Intelligenza e astuzia non furono le uniche caratteristiche di Suor Maria Luisa, madre vicaria del monastero di Sant’Ambrogio della Massima di Roma. Nella sua lunga carriera collezionò numerosi amori saffici, rapporti con i suoi confessori e sopratutto riuscì ad eliminare tre consorelle che per un caso fortuito non furono cinque. Si deve ammettere che alla lista bisognava aggiungere la determinazione.
Nata nel 1832 da Domenico Ridolfi e Teresa Cioli nella parrocchia di San Quirico del Rione Monti, all’epoca uno dei quartieri più poveri di Roma, imparò precocemente a leggere e scrivere nella scuola dei francescani. Alla morte prematura della madre si vide costretta a ritornare in casa con le due sorelle e il padre, che considerava un umile “ciambellaro”. L’incontro che le cambiò la vita avvenne all’età di undici anni, quando conobbe in campo Corleo, Maddalena Salvati. Una donna energica, che collaborava con il carismatico prete Vincenzo Palotti, successivamente divenuto Santo. Nella loro Pia Casa di Carità ospitava i francescani riformati di Agnese Firrao, un’altra figura che incise un solco nella mente della giovane Maria Luisa. Maria Luisa assorbì il clima mistico che ruotava attorno a queste figure, tanto da decidere di farsi suora. Dopo essersi fatta finanziare dalla confraternita del Santo Rosario riuscì ad entrare nel famoso e ricco monastero di Sant’Ambrogio.
Sotto, Chiesa dei Santi Quirico e Giulitta, a Roma, nel rione Monti. Fotografia di Croberto68 via Wikipedia:
Non tardò a dimostrare le sue capacità, bruciando tutte le tappe. Prima maestra delle novizie e a soli 25 anni vicaria del monastero. Poteva finalmente assaporare il potere, ma non tutti erano rimasti colpiti dall’astro nascente
Ad esempio Suora Maria Costanza che la riteneva troppo giovane e non adatta
Un problema che si risolse quando la suora si ammalò di un’infezione polmonare. Alla richiesta di farla curare dal medico Maria Luisa si oppose e con la sua determinazione convinse la madre superiora. Il 23 gennaio la suora si aggravò e morì. Un secondo ostacolo sopraggiunse nell’ottobre del 1858. La giovane novizia Maria Agostina si vantava con le consorelle di avere estasi e visioni. Da tempo in monastero avvenivano fenomeni mistici, quasi tutte le monache sostenevano che dal cielo la Madonna scrivesse lettere fondamentali per la vita del monastero. Soprattutto quelle lettere più volte esaltavano la stessa madre vicaria. A Sant’Ambrogio la sua autorità si basava sulla presunta santità. Non potevano esserci altri concorrenti. Qualche tempo dopo la novizia Maria Agostina cominciò ad avere una febbre persistente, ulcere in bocca e in gola, perdita di peso. In pochi giorni anche lei passò a miglior vita.
Nella prima metà del 1859 fu il turno di suor Maria Giacinta
Cominciò dapprima a soffrire di una grave infiammazione dell’intestino, poi si presentarono strane ulcere sul collo. La giovane suora era stata trasferita nella cella di Maria Luisa al posto di suor Maria Agnese Eletta. Un giorno aveva trovato sul tavolino della cella un libro che “con suo grande disturbo (e curiosità) vi ha rilevato tante brutte figure e membri al nudo di uomini e donne”. Tra le due donne si era instaurato un rapporto che andava ben oltre quello di consorelle. Solo per un caso fortuito, il medico questa volta arrivò per tempo, riscontrando un avvelenamento da oppio e somministrandole un antidoto che le salvò la vita.
Non fu così fortunata Suor Maria Felice nell’autunno dello stesso anno, l’ultima vittima
Aveva appena 22 anni quando pensò di denunciare quanto accadeva nel monastero all’inquisizione. Si ammalò, i medici tentarono di curarla con dei salassi, provocando una forte debolezza, poi sopraggiunse la morte. Ma il tempo a disposizione per la temibile madre vicaria stava volgendo a termine. Già alcuni mesi prima la monaca Katharina aveva raccontato al cugino, l’arcivescovo Hojenlohe-Schillingsfurst, che qualcuno attentava anche alla sua vita. La principessa Katharina di Hohenzollern-Sigmaringen era parente stretta del successivo re di Prussia e imperatore Guglielmo I. La salute della principessa aveva cominciato a deteriorarsi dopo che si era scontrata con Maria Luisa. Tra i motivi una lettera che aveva intercettato inviata da uno statunitense: Peter Kreuzburg. Dal testo si evinceva che tra i due ci fosse una turbolenta relazione fisica.
Sotto, Katharina di Hohenlohe-Waldenburg-Schillingsfürst (1817-1893):
Per fortuna di Katherina suo cugino riuscì ad ottenere dal papa Pio IX di farle lasciare il monastero, prima che avvenisse il peggio. A quel punto l’inquisitore Vincenzo Leone Sallua non poteva che avviare un’indagine approfondita. Dopo mesi di interrogatori e un processo che durò oltre due anni, Maria Luisa ammise di aver abusato delle novizie con riti che pretendevano di purificare i loro genitali. Aveva intrattenuto rapporti veri e propri, orali e sodomitici. Raccontò che lei stessa era stata costretta ad attività sessuali dalla vecchia badessa. Pratiche conosciute anche dalla gente esterna al monastero tanto da imbrattarne le mura con versi satirici.
