Taras Ševčenko: il Servo della Gleba che divenne il più Grande intellettuale Ucraino

Questa storia si potrebbe raccontare in tanti modi. Ad esempio, caricandola di considerazioni storiche, perché si parla dei difficili rapporti tra Russia e Ucraina, che in questo momento sono in guerra tra loro.

Oppure, caricandola di implicazioni politiche, perché è la storia di un servo della gleba: ossia, praticamente, di uno schiavo, sul quale il padrone deteneva il diritto di vita e di morte.

Ma è soprattutto la storia di un poeta, e perciò la racconteremo così. Anche perché non si tratta di un poeta qualunque, ma di un poeta della stessa categoria di Dante Alighieri: uno di quei poeti che con la loro opera hanno fornito le basi dell’unità nazionale di un popolo, plasmando la sua lingua in modo da regalarle una qualità espressiva capace di originare un’intera letteratura. Perché la sola identità di un popolo è quella culturale, il resto conta poco o nulla. Politici e rivoluzionari e arruffapopoli vari potrebbero sbraitare inutilmente per decenni con il loro patriottismo stereotipato e sempre uguale in tutto il mondo, se non esistessero i poeti a regalare a una nazione e a chi se ne sente parte quell’identità che fa sentire unici in mezzo agli altri.

È una cosa tanto importante che, là dove non si riesce a trovare un’opera in grado di fondare questa identità, si prende qualsiasi cosa possa fungere allo stesso scopo. Ismail Kadaré, in “Dante, l’inevitabile”, spiega che gli albanesi vorrebbero possedere un’opera del genere, ma non ce l’hanno. Per cui hanno preso a modello la Divina Commedia. La lingua e la cultura albanesi si basano innanzitutto sui testi delle traduzioni in albanese della Commedia, cui hanno lavorato con impegno i maggiori intellettuali del passato. L’eredità dantesca, afferma Kadaré, è talmente radicata nella società albanese, che il nome femminile più diffuso è Beatrice.

Nonostante il duraturo successo delle loro opere, questi poeti raramente hanno vite fortunate. Il grande numero di ammiratori che li accompagna in vita non è sufficiente a garantire loro chissà quale successo o sicurezza. Lo stesso Dante, in vita, pur considerato tra i massimi intellettuali del suo tempo, ha vissuto decenni di esilio in condizioni difficilissime, con il peso di una condanna a morte a seguirlo dovunque si recasse e senza mai raggiungere una vera tranquillità economica.

Ma probabilmente gli è andata meglio che al poeta di cui parleremo adesso, Taras Ševčenko (casualmente, omonimo del famoso calciatore Andriy Ševčenko, che si è sempre dichiarato suo grandissimo ammiratore).

Taras Hryhorovyč Ševčenko

La storia di Taras Ševčenko si svolge per intero all’intero di un Paese, l’Impero Russo, che in quel periodo è il più arretrato del mondo civile a livello di diritti. Praticamente, la sua struttura sociale è rimasta la stessa del Medioevo, con i vastissimi latifondi affidati a famiglie aristocratiche che se li tramandano da una generazione all’altra e i mužiki (contadini) condannati dalla nascita alla morte a lavorare sempre lo stesso pezzo di terra, perché appartengono al padrone e non possono nemmeno spostarsi dalla sua proprietà.

Negli stessi anni in cui opera Ševčenko, un altro grande scrittore ucraino (che però scriverà sempre e solo in russo e perciò diventerà un classico russo), Nikolaj Gogol’, scriverà il romanzo satirico “Le anime morte” in cui un truffatore, Pavel Čičikov, compra a prezzo irrisorio contadini morti da altri latifondisti per poterli ipotecare (allora era possibile) e ottenere comodi prestiti. La terribile vita quotidiana di questi contadini sarà invece descritta senza mezzi termini da altri grandi scrittori di generazioni immediatamente successive: Ivan Turgenev, in “Mumù”, racconterà la storia di un servo sordomuto costretto ad annegare la sua cagna, che è il suo unico affetto al mondo, per evitare che la padrona le faccia fare una fine ancora peggiore; Anton Čechov, in “Contadini”, narrerà il progressivo e ineluttabile sprofondamento nella miseria della famiglia di un cameriere che, reso inabile al lavoro da una malattia, è costretto a tornare al suo villaggio in campagna, dove i suoi familiari vivono nel più totale abbrutimento: dopo la sua morte, gli altri parenti scacceranno la moglie e la figlia, che finiranno a chiedere l’elemosina.

