Uccellacci e Uccellini: l’improbabile e Magnifico Sodalizio fra Totò e Pasolini

Una storia complessa e travagliata, l’incontro di due personalità geniali ma diverse come più non si può, la loro sorprendente amicizia e collaborazione: il risultato è un’opera che divide la critica dal pubblico (entusiasta la prima, freddo il secondo) ma, dopo oltre 50 anni, non perde un minimo del suo significato e fa ancora discutere, perché qualcuno si accorge di trovarci dentro qualcosa di cui, prima, nessuno aveva mai sospettato.

Stiamo parlando di “Uccellacci e uccellini”, il film che sia il regista Pasolini sia il protagonista Totò giudicavano il migliore delle rispettive carriere ma che è anche in assoluto il meno visto e meno apprezzato dal pubblico dell’intera cinematografia di entrambi, specie di Totò. Il pubblico, abituato a sganasciarsi davanti alle commedie e alle farse interpretate dal “principe della risata”, non gli perdonava mai i tentativi di uscire dal cliché che lo aveva portato al successo: dei due precedenti tentativi non comici, “Yvonne la Nuit” (1949) e “Il comandante” (1961), il primo non era stato un successo, il secondo era stato un vero flop. Eppure erano due buonissimi film di impianto tradizionale. Figuriamoci come poteva andare a finire con una pellicola ermetica, rarefatta e sperimentale come questa.

Ma Totò aveva sofferto per tutta la vita di un complesso di inferiorità rispetto al cinema d’autore. Non solo quello drammatico, ma pure quello comico. Nell’estate del 1954, durante una vacanza in Costa Azzurra, lo yacht su cui era imbarcato aveva attraccato accanto a un’altra imbarcazione su cui si trovava Charlie Chaplin. Totò aveva riconosciuto il grande Charlot, ma non aveva avuto il coraggio di presentarsi: si sentiva troppo inferiore.

Anche perché i critici del suo tempo gareggiavano con i censori nel massacrarlo, nel definirlo un guitto buono solo a far ridere i bambini e gli ignoranti

Così, quando Pasolini lo contattò, nell’estate del 1965, Totò non ci pensò due volte. Lui era monarchico, cattolico, tradizionalista, all’antica come può esserlo uno nato nella Napoli popolare del 1898. Pasolini era dichiaratamente gay e comunista (nel decennio precedente, Totò aveva avuto un bel po’ di scazzi perfino con il fraterno amico Peppino De Filippo, proprio a motivo dell’appartenenza di questo all’elettorato del PCI), sembrava veramente agli antipodi della sua concezione del mondo. In più, dopo averlo cercato nel modo più informale possibile (Totò era pure fissato con le buone maniere), si era presentato a casa sua, insieme a Ninetto Davoli, in jeans stinti e così sporchi che Totò, una volta andati via, aveva fatto lavare e disinfettare la fodera del divano su cui erano stati seduti. Pasolini gli aveva parlato di un progetto sicuramente interessante, ma anche oscuro, di cui aveva capito ben poco. Ma a 67 anni, quasi cieco e con il cuore malandato, non poteva permettersi di buttare via nessuna occasione. Forse disse di sì per disperazione, o forse intuì che, dietro la facciata delle differenze esteriori, lui e Pasolini appartenevano allo stesso popolo di eletti ed emarginati al tempo stesso, quello di chi nella vita o diventa un’artista o si autodistrugge (o, più spesso, fa entrambe le cose) e che sarebbe bastato frequentarsi per potersi intendere in un linguaggio comune.

Fatto sta che Totò si mise a disposizione del regista con un’umiltà che nemmeno un ragazzo alle prime armi avrebbe avuto. Lui, abituato a improvvisare (ma sempre in modo professionale: le sue gag meglio riuscite nascevano in camerino, nelle ore precedenti al ciak, quando si riuniva con la spalla Mario Castellani, gli altri attori e i collaboratori, e tutti insieme provavano le idee proposte da ognuno, scegliendo le migliori) e a sentirsi dire “buona la prima” a ogni registrazione, costretto a ripetere le stesse cose anche per 5 o 6 volte, inizialmente si sentì avvilito, ma poi si rese conto di scoprire in sé, ogni volta, delle potenzialità che durante la sua pur lunga carriera aveva sempre ignorato di possedere, e ne fu entusiasta come chiunque si trovi a vivere una seconda giovinezza. Del resto, Pasolini, Davoli e tutti gli altri, dagli attori ai tecnici, lo adoravano e non facevano nulla per nasconderlo, lavorava in un contesto in cui si sentiva circondato da stima e affetto.