Ma ammise anche gli avvelenamenti e la questione era ben più articolata
Il gesuita padre confessore Giuseppe Peters, che si faceva chiamare Joseph Kleutgen, era succube della madre vicaria, sapeva e credeva nelle lettere inviate dalla Madonna e anche lui aveva avuto atti erotici e sessuali che considerava come forme eccezionali di assistenza spirituale. Anche il secondo confessore: il gesuita Giuseppe Leziroli fu messo sotto accusa. Conosceva il rapporto tra lo statunitense e la madre vicaria, non prese seriamente la questione degli avvelenamenti. Esattamente come la madre superiora. Alla fine i capi di accusa confermati per Maria Luisa furono:
Falsa santità, avvelenamenti, culto di Firrao
Quest’ultima accusa riguardava un culto condannato nel 1816 da papa Pio VII contro suor Maria Agnese Firrao che dichiarava di possedere doni soprannaturali. All’interno del monastero di Sant’Ambrogio numerosi ancora segretamente adoravano la Firrao aprendo nel processo una breccia teologica ben più ampia degli omicidi, che coinvolgeva confessori e vescovi.
Si giunse al verdetto emesso dai sedici consultori e successivamente confermato da papa Pio IX, con alcune piccole modifiche. Il monastero venne chiuso e dato ai benedettini sublacensi. Padre Leziroli ebbe un anno di reclusione a Sant’Eusebio, una casa romana della Compagnia di Gesù, accompagnata dalla proibizione perpetua di confessare e predicare. Morirà riconciliato con se stesso e la Chiesa il 29 aprile 1878 a Castel Gandolfo.
Padre Peters ebbe tre anni, poi mitigati a due, di reclusione nella casa gesuitica di Galloro, presso Abano e anche per lui la sospensione delle confessioni e delle prediche. La sua vita, però, ebbe una nuova ascesa. Graziato nel 1863, divenne il più importante consigliere teologico di papa Pio IX, teorizzando il dogma dell’infallibilità del Concilio Vaticano I; tra i maggiori sostenitori della filosofia scolastica, insegnò per svariati anni all’Università Gregoriana di Roma cancellando l’onta di quanto era accaduto. Pare che lo stesso papa Leone XIII lo chiamasse il principe della scolastica.
Sotto, Papa Pio IX (1792-1878)
Ben diverso fu il destino della protagonista
Maria Luisa Ridolfi venne condannata a vent’anni di reclusione, pena che il Papa volle ridurre a diciotto anni. Una conclusione mite di fronte ad una pluriomicida rea confessa. La legge per l’omicidio per avvelenamento prevedeva la fucilazione alle spalle. Nel caso di Sant’Ambrogio se si fosse applicata si sarebbero accesi dei riflettori su una vicenda che aveva coinvolto le alte sfere ecclesiastiche e l’ordine dei gesuiti. Fu così inviata nella casa di penitenza alle Terme. Dopo sette anni il medico locale, dottor Caetani, la descrive “una donna eccitata come un animale selvatico”. L’anno successivo la inviò in manicomio. Dopo il fallimento dei trattamenti venne accompagnata presso la propria famiglia. A metà del 1870 il padre Domenico Ridolfi si rivolse al Sant’Uffizio dichiarando che non poteva tenere più la figlia: “tratta le sorelle come delle prostitute, rovescia tutto in casa, è ingestibile”.
Tornata al Buon Pastore, poche settimane dopo, con la presa di Roma, venne liberata dalle truppe piemontesi, che la considerarono una reclusa politica. Della sua straordinaria bellezza e sicurezza non rimaneva che un pallido barlume: senza più denaro, rifiutata dalla famiglia e dalla madre Chiesa non aveva altre risorse e anche la determinazione scomparve.
Di lei si ignora il luogo e la data della sepoltura
Sull’affare di Sant’Ambrogio si volle far calare il silenzio, una vera damnatio memoriae. L’inquisizione e papa Pio IX rinunciarono a una pubblicazione della sentenza. Il divieto del culto della Firrao venne rinnovato e il corpo della monaca fu riesumato e sepolto in una fossa anonima e non identificabile. Nulla e nessuno avrebbe dovuto parlare di quanto accaduto. Solo nel 1976 un dottorando in teologia, con una tesi su Kleutgen, ricostruì i fatti basandosi sulle fonti provenienti dall’archivio degli Hohenzollern, in particolare del racconto dettato dalla principessa Katharina. Nel 1998 con l’apertura dell’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede a opera di Giovanni Paolo II, si sono resi disponibili i fascicoli della Santa Romana Inquisizione e della Congregazione dell’Indice, portando alla luce anche il processo sul caso Sant’Ambrogio, che venne studiato dopo secoli di silenzio dallo storico Hubert Wolf.
Il racconto è una sintesi tratta dal libro: Tonache di Sangue dell’autore, Davide Busato, disponibile su Amazon:
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