Ci troviamo nella Marca Trevigiana, nella prima metà del XIII secolo. Alla corte di Alberico da Romano soggiorna un enigmatico e influente personaggio, proveniente dal sud della Francia. Il suo nome è Uc de Saint-Circ. Si tratta di una figura decisiva per la ricezione e la diffusione della poesia provenzale al di fuori dell’area linguistica occitana. Ma cosa lo aveva condotto a stabilirsi alla corte di Alberico?
Sotto, miniatura raffigurante Uc de Saint-Circ:
Figlio di un povero vassallo, Uc de Saint-Circ intraprese inizialmente, a Montpellier, lo studio della teologia per diventare chierico, ma in seguito interruppe gli studi e si fece giullare. Entrò quindi al servizio del conte Enrico I di Rodez. Rimase fedele al suo signore anche quando, nel corso della sanguinosa crociata antialbigese, i baroni del nord invasero e conquistarono le ricche terre del mezzogiorno. Fu proprio questa scelta a costringere Uc, dopo la vittoria dei crociati, a fuggire altrove. Si diresse dapprima verso la Spagna, dove girovagò per alcuni anni tra Castiglia, Catalogna e Aragona. Infine, riparò in Italia trovando la protezione del signore di Treviso, lasciandosi alle spalle il suo ingombrante passato.
Papa Innocenzo III scomunica gli Albigesi (a sinistra). I crociati massacrano gli Albigesi (a destra):
Qui, Uc de Saint-Circ si dedicò alla stesura degli scritti che lo resero celebre. Scrisse infatti numerose biografie (le cosiddette vidas) dei principali trovatori provenzali, accompagnandole con un commento esplicativo delle ragioni (razos) che avevano indotto i poeti in questione a comporre i loro testi. Per comprendere la portata innovativa di questo lavoro, dobbiamo calarci nella mentalità dell’epoca. Oggi, a noi eredi della cultura romantica, sembra del tutto normale associare un testo alla biografia di un autore, magari per spiegarne il significato proprio alla luce dei dati biografici.
Non era così tuttavia per la cultura del XIII secolo. Sia in ambiente monastico sia in quello laico, gli autori avevano al contrario la tendenza a ritirarsi sullo sfondo, lasciando campeggiare in primo piano i componimenti. In virtù del loro significato mistico-allegorico, i testi acquistavano infatti una natura quasi atemporale, universale, che non poteva pertanto ridursi ad un’esperienza particolare e storicamente determinata. Con le vidas di Uc de Saint-Circ, invece, i fruitori della poesia occitana si trovarono di fronte ad una mescolanza inedita di arte e biografia. Questo contribuì in maniera straordinaria a spargere la fama dei trovatori provenzali, ma provocò anche un impoverimento dei testi stessi, i cui molteplici significati venivano spesso sottoposti a una lettura banalizzante. Fiorivano aneddoti salaci e fantasiosi, venivano fatti i nomi delle dame, si identificavano castelli e nobili famiglie.
Tra le motivazioni che potrebbero aver spinto Uc de Saint-Circ alla promozione di un simile appiattimento, Lucia Lazzerini (Università di Firenze), ne suggerisce una del tutto plausibile: “Il corpus della poesia trobadorica era, probabilmente, l’unico patrimonio che [Uc de Saint-Circ] aveva portato con sé al di qua delle Alpi: un patrimonio guardato con sospetto, a causa dei noti eventi d’Occitania, dai tutori dell’ortodossia. Si trattava di farlo fruttare senza incorrere in infortuni; (…) così Uc disinnesca i fattori di rischio precostituendo interpretazioni innocue, dissipando l’ambiguità congenita, scovando referenti veri o presunti per distogliere da infidi significati transletterali“. In altri termini, sarebbe stata una mossa dettata dall’opportunismo dell’ex fautore della parte albigese, preoccupato di allontanare da sé le possibili accuse di eresia.
Tra le vidas che ebbero maggiore risonanza troviamo sicuramente quella del trovatore Guillem de Cabestanh, la cui storia divenne presto leggendaria. Innamoratosi della moglie di Raimon de Castel Rossillon, il poeta intrecciò con la dama una relazione segreta. Venuto a conoscenza della tresca, Raimon mise subito la moglie sotto stretta sorveglianza. Un giorno, incrociò Guillem che passeggiava senza una valida scorta, e lo uccise. Gli strappò quindi il cuore dal petto, e incaricò uno scudiero di portarlo al castello con l’ordine di farlo arrostire con una salsa al pepe. La tavola venne imbandita, e Raimon de Rossillon fece servire il cuore dell’amante sul piatto dell’ignara moglie. Solo dopo che l’ebbe mangiato, la dama si sentì rivelare l’atroce vicenda. «Et ella, quant o auzi» ci racconta Uc, «perdet lo vezer e l’auzir». Ed ella, quando lo seppe, perse la vista e l’udito. Quando poi riuscì a riprendere i sensi, si alzò tremante da tavola e disse al marito: “Signore, mi avete dato un cibo così buono che non mangerò più altro“. Raimon, inferocito, fece appena in tempo a brandire la spada. La donna corse al balcone e, sconvolta, si lasciò precipitare nel vuoto della notte occitana.