Ciò non toglie, però, che il film era veramente complesso, tutt’altro che facile da mettere in scena e soprattutto da capire

Pasolini aveva dato una forma primordiale al soggetto tramite l’unione di tre fiabe che aveva pubblicato sul settimanale “Vie Nuove” nel maggio 1964, tutte e tre con titoli in Francese (non per vuoto snobismo ma perché rivolte ai critici francesi che avevano più duramente stroncato il suo film precedente, “Il Vangelo secondo Matteo”): “L’Aigle” (“L’aquila”) narrava di un uomo che tentava di addomesticare un’aquila senza riuscirci; “Faucons et Moineaux” (“Falchi e passeri”) trattava di due frati francescani, impegnati a convertire falchi e passeri al cristianesimo, che restavano sconvolti nel vedere come, nonostante la conversione, i falchi continuassero a dare la caccia ai passeri; “Le Courbeau” (“Il Corvo”) raccontava di un padre e di un figlio in cammino verso chissà dove, che venivano seguiti da un corvo parlante filo-marxista.

Di tutte queste storie (che apparivano, ovviamente, assurde e paradossali alle persone comuni) erano state proposte interpretazioni allegoriche improntate a un amaro pessimismo: soprattutto la figura dell’aquila che non si lascia ammaestrare nella prima fiaba era stata identificata con il “Terzo Mondo” che sembrava rifiutare lo stesso tipo di civilizzazione dell’Occidente perché questo avrebbe comportato l’abbandono delle proprie culture millenarie.

Passando alla sceneggiatura, però, Pasolini eliminò completamente proprio il contenuto di questa fiaba e ridusse la seconda a un semplice racconto narrato dal corvo protagonista della terza, che finì dunque per costituire l’ossatura della storia complessiva.

La Storia

Padre e figlio vanno camminando per una strada desolata di periferia, fanno alcuni incontri in un piccolo bar dove si sono fermati e poi assistono allo spettacolo di una coppia di coniugi suicidi per disperazione i cui cadaveri sono portati via da casa. Ripartono, avviandosi lungo un cantiere autostradale, e qui incontrano un corvo parlante, che li accompagna e racconta loro la parabola di frate Ciccillo e frate Ninetto che, nell’Umbria del XIII secolo, sono inviati da San Francesco a convertire i falchi e i passeri ma, dopo aver adempiuto alla loro missione, tornano tristemente dal Santo a riferire che, nonostante la conversione, i falchi continuano a mangiare i passeri.

Padre e figlio continuano il cammino, facendo altri strani e sgradevoli incontri: tra gli altri, dei poveracci ricoverati in un casolare diroccato, che il padre minaccia di sfratto, e un ingegnere che abita in una villa lussuosa, cui devono dei soldi, che gli aizza contro dei cani feroci quando gli dicono che non possono pagare. Ognuno di questi avvenimenti è commentato dal corvo con un moralismo sempre più insopportabile. Più avanti, padre e figlio vanno a Roma in autobus e assistono ai funerali del leader comunista Togliatti, poi incontrano una bellissima prostituta con cui fanno l’amore a turno in un campo. Il corvo non la smette di annoiarli con le sue prediche e, a un certo punto, stanchi di ascoltarlo e affamati, i due lo ammazzano e se lo mangiano, dopo di che riprendono il loro cammino verso chissà dove.

Benché gli avvenimenti sembrino susseguirsi in modo quasi casuale, a un occhio attento appare evidente come Pasolini utilizzi gli schemi della fiaba per denunciare il fallimento della “rivoluzione” marxista in Occidente, la stessa rivoluzione che, in una sua poesia dello stesso periodo, “non è più che un sentimento”. Una vera rivoluzione egualitaria potrà nascere solo direttamente dalle coscienze, non dalle ideologie, ma appare sempre più lontana (mai come oggi possiamo dire che aveva perfettamente ragione su tutti i fronti).

