L’avevamo lasciata così, con quegli occhi verdi ghiaccio pieni di dolore e sofferenza, causata da una guerra che ormai sembrava infinita. Nessuna descrizione era necessaria, il ritratto parlava da sé. Lei, con il suo docile viso di una bambina innocente e ignara dei mali del mondo, a soli 12 anni, era riuscita a conquistare un continente intero.
Grazie alla fotografia di Steve MccCurry che l’ha resa la “Monna Lisa della guerra Afgana” Sharbat Gula finì sulla copertina del “National Geographic Magazine” del giugno 1985. Impressa nei volti di milioni di persone per la bellezza della sua spontaneità, per il suo orgoglio e per il suo sguardo ipnotico, era riuscita a trasmettere alla gente dell’Occidente, un messaggio, diritto al cuore.
Ma dietro quel ritratto, dietro quel nomignolo che per anni era rimasto associato al suo volto (la ragazza afgana), c’era una storia, una storia vera, senza vie di fuga, pronta a essere raccontata.
Steve McCurry l’aveva incontrata per la prima volta, all’età di 12 anni, nel lontano 1984 nel campo profughi Nasir Bagh, dov’era appena arrivata. Per il fotografo fu impossibile non notarla, tra i mille volti della gente. Lei, Sharbat Gula, catturò l’attenzione di uno dei fotografi più famosi al mondo, che 18 anni dopo decise di recarsi nuovamente alla sua ricerca. Così racconta il loro primo incontro McCurry:
Mi accorsi subito di quella ragazzina […]. Aveva un’espressione intensa, tormentata e uno sguardo incredibilmente penetrante – eppure aveva solo dodici anni. Siccome era molto timida, pensai che se avessi fotografato prima le sue compagne avrebbe acconsentito più facilmente a farsi riprendere, per non sentirsi meno importante delle altre. […] Quando ho cominciato a fotografare Gula, non ho sentito e visto più nient’altro. Mi ha preso completamente […] Suppongo che fosse incuriosita da me quanto io lo ero da lei, poiché non era mai stata fotografata prima e probabilmente non aveva mai visto una macchina fotografica. Dopo qualche minuto si alzò e si allontanò, ma per un istante tutto era stato perfetto, la luce, lo sfondo, l’espressione dei suoi occhi
(Steve McCurry)
Dopo quasi due decenni, McCurry tornò in Pakistan per trovarla, rivederla, e dare un nome a quella bambina che era riuscita a rimanere come un puntino fisso, indelebile nella sua mente e in quella di milioni di persone.
La ritrovò nel 2002, trentenne e già madre di tre figli grandi, sempre nel campo profughi di Nasir Bagh.
Era cambiata, la sua pelle rovinata da una vita difficile e faticosa, ma quegli occhi, quel magnetismo che traspariva da uno sguardo come pochi altri al mondo no, era rimasto intatto, soltanto con più storie e più vita da raccontare.
Steve McCurry raccontò la storia di Sharbat Gula immortalandola di nuovo, rendendola nuovamente protagonista dei media occidentali, tanto lontani da lei quanto desiderosi di mostrarne l’essenza vitale.
Successivamente, nel 2016, il suo nome tornò a essere nelle bocche di tutti: la donna era stata arrestata in Pakistan, accusata di aver falsificato i documenti che le avevano permesso di vivere nel paese per oltre 30 anni.
Dopo aver saputo la notizia, McCurry, decise di aiutare quella donna, quella donna che aveva tanto sofferto, quella donna che, nonostante fossero passati così tanti dal loro primo incontro, non poteva dimenticare.
Era come se le loro vite ormai fossero legate da un filo invisibile
“Mi impegno a fare tutto il possibile per garantire sostegno legale e finanziario a lei e alla sua famiglia. Mi oppongo a questo comportamento delle autorità nella maniera più decisa. Lei ha sofferto per tutta la sua vita e il suo arresto è una smaccata violazione dei diritti umani”. Queste furono le parole precise del fotografo, che si schierò subito al fianco della ragazza Afgana.
Dopo 12 giorni di carcere, Sharbat Gula, venne finalmente rilasciata. Nel Dicembre del 2017, dopo 45 anni di vita da profuga, le fu finalmente assegnata una residenza nel centro di Kabul.