Storia breve di un clandestino

Una storia come tante, e che, come tante, andrebbe letta per capire cosa si intenda per “clandestino“.

“C’è sole in Tunisia. Sole, sabbia, afa e poca speranza. Il popolo cartaginese moderno è privato di tante dignità che gli europei danno per scontate, e crescere, vivere lavorare e morire in questo posto è una vera avventura. Quando ero giovane giocavo a calcio. Ero bravo. Il portiere della squadra della città, militava in quella che sarebbe la serie B in Italia. Alle volte ci allenavamo con i palloni di stracci, altre con le palle vere, era un accettare la sorte, come quella che mi portò a trovare moglie. In Tunisia a vent’anni si sposano tutti, così anch’io presi moglie. Facevo l’idraulico ed ero bravo. Guadagnavo a sufficienza per mantenere me e la mia famiglia. Ero felice. Un giorno però mi dissero che non potevo dire quello che volevo, che la notte c’è il coprifuoco, che gli amici si vedono il giorno e così via. Il lavoro cominciò ad andare male. Feci qualche mese di carcere perché risposi ad un poliziotto. Scappai. Presi la prima nave per la Francia, imbucato all’interno di una scialuppa di salvataggio. Fa freddo in nave la notte. Fa freddo in Francia. Ma puoi dire quello che vuoi, e se lavori hai da mangiare. E soprattutto, puoi pensare a qualcosa che non sia solo sopravvivere, puoi sperare. Arrivai dopo poco a Milano. Per un anno stetti in un appartamento con altri paesani, sotto “padrone”, un tunisino che ci faceva lavorare come operai e con il quale imparai a fare il muratore. La paga era scarsa, e non potevo mandare soldi a casa, così, me ne andai. Sino a Lido Adriano, dove c’era un amico che diceva di avere del lavoro per me. Lavorai tanto, guadagnai a sufficienza per vivere e mandare i soldi a casa, in Tunisia. Incontrai la donna che mi cambiò la vita, che mi dette la speranza per un futuro, non migliore, ma semplicemente un tempo che fosse più avanti, non solo legato alla lotta per la sopravvivenza. Lavorai tanto, e per qualche anno andò bene. Purtroppo però, il lavoro cominciò a scarseggiare, i soldi erano finiti. La crisi, i cantieri e il lavoro in nero mi condannarono. Dopo 10 anni in Italia, tante case, muri e pavimenti costruiti per questo popolo, non ero più idoneo a restare nel paese. Ero clandestino. Accettai il mio destino. Lasciai l’amore della mia vita e tornai in Tunisia, dai miei figli ormai adulti, da mia moglie che non volevo più, rispettando le leggi italiane, anche in questo ultimo caso. Chiesi il divorzio, ma in Tunisia non esiste la legge degli uomini, solo quella delle bestie. Mia moglie mi ripudiò e denunciò e, probabilmente, ha posto fine alla mia avventura su questo pianeta. Dalle sbarre di questa cella in cui scrivo, con il sudore degli altri che mi attanaglia le narici, con le braccia tagliate dalle sferzate dei carcerieri, scrivo una lettera senza speranza. Sono partito per l’Europa da uomo libero e, forse, morirò rinchiuso nel mio paese. Per le leggi degli uomini e degli animali.

Affido a te, lettore, il ricordo di una vita che è valsa la pena vivere, di una speranza che non ha mai abbandonato il mio cuore, della gioia dell’amore e della fortuna che ho avuto ad aver vissuto alcuni giorni della mia esistenza con il cuore colmo di aspettative per il futuro. Quelle che, anche ora da questo posto che forse qualcuno definirebbe un inferno in terra, ripongo in te. Perché tu possa creare un mondo più giusto, dove chi spera, sogna e ama il suo prossimo non sia clandestino ma possa, finalmente, vivere libero.”

Matteo Rubboli

Sono un editore specializzato nella diffusione della cultura in formato digitale, fondatore di Vanilla Magazine. Non porto la cravatta o capi firmati, e tengo i capelli corti per non doverli pettinare. Non è colpa mia, mi hanno disegnato così...