Taras Ševčenko nacque appunto contadino, uno di questi mužiki, il 9 marzo 1814, nel villaggio di Moryntsi, non molto distante da Kiev. È possibile che i suoi antenati fossero cosacchi (soldati kazaki dell’esercito zarista) deportati e ridotti in schiavitù dopo essersi ribellati. Nonostante le precarie condizioni della famiglia, osservato l’ingegno precoce del figlio, il padre si adoperò perché questo imparasse almeno a leggere e scrivere. La madre, che era stata malata a lungo, morì nell’estate del 1823. Il padre, rimasto con sei figli, si risposò quasi subito con una giovane vedova che ne aveva altri tre. La coppia ebbe un’altra figlia ma il matrimonio non fu felice perché la donna maltrattava i figli del marito. Quando il padre di Ševčenko morì, nella primavera del 1825, la matrigna se ne andò con i suoi figli, abbandonando i figliastri al loro destino.

Autoritratto di Taras Hryhorovyč Ševčenko

Ševčenko andò allora a vivere con il maestro presso il quale stava imparando a dipingere, Bohorski, per fargli da assistente. Ma anche Bohorski lo maltrattava e quindi scappò via, senza però spostarsi dal vastissimo latifondo del padrone, Vasili Engelhardt. Fino ai 14 anni, visse svolgendo tutti i lavori che capitavano, incluso il guardiano di pecore e il facchino al mercato, ma continuando a praticare la pittura con l’aiuto di maestri del luogo. Alla morte di Engelhardt, le sue proprietà passarono al figlio maggiore, Pavlo. Questi si accorse che il ragazzo aveva talento e lo tolse dai campi, per prenderlo nel suo palazzo come servitore.

Pavlo Engelhardt aveva abbastanza stima di Ševčenko da farsi ritrarre da lui, ma non tollerava alcuna disobbedienza: una volta che fu sorpreso a dipingere di notte nonostante gli fosse stato vietato, per di più un quadro dedicato ai ribelli cosacchi, il ragazzo venne spietatamente frustato.

Pavlo Engelgardt ritratto da Shevchenko

A quel tempo, tra gli aristocratici russi andava molto di moda circondarsi di “artisti” di proprietà personale e Engelhardt permise a Ševčenko di migliorarsi frequentando studi e musei, anche quando se lo portò dietro a San Pietroburgo. Qui, Ševčenko conobbe diversi altri artisti, tra i quali il più importante fu il professore dell’accademia Karl Bryullov, grazie al quale riuscì a vendere diversi quadri e a guadagnare in breve tempo abbastanza da “riscattarsi”, ossia comprare la propria libertà pagando un indennizzo al padrone. Questo succedeva nel 1838.

Bryullov lo fece entrare all’Accademia di San Pietroburgo, dove Ševčenko vinse diversi importanti premi. Ma la pittura, pur assorbendo molte delle sue energie, non era il suo unico interesse. Da tempo scriveva poesie e nel 1840 ne pubblicò una raccolta, intitolata “Kobzar” (nella cultura tradizionale ucraina, il kobzar è il bardo, il cantastorie itinerante di poemi epici). Si tratta di un’opera che già si distingue dal canone prevalente del suo tempo per l’impegno a recuperare la memoria del popolo ucraino ma al tempo stesso agile e moderna come struttura. Ivan Franko, l’intellettuale ucraino più importante di sempre dopo Ševčenko, ma appartenente alla generazione successiva, avrebbe datato l’inizio della letteratura ucraina con la pubblicazione di quest’opera.

Nel 1841, seguì “Haidamaky”, un poema epico, sempre ispirato all’Ucraina.

Anche se continuava a risiedere a San Pietroburgo, Ševčenko compì tre viaggi in Ucraina, nel 1843, 1845 e 1846. Osservò come le aree storiche e archeologiche fossero abbandonate e sempre più in rovina (l’Ucraina è stata abitata e civilizzata molto prima della Russia: Kiev è stata fondata ufficialmente nel 482 d.C. ma potrebbe essere anche molto più antica, Mosca è stata fondata ufficialmente solo nel 1147 d.C.) e, per tramandarne la memoria, progettò una raccolta di acqueforti che le ritraessero, intitolata “Ucraina pittoresca”. Il costo di realizzazione delle acqueforti risultò però troppo alto per i suoi mezzi, quindi rinunciò dopo la sesta e ritrasse il resto dei paesaggi in forma di acquerelli.

