Chiunque si sia mai interessato di commedie, sia al teatro sia al cinema, sa quanto siano importanti nella trama di ognuna di esse i ruoli dei “caratteristi”, quelli che mettono in scena tipi umani in cui è sempre facile riconoscere qualcuno di nostra conoscenza, e sono capaci di suscitare ilarità in modo involontario, senza ricorrere a umorismi particolarmente raffinati.
La presenza dei caratteristi contribuisce a rendere leggera e più facilmente comprensibile anche una commedia dietro la quale si nasconde una critica spietata della società che descrive (si pensi ai film di Billy Wilder o a “Hollywood Party”) e, per questo, tendiamo ad accettare senza farci troppi scrupoli il ragionamento lombrosiano di fondo che sta dietro la scelta di particolari tipi fisici anziché altri: i grassi sono sempre simpatici, le donne brutte sempre acide, gli uomini grandi e grossi un po’ allocchi, ecc.
In moltissime commedie, i “buoni” sono anche “belli” e i “cattivi” sono “brutti”: questo avviene soprattutto in quelle opere che, dietro la facciata del divertimento, nascondono evidenti intenti moralistici, per cui gli autori cercano di presentare il “male” in modo che non eserciti alcun fascino sulle eccitabili fantasie degli spettatori.
Nella cultura italiana, la commedia ha sempre rivestito un ruolo di primo piano, sia per l’eredità “colta” della cultura latina, quando era un genere molto diffuso e di grande successo, sia per un’altra eredità molto meno considerata dagli studiosi, quella delle tante compagnie ambulanti che hanno battuto il Belpaese per secoli, dando spettacoli in piazza con testi più o meno improvvisati a partire da un canovaccio, tra il divertimento del pubblico e la riprovazione degli ecclesiastici, che erano soliti seppellire gli attori in terra sconsacrata.
Solo dal XVIII secolo, la commedia si impose anche nei teatri, grazie ad autori come Goldoni, che fu il primo a concepire le commedie come vere opere letterarie, non solo da guardare ma anche da leggere (tanto che, a un certo punto, fu costretto ad andarsene a Parigi perché in Italia la commedia continuava a essere considerata immorale, al punto che nel 1779 ne furono vietate le rappresentazioni teatrali).
Sotto, una rappresentazione teatrale de “La Locandiera” di Carlo Goldoni:
La tradizione della commedia italiana, in seguito, proseguì soprattutto a livello regionale, e questo ha finito per dare un’impronta localistica molto marcata a tutto il genere, con diversi tipi di “macchiette” (in parte sovrapponibili alle “maschere” della “commedia dell’arte”, ossia della commedia prima di Goldoni) molto legate alla loro terra d’origine. Anche nel XX secolo, la commedia in teatro ha continuato a conservare un carattere molto regionale; invece nel cinema ha tentato spessissimo di realizzare la commistione tra diversi stili locali, portando in scena nella stessa opera dei personaggi appartenenti a tradizioni diverse, di regioni diverse, con risultati spesso molto gradevoli (tipo “L’audace colpo dei soliti ignoti”) e soddisfazione per tutti i segmenti di pubblico.
Va da sé, dunque, che il cinema italiano abbia sempre rappresentato una realtà piena di caratteristi, alcuni dei quali attori diventati tali per poter lavorare continuamente e altri invece talmente immedesimati nei propri personaggi da essere pressoché imprescindibili da questi anche nella vita.
Tra i tanti, il caratterista modello è una donna, Tina Pica (il suo nome per intero era Concetta Annunziata Pica e Tina è diminutivo sia di Concetta sia di Annunziata), nata… non si sa esattamente quando, visto che la maggior parte delle biografie riporta quale data il 31 marzo 1884 ma alcune fonti notoriamente molto attendibili (come i libri di Vittorio Paliotti) la danno per nata il 17 febbraio 1888. Mentre si sa con certezza che nacque al Borgo Sant’Antonio Abate, nell’area tra Porta Capuana e piazza Carlo III, ossia appena fuori della cerchia della Napoli antica, ma ben all’interno della Napoli ottocentesca.
