò ai fatti quando dei soldati senza bandiera entrarono nella penisola, circondarono il parlamento e costrinsero i deputati a votare il distacco dall’Ucraina. Il successivo 4 marzo, Putin dichiarò pubblicamente che non ne sapeva nulla, e che i cosiddetti omini verdi non appartenevano all’esercito russo. Mentre quelle truppe anonime sorvegliavano i confini della Crimea per impedire un’eventuale controffensiva del governo di Kiev, un referendum popolare sancì l’annessione al Cremlino, poi ratificata da Putin il 18 marzo.
Dopo sessant’anni la Russia si riprese il totale controllo sul Mare d’Azov e un cruciale porto sul Mar Nero

Ad aprile fu il turno di altre zone russofone e, in particolare, del Donbass, dove i separatisti diedero vita alle repubbliche popolari di Lugansk e di Doneck.
Per spiegare il perché di questa sommossa popolare, facciamo un passo indietro e torniamo al XX secolo. Il Donbass era una regione che già in passato aveva sviluppato una grande economia e quando Stalin ne ottenne il controllo, dopo la Grande Guerra, la sottopose a un rigidissimo processo di russificazione. In seguito all’invasione dei tedeschi, che appunto miravano a sfruttarne le ricchezze, il leader sovietico riprese possesso del Donbass nel 1943 e continuò a favorire l’insediamento di una maggioranza russofona. Con queste premesse, la popolazione non accolse con entusiasmo la notizia dell’indipendenza ucraina e si crearono dei movimenti separatisti.

E ora, torniamo al 2014. Il governo di Kiev non restò a guardare mentre un’altra zona orientale si protendeva verso la Russia e, a differenza della Crimea, reagì mettendo in campo l’esercito. La controffensiva sortì l’effetto sperato e le truppe riconquistarono parte dei territori in mano ai ribelli. La risposta della fazione opposta non tardò ad arrivare e ricomparvero gli omini verdi, che aggravarono le tensioni fra i due schieramenti. Ancora una volta il Cremlino negò il suo coinvolgimento e l’Unione Europea tentò di mediare una soluzione. Fra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 entrò in atto il Protocollo di Minsk, che, in realtà, non mise a tacere le armi nell’Ucraina orientale, ma si limitò a ridimensionare il conflitto.

Nel frattempo, nell’immaginario collettivo della nazione si fece largo Volodymyr Zelens’kyj, l’attore protagonista di una serie televisiva, Sluha Narodu, traducibile come Servitore del popolo, che aveva riscosso molto successo. La popolarità del suo ruolo di capo di stato onesto confluì, nel marzo del 2018, in un vero partito, per l’appunto Servitore del popolo, che lo candidò con successo alle elezioni del 2019.

Da questo momento in poi, purtroppo, ha inizio l’attualità
In conclusione, possiamo dire che il conflitto che oggi è sotto gli occhi di mezzo mondo, è radicato in una divisione culturale e anche linguistica dell’Ucraina. Le zone più a ovest sono legate all’Europa; quelle più a est, alla Russia. Tutto ciò ha avuto inizio nel Medioevo e, dopo più di mille anni, sembra aver raggiunto un punto di non ritorno.

In una sua poesia Gianni Rodari scrisse:
Chissà se la luna
di Kiev
è bella
come la luna di Roma,
chissà se è la stessa
o soltanto sua sorella…
Ma son sempre quella!
– la luna protesta – […]
E, infatti, la luna è la stessa ovunque la si guardi, ma il problema è un altro. Chissà se domani, o dopo domani ancora, esisterà una Kiev da cui ammirarla. In fondo, siamo tutti sotto lo stesso cielo; un cielo che ora s’illumina di bombe.