Nella Commedia, le anime dannate che Dante incontra all’Inferno sono per la maggior parte, dopo i suoi conterranei toscani, di provenienza romagnola. L’Alighieri non esita a tuonare contro le nuove generazioni romagnole, rabbiose e crudeli, pronte a tutto pur di soddisfare la brama di potere e gli interessi particolari, insensibili agli esempi virtuosi degli antenati: “Oh Romagnuoli tornati in bastardi!” (Purgatorio XIV 99).
Nella piccola città di Faenza, in provincia di Ravenna, di bastardi veri, famigerati già al loro tempo, ce ne sono due: Tebaldello Zambrasi e Frate Alberigo Manfredi. Dante li trova nel più profondo dei gironi infernali, dove l’eterno gelo attanaglia le peggiori anime dannate, quelle dei fedifraghi, di coloro che hanno tradito la fiducia della propria patria e della loro stessa famiglia.
Dante incontra Bocca degli Abati (Canto XXXII). Illustrazione di Paul Gustave Doré.:
A fine Duecento lo scontro tra guelfi e ghibellini alimenta le guerre tra Comuni e dilaniano le città dall’interno. I nobili cavalieri formano una casta guerriera, sono irrequieti, prepotenti e armati, sempre pronti a snudare la spada per ottenere ciò che vogliono con la violenza. Posseggono terre e villaggi nel contado, sul lavoro dei contadini mantengono il loro tenore di vita, fanno costruire torri fortificate nel centro cittadino per difesa e prestigio. I cavalieri sono tenuti a seguire rigidamente il codice d’onore, che gli viene inculcato sin dalla più tenera età.
Si tratta di un insieme di regole ereditate dalle antiche consuetudini germaniche, tramandate oralmente di generazione in generazione, che possono riassumersi in un unico assunto: mantenere la parola data e difendere l’onore proprio e della propria famiglia a qualsiasi costo, lavando col sangue le offese subite mediante vendetta, faida o duello giudiziario. La vendetta può essere anche trasversale, cioè può colpire anche un parente dell’offensore, per dare onorevole soddisfazione, ma dovrebbe rispettarsi una certa proporzione tra offesa e vendetta. Se invece la reazione è abnorme rispetto all’offesa allora si tratta di una violenza deliberata e iniqua. E proprio questo è il caso di Tebaldello.
Atto primo. Faenza. A.D. 1281. Tebaldello figlio di Garatone de’ Zambrasi è il rampollo di una delle famiglie più potenti di parte ghibellina. Faenza ha accolto da circa un anno i ghibellini bolognesi della famiglia Lambertazzi, scacciati definitivamente da Bologna da parte dell’odiatissima famiglia rivale dei guelfi Geremei. I giovani Lambertazzi sono irruenti e spacconi, si divertono tra bagordi, sbornie ed epiche goliardate e una di queste ha come vittima designata proprio Tebaldello. Questi, secondo l’uso comune, ha allevato una piccola scrofa che tiene in strada, fuori dall’uscio di casa.
Un giorno il suino sparisce, e il suo padrone viene ben presto a sapere che responsabili del furto sono i Lambertazzi di Bologna.
Maledetti, come hanno osato, da ghibellini e ospiti nella nostra bella città?
Eccoli là a banchetto, davanti alla “maltolta porchetta”, a bere, mangiare e sbeffeggiare Tebaldello. Questi si premura di inviare ai convitati un vaso di salsa piccante per accompagnare l’arrosto. Della serie: so cosa avete fatto. Ma la vendetta è un piatto che va servito freddo e come ultima portata. La rabbia è talmente cieca che Tebaldello, pur di vendicarsi dell’odioso affronto, è pronto a escogitare un piano che prevede la rovina della sua stessa patria, prendendo contatti coi Geremei.
Egli ha bisogno di essere vigile e presente in città e, allo stesso tempo, di essere percepito come innocuo e isolato dalle questioni politiche faentine. Allo stesso modo di Amleto nel castello di Elsinore, Tebaldello finge di essere diventato pazzo e lo fa in maniera plateale. In perfetto stile boccaccesco, con un bastone sfascia casa sua e, mal vestito o addirittura nudo, si mette a correre come un forsennato per le vie cittadine sbraitando e insultando pesantemente chiunque incontra.
Una mattina prende la più brutta delle sue cavalle, sciancata e disgustosa, le acconcia coda e criniera in maniera ridicola e la cavalca per le vie faentine con uno sparviero in pugno e due cani segugi al seguito, invitando la folla a seguirlo e pronunciando frasi senza senso. Per tutta Faenza si sparge la voce della sua infermità mentale. Tebaldello continua a vagare di notte percuotendo i portoni delle case e urlando “all’arme, all’arme!”. I Lambertazzi scendono armati in strada e, vedendo che è lui a provocare quel baccano, ritornano nei loro letti:
Tanto è solo quel povero scemo dello Zambrasi
Scatta allora la seconda fase del piano. Tebaldello si traveste da frate e, accompagnato dal fedele servo Gherardone, raggiunge Bologna dove si accorda coi Geremei sugli ultimi particolari del piano, assicurandosi la cittadinanza bolognese per sé e la sua famiglia quando tutto sarà compiuto.