L’edificio in cui Tina Pica nacque ospitava dal 1791 il teatro San Ferdinando, uno di quelli in cui si esibivano le compagnie meno quotate con spettacoli di grande successo popolare. Nel 1888, ospitava stabilmente la “Compagnia Città di Napoli” di Federico Stella, che vi avrebbe tenuto i suoi spettacoli per circa 40 anni, anche se occasionalmente vi si esibivano altre compagnie, come quella di Eduardo Scarpetta.
Tina Pica non nacque lì per caso, ma in quanto figlia di attori
I suoi genitori erano già due caratteristi: una “bella amorosa” la madre, Clementina Cozzolino, e un “comico di spalla”, il padre, Giuseppe Pica, specializzato nel ruolo di “Anselmo Tartaglia”, un personaggio verbalmente pasticcione e balbuziente che ha ispirato successivamente moltissime “maschere” teatrali e cinematografiche successive, prima tra tutte quella di Pietro De Vico, anche se la sua influenza è giunta fino a Massimo Troisi e oltre.
La coppia seguiva gli ingaggi che riusciva a ottenere, spesso girando tutto il Sud Italia su improvvisate carovane, di solito esibendosi in piazze e teatri fatiscenti, guadagnando poco, a volte talmente poco da dover campare di elemosina, perché il pubblico era composto per lo più da gente altrettanto povera. Ciò non impediva alle loro compagnie di mettere in scena sempre nuovi testi, a volte parecchio originali, come una versione in dialetto de l’”Amleto” di Shakespeare in cui a Tina, ormai adolescente, fu affidato proprio il personaggio del bizzoso principe di Danimarca. Del resto, anche al suo esordio, a sette anni, in un lacrimevole melodramma messo in scena dalla Compagnia di Federico Stella, intitolato “Il cerinaio della Ferrovia”, le era toccata la parte di un maschio.
Il personaggio di Anselmo Tartaglia era comunque molto amato dal pubblico dei piccoli paesi, che spesso lo chiamava a regalare qualche bis dopo che si era conclusa la commedia rappresentata. Così Giuseppe Pica era solito guadagnarsi qualche piccolo extra comparendo di nuovo in scena e recitando, di solito, delle parodie dei testi classici (compresa la Divina Commedia) rese ancora più esilaranti dal goffo stile oratorio del suo personaggio.
Una sera in cui non poté farlo perché indisposto per via di un forte attacco febbrile, fu la figlia a sostituirlo, dopo essersi truccata da Pulcinella. Nessuno si accorse della differenza e gli applausi scrosciarono. In futuro, Tina Pica si sarebbe rivelata una straordinaria imitatrice, capace di far passare la propria voce per quella di celebri personaggi come il grande drammaturgo Raffaele Viviani o i celeberrimi cantanti Elvira Donnarumma e Gennaro Pasquariello.
Il suo talento non poteva passare inosservato e presto divenne un’interprete molto ricercata dai registi di film muti (a Napoli se ne producevano moltissimi) sotto la regia di Gennaro Righetti e Gustavo Lombardo, le cui opere riempivano sistematicamente le sale di spettatori. Lavorò con successo anche nelle sceneggiate dirette da Amedeo Girard e, finalmente, nel 1931, fu chiamata a lavorare nella compagnia dei fratelli De Filippo, che l’avevano notata quale interprete della rivista “Una notte al Gatto Nero” al Teatro Nuovo.
I De Filippo erano artisti immensi ma avevano il carattere che avevano, specie Eduardo; però anche Tina Pica non era affatto dolce di sale. Già all’inizio, dimostrò di non essere disposta a sottomettersi a nessuno. Resta famoso un episodio in cui la Pica stava provando una scena di “Liolà” di Pirandello davanti all’autore (che amava e stimava enormemente i De Filippo), Eduardo e Peppino; i tre, dalla platea, non facevo altro che interromperla e correggerla per ogni minimo dettaglio; a un certo punto, dal palco, la Pica esplose:
“Voi tre, là, mi sembrate il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ma io non posso lavorare in presenza della Santissima Trinità!”.
