Nel 2003 è uscito nelle sale cinematografiche il film Good Bye, Lenin!, una pellicola di grande successo in cui il regista Wolfgang Becker immagina la storia di una donna di Berlino Est che va in coma nell’ottobre del 1989 e si risveglia otto mesi più tardi, quando il muro è già caduto. La signora è una fanatica funzionaria del partito e suo figlio, per evitarle un trauma che potrebbe risultarle fatale, elabora una complessa messa in scena per farle credere che la Repubblica Democratica Tedesca sia ancora in piedi. Sembra che nella realtà ci siano stati effettivamente dei casi clinici paragonabili a quello di Good Bye, Lenin!, pare infatti che nel 2007 un polacco rimasto in coma per 19 anni si sia risvegliato, trovandosi così catapultato nell’Europa post-comunista. Ma un motivo narrativo simile è rintracciabile anche nella letteratura, ad esempio nel racconto Rip Van Winkle (1819) dello statunitense Washington Irving (1783-1859), in cui il protagonista si sveglia a New York dopo la rivoluzione americana.
Anche nella letteratura italiana, tuttavia, non manca il caso di un anziano che dormendo si trova a viaggiare inconsapevolmente nel tempo: a Pisa, nel 1871 (e l’anno non è casuale), fu infatti pubblicata la prima edizione della fiaba di Maestro Domenico. Il libro apparve originariamente con in copertina il nome di Giovan Paolo d’Alfiano, ma in verità si trattava di una piacevole opera satirica partorita dalla vivace intelligenza di Narciso Feliciano Pelosini (Fornacette, 1833-Pistoia, 1896), avvocato, scrittore e docente universitario. Questo buon toscano, in gioventù, si avvicinò alle idee dei liberali, tant’è che debuttò con un volume dal titolo Poesie Italiane (1853). Ciononostante, in età matura, dopo aver assistito ai cambiamenti portati dal processo risorgimentale, Pelosini divenne ferventemente cattolico e nostalgico del cessato regime preunitario.
Narciso Feliciano Pelosini in età avanzata:
Venendo alla trama del breve racconto di Maestro Domenico, il protagonista è un falegname istruito e timorato di Dio che, quando ha tempo, insegna a leggere e scrivere ai bambini del suo paesello. Durante un’escursione tra i boschi, molti anni prima del 1859, il tranquillo legnaiolo si appisola ai piedi di un albero e, incredibilmente, si sveglia nel 1870. Con crescente stupore, il poveruomo scopre che il Granducato di Toscana è scomparso e che il nuovo stato – pur fregiando le sue bandiere con la croce di Savoia – si fa beffe della religiosità popolare. Lo spaesato Domenico si trova presto a essere sballottato tra carabinieri e giudici che non intendono il toscano, ma si esprimono invece nei dialetti settentrionali o in siciliano, senza che lui riesca a capire una parola di ciò che gli viene detto.
Con passività, i concittadini di Domenico hanno assistito gradualmente a una serie di importanti mutamenti e la rivoluzione, sviluppandosi progressivamente, ha trionfato; il sonno magico permette invece al protagonista di notare quanto i cambiamenti siano stati radicali.
Feliciano Pelosini da giovane con un simpatico paio di occhiali (incisione tratta dal suo volume Liriche, stampato a Pisa nel 1862):
I segni del “progresso” colpiscono il probo artigiano come delle pugnalate: suo figlio Luigi si è convertito al liberalismo, è diventato sindaco e plaude al sequestro dei beni ecclesiastici, nessuno tra i giovani membri delle corporazioni dei mestieri assiste alle funzioni religiose, le nuove tasse diventano sempre più insostenibili e infine l’esercito italiano riesce a conquistare Roma. Dopo la breccia di Porta Pia, gli anticlericali del paesetto salutano questo evento epocale prendendo a sassate i vetri delle finestre dei cattolici intransigenti, che si rifiutano di festeggiare la fine del potere temporale del Papa e quest’ultima offesa al Santo Padre fa cadere Domenico in uno stato di turbamento tale da fargli decidere di tornare a dormire, con la speranza di svegliarsi in un tempo migliore:
Maestro Domenico non è morto; ma vi dico che dorme, ed a suo tempo il buon Dio lo sveglierà
Probabilmente Pelosini riprese direttamente la trama di Rip Van Winkle, ma fu in grado di rielaborarla in maniera personale, creando una satira politica di grande impatto e, per certi versi, rapportabile a quella di Good Bye, Lenin!. Il risveglio del maestro dal suo prodigioso letargo permette all’autore di criticare sagacemente la società del suo tempo e di mettere in luce il disagio provato dai cattolici nella nuova Italia unita: un elemento originale, questo, che ovviamente è assente nel testo di Irving.
Sotto, la più recente edizione di Maestro Domenico:
Dopo l’unificazione, in Toscana sono esistiti realmente personaggi simili al maestro Domenico: uomini devoti al loro legittimo principe e incapaci di accettare «la gran mutazione dei tempi», ma troppo semplici e troppo buoni per organizzare un’insorgenza.
Lo scrittore italo-cubano Luigi Suner (1832-1909) ha ambientato nella Toscana risorgimentale un’opera teatrale dal titolo evocativo: I legittimisti in Italia (1861). In questo copione (a suo tempo piuttosto apprezzato) il drammaturgo fa dire a uno dei suoi personaggi che i legittimisti lorenesi sono una «setta» che non conosce patria, ma solo le corti dei principi, una fazione capace di amare unicamente «Palazzo Pitti e la Cupola del Duomo». Chiaramente queste parole furono pensate per mettere in ridicolo la secolare devozione al Trono e all’Altare, ma sottolineano anche come i legittimisti rifiutassero la concezione moderna dello stato-nazione, contrapponendovi l’antica visione municipale della patria. La medesima adesione al patriottismo municipale venne espressa da Pelosini nel suo libro Ricordi, tradizioni e leggende dei monti pisani (1890).
In questo contesto vale la pena di citare anche la testimonianza di un altro letterato, il professore boemo Ernst Gnad (1836-1918), il quale, viaggiando per l’Italia, ebbe modo di visitare la Badia di Vallombrosa. Il convento, un tempo celebre sede dei benedettini, venne chiuso nel 1860 (dopo l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna) e trasformato, nel 1869, in un istituto forestale statale. Gnad racconta che al tempo della sua gita il monastero era ancora abitato da pochi religiosi, a cui era stato consentito di vivere nell’edificio sino al termine dei loro giorni. Il suddito austriaco fu accolto da un monaco, padre Girolamo, il quale gli chiese subito quale fosse la sua provenienza e, una volta saputa la nazionalità del nuovo ospite, si commosse profondamente: «Dalla Boemia? […] il paese dove abita ora il nostro granduca? Anche là, nevvero, si parla bene di lui? Ah, se lo merita, sa, quel buon signore. Mio Dio, in che tempi viviamo!», «Dio sia con lei e, se vede il nostro buon granduca, gli dica che lo amiamo e che non lo dimenticheremo mai!»
Ernst Gnad all’età di 25 anni:
Gnad fu molto colpito da questa genuina manifestazione di lealtà e anni più tardi scrisse: «Caro buon padre Girolamo, non ho potuto riferire le tue parole al granduca e tu stesso ormai dormi da tempo sotto il mormorio dei boschi del tuo convento. Ma benedetta mi sia la tua memoria per sempre! Nel tuo faccione onesto ho veduto brillare di nuovo la bella stella della fedeltà, così spesso oscurata in questo mondo pieno di calcolo e falsità».