C’erano tanti austriaci che bevevano caffè fuori dalle pasticcerie, non troppo distanti da macellerie e salumerie tedesche, mentre leggevano giornali scritti in tedesco o polacco e qualche volta in lingua yiddish, in un quartiere chiamato Piccola Vienna. Molto, molto lontana dall’Europa, quella Piccola Vienna era in realtà il ghetto ebraico di Shanghai, un angolo di Cina che divenne un “porto sicuro” per gli ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste.
Due donne ebree-tedesche dietro il bancone del loro negozio di specialità alimentari
Fonte immagine: United States Holocaust Memorial Museum
Il ruolo che svolse la città cinese a favore degli ebrei in quel cupo momento della storia, dall’avvento di Hitler al potere fino alla fine della seconda guerra mondiale, può rivaleggiare con altri ben più conosciuti episodi di coraggiosi salvataggi, come quello portato avanti dal cittadino tedesco Oskar Schindler. Perché in effetti a Shanghai trovarono rifugio decine di migliaia di ebrei, anche se il loro numero è imprecisato.
Il porto di Shanghai all’inizio del ‘900
Immagine di pubblico dominio
La città ospitava già una comunità di ebrei, formata dai discenti di ricchi uomini d’affari arrivati prevalentemente da Bagdad all’inizio dell’800, e da emigrati russi che ai primi del ‘900 scapparono dai pogrom zaristi e poi dalla rivoluzione bolscevica. Anche se all’interno della variegata comunità sorgevano conflitti, dovuti soprattutto a motivi religiosi, gli ebrei di Shanghai vivevano come le decine di migliaia di stranieri che popolavano quella straordinaria città, dove c’erano poche regole e molte opportunità.
Rifugiati ebrei in un giardino a Shanghai
Fonte immagine: United States Holocaust Memorial Museum
Poi, tra il 1937 e il 1939, ci fu la più drammatica e massiccia migrazione ebraica a Shanghai: arrivarono all’incirca in ventimila, in quella che era forse l’unica città al mondo a non richiedere visti per entrare, né prove di autosufficienza economica, e talvolta nemmeno il passaporto. E proprio questa politica di accoglienza fece la differenza per migliaia di persone, perché il grosso problema per gli ebrei che volevano sfuggire al nazismo non era tanto quello di lasciare la Germania, quanto quello di trovare un paese disposto ad accoglierli.
Fino al 1941 – quando i tedeschi non permisero più agli ebrei di lasciare i territori del Reich – la loro migrazione non era solo consentita, ma addirittura consigliata con atti di intimidazione, anche se solo a determinate condizioni. Occorreva una serie di documenti emessi dalle autorità di governo, tra i quali figurava il “certificato di innocuità”, rilasciato a chi era, tra l’altro, in regola con il pagamento delle tasse; era obbligatorio registrare tutti gli oggetti di valore per consentirne la confisca, e sopratutto serviva la prova di avere un luogo dove andare, ovvero un visto ottenuto da un altro paese, che era quasi una chimera per le garanzie richieste, non sostenibili da chi poteva portare con sé solo pochi stracci.
Famiglia ebrea a Tongshan Road – Shanghai
Fonte immagine: United States Holocaust Memorial Museum
La salvezza, come racconta una targa apposta al Jewish Refugees Museum nel quartiere Hongkou di Shanghai, arrivava inaspettatamente da un paese lontano:
“Nessun consolato o ambasciata a Vienna era disposto a concederci visti di immigrazione fino a quando, per fortuna e perseveranza, sono andato al consolato cinese dove, meraviglia delle meraviglie, mi è stato concesso il visto per me e la mia famiglia allargata. Sulla base di questi visti, siamo stati in grado di ottenere una sistemazione sul Bianco Mano, di proprietà di una linea di navigazione italiana, che doveva partire all’inizio di dicembre del 1938 da Genova, dall’Italia a Shanghai, in Cina – un viaggio di circa 30 giorni. “ – Eric Goldstaub, rifugiato ebreo a Shanghai.