Катерина, dipinto del 1841

Durante il viaggio del 1845, Ševčenko venne in contatto con i membri di un’organizzazione segreta, la “Confraternita dei santi Cirillo e Metodio”, che progettava di rifondare l’impero russo abolendo la monarchia e trasformando la nazione in una confederazione di stati autonomi, con l’abolizione di ogni forma di schiavitù, l’accesso universale all’istruzione, il riconoscimento della libertà di opinione.

Benché la Confraternita si limitasse a svolgere una blanda attività propagandistica, la polizia segreta zarista la teneva d’occhio e aspettava solo il momento di intervenire. Siamo durante il regno di Nicola I Romanov, che durò dal 1825 al 1855, Durante questo periodo, pur raggiungendo la sua massima espansione in termini di territorio, l’impero si avviò anche verso una decadenza ineluttabile, entrando in una fase di crisi economica che sarebbe durata ininterrottamente fino alla rivoluzione del 1917. Non a caso, il biografo Henri Troyat definisce spietatamente Nicola I “lo zar che distrusse la Russia”. Poiché i problemi erano sempre più evidenti, in quel periodo tra i russi istruiti era tutto in fiorire di società segrete (perché vietate) che nascevano con la volontà di portare avanti proposte politiche alternative. La risposta dello zar era una chiusura totale e sempre più paranoica, che provocava una repressione poliziesca ferocissima, che continuò anche sotto il regno dei suoi successori, esacerbando gli animi fino appunto all’attentato che uccise Alessandro III nel 1881, al tentativo di rivoluzione del 1905 e alla rivoluzione riuscita del 1917.

Tra i tanti intellettuali la cui esistenze vennero distrutte sulla base di accuse inesistenti, bisogna ricordare almeno Aleksandr Afanas’ev, nato nel 1826, il paziente studioso che compì un’opera analoga a quella dei fratelli Grimm in Germania, ma su scala ancora più vasta, raccogliendo, trascrivendo e annotando tutte le fiabe tradizionali della cultura russa. Afanas’ev svolse un lavoro enorme solo per passione, senza essere finanziato da nessuna istituzione e senza essere ricco di famiglia, vivendo solo del suo modesto stipendio di impiegato statale. Nel 1862, solo per aver pubblicato articoli su riviste considerate sovversive e aver incontrato un paio di sospetti rivoluzionari, anche se a suo carico non c’era assolutamente nulla, venne licenziato dal lavoro e messo in condizioni di non riuscire più a trovarne un altro. Sopravvisse fino al 1871 affrontando una povertà sempre più grave e infine morì in miseria di tubercolosi.

Era fatale che una cosa del genere accadesse anche a Ševčenko, in circostanze altrettanto allucinanti.

Quando la polizia segreta arrestò i membri della Confraternita dei santi Cirillo e Metodio, nel 1847, Ševčenko non era neppure in Ucraina ma a San Pietroburgo. Tuttavia, venne arrestato subito dopo di loro, perché tra le loro carte fu trovato un foglio manoscritto con una sua poesia inedita, che sbeffeggiava sia lo zar sia la sua consorte, che sembra andasse soggetta a disturbi psicosomatici per il terrore di finire uccisa in un attentato. Il foglio fu consegnato personalmente allo zar, che conosceva bene l’ucraino e che (almeno secondo la testimonianza del critico letterario Vissarion Belinskij, che non si sa da chi l’abbia appreso) inizialmente trovò divertente il testo ma poi decise ugualmente di calcare pesantemente la mano sul suo autore. Ševčenko fu così sottoposto a un surreale processo, in cui venne accusato di: 1) scrivere in una lingua proibita (l’ucraino, appunto); 2) essere un ingrato (perché gli era stato permesso di emanciparsi, come se non avesse dovuto pagare un sacco di soldi per la sua libertà); 3) attribuire alla cattiva amministrazione russa i problemi dell’Ucraina; 4) esaltare le figure dei cosacchi ribelli.