La notte del 24 agosto 1281 su Faenza è calato il buio, tutti gli abitanti stanno dormendo. Ci sono diverse versioni dell’accaduto offerte da cronisti e storici del tempo. Che sia stato direttamente Tebaldello, di guardia alla Porta imolese, ad aprire la porta alle milizie bolognesi acquattate sotto le mura della città, o queste ultime tramite a entrare con una chiave contraffatta precedentemente fornita dallo stesso, poco importa. Sta di fatto che la città è consegnata al nemico con l’inganno da uno dei suoi figli, il tutto per il furto di un maiale.
Le strade di Faenza sono invase da uomini armati a piedi e a cavallo, capeggiati dai Geremei, che scatenano una carneficina. I fuochi degli incendi arrossano i campanili della città dai quali, ormai troppo tardi, risuonano le campane a martello per chiamare a raccolta i difensori. In ogni vicolo, in ogni casa, in ogni torre, omicidi, stupri e saccheggi. Nemmeno chiese e conventi sono risparmiati da coloro che si professano essere della parte di Santa Romana Chiesa. I ghibellini che riescono a stringersi in coorte sotto lo stendardo imperiale in Piazza Maggiore (attuale Piazza del popolo) cercano coraggiosamente di resistere ma sono costretti a cedere e a fuggire da Porta Montanara. I Lambertazzi sono schiacciati e massacrati dalle soverchianti forze nemiche.
Nove di loro cercano asilo nella Chiesa di San Francesco (presso la Porta Ravegnana) ma, contro ogni legge umana e divina, sono raggiunti, spietatamente assassinati e fatti a pezzi in suolo sacro. A notte fonda i cadaveri dei faentini sono così tanti da ostruire le fogne di tutta la città, tra sterco e sangue.
In cambio del suo orrendo servigio, Tebaldello ottiene la cittadinanza bolognese e parecchi immobili e sostanze dei Lambertazzi. Per celebrare la vittoria su Faenza, i bolognesi organizzeranno per molti anni, proprio il 24 agosto, un palio a cavallo in Strada Maggiore e nelle vie limitrofe. In onore di Tebaldello Zambrasi, un cuoco su un cavallo addobbato, seguito da due cani, tenendo uno sparviero nel pugno sinistro e impugnando con la destra uno spiedo con infilzata una porchetta, percorre tutta la Strada Maggiore fino alla porta e da un palazzo getta al popolo la porchetta.
“Tebaldello ch’aprì Faenza quando si dormia” (Inferno XXXII 122-123) per poco tempo si godrà il prezzo della sua anima infame, condannata al gelo dell’Antenora. Infatti sarà ucciso l’anno seguente alla battaglia di Forlì, cui avrebbe preso parte a fianco dei guelfi e dell’esercito francese.
Atto secondo. Faenza. A.D. 1284. La nobile famiglia guelfa dei Manfredi ha ormai avuto la meglio su tutte le famiglie rivali degli Accarisi, dei Zambrasi e dei Domizi e si avvia a conquistare la signoria della città.
Alberigo Manfredi è un membro della Milizia religiosa di S. Maria Gloriosa dei frati gaudenti, fondata nel 1261 con l’obiettivo di mantenere l’ordine pubblico cittadino e di sedare le risse e i tumulti senz’armi bensì, alla vecchia, con dei semplici bastoni. Da ciò deriva il suo appellativo di “Frate”. Il pio Frate Alberigo ha quindi un ruolo di tutore della legge e della pace. Peccato che l’abito, in questo caso il titolo, non faccia il monaco. Durante un grave litigio col cugino Manfredo questi gli sferra uno schiaffo, un’offesa atroce secondo il codice d’onore.
Per evitare un climax di violenza, il Podestà di Faenza condanna al confino Manfredo e il figlio Alberghetto nel territorio di Ravenna. Parenti e amici cercano in tutti i modi di comporre la pericolosissima vertenza e Alberigo decide di accettare la pace col cugino. Per l’occasione si organizza un banchetto presso la “Castellina”, residenza fortificata di Francesco Manfredi presso Pieve Cesato nelle campagne faentine. Dopo l’abbraccio e il bacio della riconciliazione tra Alberigo e Manfredo, alla fine della cena Alberigo ordina che sia portata la frutta. Ѐ il segnale.
Dalle porte di servizio entrano nella sala del banchetto dei sicari che si avventano su Manfredo e Alberghetto e li trucidano a pugnalate davanti al ghigno soddisfatto e diabolico di Frate Alberigo. Il “peggior spirito di Romagna”, secondo Dante, perché ha tradito la sua stessa famiglia. Il poeta ne scaraventa all’inferno l’anima quando Alberigo è ancora vivo: dopo una perfidia del genere, l’anima si danna ancor prima della morte e il corpo è posseduto da un demonio.