E così, senza molta possibilità di scelta, per sfuggire alle persecuzioni naziste migliaia di ebrei, e una piccola minoranza di non ebrei, partirono dalla Germania e da altre aree dell’Europa Centrale, per andare a stabilirsi nel quartiere Hongkou di Shanghai. Quello era il luogo economicamente più accessibile della città, per chi arrivava ricco solo di disperazione.
Distretto di Hongkou – Maggio 2007
Fonte immagine: weeeeed via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 3.0
Dopo la famigerata Notte dei Cristalli, la fuga divenne l’unica via di salvezza per gli ebrei, ma dall’agosto del 1939 anche a Shanghai furono poste delle restrizioni per il loro ingresso. Restrizioni non decise dai cinesi, ma dalle potenze straniere occidentali e dal Giappone, che in quel momento aveva il controllo della città.
Bambina ebrea con amiche cinesi a Hongkou
Immagine di pubblico dominio
E se agli inizi del 20° secolo Shanghai era una città ricca di vita e di stimoli, negli anni tra il 1937 e il 1941 tutto cambiò: uscì devastata dalla guerra sino-giapponese. Eppure, i profughi ebrei vennero accolti e aiutati con quello che era possibile condividere:
Una stanza per dormire, cibo, e forse solo un sorriso
Boy-Scout ebrei e il loro stemma
Fonte immagine: United States Holocaust Memorial Museum
Nacque così la Piccola Vienna, dove poco alla volta i rifugiati aprirono negozi, ristoranti, circoli, e costruirono sinagoghe, scuole, cimiteri, ma anche ospedali dove nascevano i bambini nati in quella nuova realtà, così diversa dalla lontana Germania:
La conquista della normalità
Pubblicità di un negozio ebreo di cappelli a Shanghai
Fonte immagine: United States Holocaust Memorial Museum
Conquista che durò solo fino al 1941, quando il funzionario della Gestapo Josef Meisinger, distaccato a Tokyo, tentò di convincere i giapponesi a rinchiudere gli ebrei di Shanghai in un campo di concentramento. Alla fine il Piano Meisenger fu respinto, ma dal febbraio del ’43 tutti gli ebrei arrivati dopo il 1937 furono obbligati a trasferirsi a Hongkou, un quartiere già estremamente sovrappopolato, che divenne il ghetto ebraico della città cinese.
Monumento commemorativo al Jewish Refugees Museum
Fonte immagine: Philip Cohen via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 2.0
L’entrata e l’uscita delle persone era controllata, ma nonostante questo, e nonostante la penuria di cibo e di spazio vitale (30/40 persone e anche più dormivano in una sola stanza), la mancanza di adeguati servizi igienici e le conseguenti malattie, il ghetto di Shanghai era quasi un luogo di villeggiatura rispetto a quelli europei.
Rifugiati ebrei a Shanghai
Fonte immagine: United States Holocaust Memorial Museum
Dopo la guerra, la comunità ebraica si risvegliò in una città che non era più la stessa. I giapponesi erano stati cacciati, ma continuavano le lotte tra nazionalisti e comunisti. Cominciò un nuovo esodo verso nazioni diverse, in particolare Stati Uniti e Israele.
Visto d’ingresso – Permesso di uscita dal ghetto – Divieto d’uscita dal ghetto
Fonte immagine: United States Holocaust Memorial Museum
Alla fine degli ’50 quasi ogni traccia della vita ebraica a Shanghai era sparita: scuole e negozi chiusi, sinagoghe demolite. Ma oggi le strette strade di Hongkou sono ancora brulicanti di persone, e così se le ricordano Karl e Judy Moranz, che a Vienna avevano vissuto a tre isolati di distanza senza mai incontrarsi, e che salirono sulla stessa nave diretta in Italia nel 1949, senza conoscersi.
I loro destini si incrociarono dieci anni dopo a New York, durante un ballo organizzato per i sopravvissuti di Shanghai. Lui le offrì da bere, lei gli diede il suo numero di telefono e un anno dopo erano sposati… Un finale da favola che corona la storia dell’accogliente Shanghai e della comunità ebraica che lì trovò la salvezza.