In quest’ottica, la maschera di Totò si impone come quella che incarna meglio di qualunque altra la condizione dell’uomo comune, comica e tragica al tempo stesso. Spogliato della “malvagità” sottintesa dalle sue tipiche gag (nelle quali infieriva spietatamente contro ogni tipo di debolezza umana, propria o altrui), appare come un personaggio inerme nella sua bontà istintiva, che si fa cattiveria quando la necessità di sopravvivere prende il sopravvento su tutto, perfino sulla propria natura. I falchi e i passeri della parabola sono chiaramente gli sfruttatori e gli sfruttati, la cui condizione non cambia nemmeno se cambiano le ideologie dominanti, e ognuno è sempre carnefice di qualcuno (il padre con i poveracci del casolare) e vittima di qualcun altro (l’ingegnere che gli aizza i cani contro).

Perché l’opera riuscisse bene, Pasolini ingaggiò anche Ennio Morricone come autore della colonna sonora e pretese che Totò non fosse doppiato da Carlo Croccolo (come avveniva sempre da quando i problemi di vista di Totò gli avevano impedito di sincronizzare il parlato con le immagini) ma si doppiasse da solo con l’aiuto di Oreste Lionello.

A fine lavorazione, Totò dichiarò che aveva capito solo una parte della sceneggiatura ma era comunque entusiasta del risultato. Il Premio Speciale della Giuria di cui fu insignito al Festival di Cannes, dove il film fu presentato nel 1966, e il Nastro d’Argento come miglior attore protagonista italiano nello stesso anno furono le maggiori soddisfazioni della sua carriera, la rivincita su tutti quelli che avevano passato la vita a stroncarlo.

La soddisfazione reciproca indusse Totò e Pasolini a progettare altre collaborazioni ma l’insuccesso commerciale del film chiudeva loro la possibilità che qualsiasi produttore gliene finanziasse un altro. Però c’era sempre la possibilità di partecipare con dei mediometraggi a qualche film a episodi del tipo che andava tanto di moda in quel periodo. Così Pasolini rinunciò all’idea di girare un “Pinocchio” con Totò nei panni di Geppetto e scompose un altro film che pensava di realizzare con lui in 4 episodi che avrebbero fatto parte di altrettanti film collettivi.

I primi due (“La Terra vista dalla Luna” e “Che cosa sono le nuvole”) furono inclusi rispettivamente nei film “Le streghe” e “Capriccio all’italiana” e sono due piccoli capolavori di struggente poesia, specie il secondo (nobilitato, tra l’altro, dalla presenza quali comprimari di artisti come Laura Betti, Adriana Asti, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Domenico Modugno), in cui Totò e Ninetto Davoli sono due marionette che finiscono distrutte dal pubblico che non apprezza la conclusione di uno spettacolo ma, gettate in una discarica, potranno finalmente ammirare il mondo che esiste fuori del teatro e restare affascinate dalla “straziante, meravigliosa bellezza del creato”.

Queste parole, tratte da un verso di Charles Baudelaire, sono le ultime che Totò pronunciò in scena. Morì d’infarto il 15 aprile 1967, poco dopo aver terminato la lavorazione di questa pellicola. Non poté vedere, con quel briciolo di vista che gli restava, nemmeno gli ultimi due film in cui aveva recitato, usciti rispettivamente nel 1967 e nel 1968. Gli ultimi due episodi della quadrilogia che Pasolini aveva immaginato per lui non sono mai stati girati: i loro soggetti (“Le avventure del Re Magio randagio e del suo schiavetto Schiaffo” e “Mandolini”) restano a testimoniare il rimpianto per la troppo rapida fine di uno dei sodalizi artistici più produttivi della nostra recente storia culturale.

Roberto Cocchis

Barese di nascita, napoletano di adozione, 54 anni tutti in giro per l'Italia inseguendo le occasioni di lavoro, oggi vivo in provincia di Caserta e insegno Scienze nei licei. Nel frattempo, ho avuto un figlio, raccolto una biblioteca di oltre 10.000 volumi e coltivato due passioni, per la musica e per la fotografia. Nei miei primi 40 anni ho letto molto e scritto poco, ma adesso sto scoprendo il gusto di scrivere. Fino ad oggi ho pubblicato un'antologia di racconti (“Il giardino sommerso”) e un romanzo (“A qualunque costo”), entrambi con Lettere Animate.