Pirandello, che era prima di tutto un gran signore, da quel giorno evitò di riprenderla; Peppino, che le era molto amico, abbassò i toni; solo il terribile Eduardo continuò a darle addosso, finché la Pica decise di piantare in asso la compagnia, lanciando un anatema al capocomico: prima o poi, avrebbe mandato un’automobile a riprenderla (a quel tempo, l’uso dell’automobile in città era considerato un lusso smodato).
Eduardo infatti andò a riprenderla personalmente, in automobile, già il giorno dopo
Tutti dissero che tra i due era stata semplicemente stabilita una tregua armata e che non sarebbe durata a lungo. In realtà, anche se Eduardo continuò a riservare alla Pica una parte di rilievo in ogni nuova commedia (e nelle loro trasposizioni cinematografiche), tra i due non ci furono più problemi importanti, fino al 1954, anno in cui, dopo aver interpretato, sotto la regia di Eduardo, “Palummella zompa e vola” di Antonio Petito come primo spettacolo del risorto San Ferdinando (dagli anni ’30 era stato trasformato in un cinema), Tina Pica lasciò definitivamente il teatro.
A quel punto, però, era già diventata una star cinematografica, grazie al ruolo di “Caramella” in “Pane, amore e fantasia” di Comencini (1953), a partire dal quale divenne una presenza fissa nelle commedie cinematografiche italiane, inconfondibile sia per il vocione mascolino sia per la maschera smorfiosa (o, meglio, “sturciosa”, per dirla alla napoletana. “Sturcio”, in dialetto, sta per deforme). Sistematicamente, i suoi personaggi erano donne anziane e “bizzoche”, ossia bigotte fino all’inverosimile.
La Pica era però una donna religiosissima, che sapeva dare vita con uguale verosimiglianza sia alla sincera cattolica sia alla beghina in cui l’ostentazione della fede nasconde ben altro. E, per sicurezza, prima di scegliere i ruoli, chiedeva consiglio al suo parroco (che doveva essere, comunque, un tipo piuttosto moderno e indulgente).
Forte dell’eredità paterna di Anselmo Tartaglia, inventò uno slang fatto in parte di Italiano, in parte di Latino maccheronico e in parte di dialetto, in cui faceva recitare, ai suoi personaggi, finte preghiere che non significavano nulla ma esprimevano perfettamente la confusione di pensieri che sta nella testa di chi si crede religioso ma è solo superstizioso. Un perfetto esempio si può ammirare nella versione cinematografica di “Napoli milionaria”, in cui la vecchia Adelaide veglia il finto cadavere di Gennaro Jovine (in teatro, è un episodio del III atto).
La Pica conosceva benissimo la differenza: andava a Messa e si comunicava tutti i giorni ma, nel periodo tra il 1957 e il 1960 in cui guadagnò cifre enormi interpretando decine di film come “La nonna Sabella” o “Lazzarella” o “Mia nonna poliziotto”, sostenne spese altrettanto enormi per aiutare soprattutto orfani ed ex carcerati.
Zitella (o, come abbiamo visto, addirittura maschio) sulla scena, nella vita reale si sposò addirittura due volte. La prima, nel 1918, con un orefice di nome Luigi, che la rese madre di una bambina. Purtroppo, sia Luigi sia la piccola morirono nel giro di poco tempo. Nel 1927, la Pica si risposò con un appuntato di polizia appassionato di teatro (sarebbe stato il coautore di alcuni dei testi teatrali da lei firmati), Vincenzo Scarano. La morte di Vincenzo, nel 1967, fu un trauma da cui non si riprese più. Aveva partecipato all’ultimo film nel 1963: il capolavoro vincitore dell’Oscar “Ieri, oggi, domani” di De Sica.
Rimasta sola, dimenticata dal mondo del cinema e dai mass media, andò a vivere da un nipote (anche lui Giuseppe Pica come il padre) che abitava al Vomero, una delle zone più signorili della città. Qui cercò di andare avanti dedicandosi ai due unici interessi che le erano rimasti, la religione e la cucina tradizionale napoletana. Ma il peso degli anni e della salute malferma finì per abbatterla in poco più di un anno, e morì il 15 agosto 1968.