Ultimo autoritratto di Taras Ševčenko

Fu condannato al servizio forzato sotto le armi, sotto stretta sorveglianza e con assoluto divieto sia di scrivere sia di dipingere. Una volta emessa la sentenza, fu accompagnato in un’estenuante marcia a piedi da San Pietroburgo a Orenburg, quasi al confine con il Kazakistan: un viaggio che oggi, in auto e sulle autostrade, richiede almeno 27 ore (422 se si va a piedi, secondo Google Maps). Con la viabilità di allora, dovette marciare per settimane tra foreste e paludi.

Nel 1848 sembrò che la sua posizione potesse migliorare. L’esploratore Aleksei Butakov, trovandosi a passare per Orenburg durante una spedizione al lago d’Aral, lo riconobbe e richiese la sua partecipazione alla spedizione, ottenendola. Ševčenko, nel corso di 18 mesi, realizzò tutte le illustrazioni scientifiche della spedizione e anche molte opere artistiche ispirate alla vita dei popoli che vivevano intorno al lago.

Ma, se aveva sperato che questo miglioramento fosse stabile, si sbagliava. Tornato a Orenburg, fu spedito a Novopetrovsk, una cittadina peninsulare del Kazakistan sul Mar Nero, sede di una fortezza in cui la disciplina era durissima (la località oggi si chiama Fort-Ševčenko in suo onore). Riuscì ad allontanarsene solo per un breve periodo in cui fu assegnato come illustratore a un’altra spedizione scientifica nella zona di Karatau (in Kazakistan, vicino al confine con il Kirghizistan). La vita piena di privazioni nella fortezza minò definitivamente la sua salute già malferma. In seguito alla scarlattina di cui aveva sofferto da ragazzo, era rimasto con il cuore indebolito. Cominciò a soffrire anche di cirrosi epatica.

Nel 1857 poté lasciare la fortezza, ma non tornare a San Pietroburgo. Si fermò inizialmente a Nizhniy Novgorod e poi, nel 1859, gli fu dato il permesso di tornare in Ucraina. Tuttavia, mentre stava trattando l’acquisto di un piccolo podere, fu di nuovo arrestato per blasfemia. Stavolta non ricevette alcuna condanna ma il permesso di tornare in Ucraina fu revocato. In compenso poté tornare a San Pietroburgo, dove però arrivò in condizioni fisiche già compromesse.

Morì il 10 marzo 1861, il giorno dopo aver compiuto 47 anni. Solo 7 giorni dopo, fu annunciata la legge che stabiliva l’emancipazione dei servi della gleba (che, tuttavia, erano tenuti a pagare un consistente indennizzo agli ex proprietari).

Taras Shevchenko ritratto di Ivan Kramskoi

Sepolto anonimamente e in fretta vicino San Pietroburgo, Ševčenko ebbe il suo funerale con due mesi di ritardo. Gli ucraini, o suoi amici o che avevano sentito parlare di lui, si organizzarono per andare a prendere la sua salma e riportarla in patria, secondo la volontà che aveva espresso nella poesia intitolata “Testamento”, con un lungo viaggio in una carrozza trainata da cavalli. Fu sepolto l’8 maggio nella città ucraina di Kaniv, vicino alla sponda del fiume Dnipro.

Taras Ševčenko ha scritto complessivamente 237 poesie, ma durante la sua vita ne sono state pubblicate solo 34, 28 in Russia e 6 all’estero. Come artista figurativo, invece, ha ci sono rimaste ben 835 sue opere.

La vita che condusse gli impedì di farsi una famiglia e le notizie sulla sua vita privata sono molto scarne. Si sa solo di una sua passione giovanile per una certa Oksana Kovalenko, perché lui la nomina espressamente in alcune delle sue prime opere.

Celebrazione del 200° anniversario della nascita di Shevchenko vicino all’Università di Kiev, a lui intitolata

Com’è prevedibile, ci sono molti monumenti a Ševčenko in Ucraina, ma è singolare il fatto che anche in Russia, durante il periodo dell’Urss, il poeta sia stato molto celebrato. I sovietici esaltarono però solo lo Ševčenko egualitario, tacendo di quello nazionalista. Monumenti a Ševčenko si trovano anche in molti altri Paesi, dovunque vi siano folte comunità di immigrati ucraini. In Italia ce n’è uno a Firenze, ma in futuro potrebbero sorgerne altri.


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