E’ notte, ma fa comunque molto caldo là sotto, nella stiva della nave che dall’Avana veleggia verso il piccolo porto di Guanaja. Da tre giorni 53 schiavi sono incatenati nel ventre della goletta, dove mescolano rabbia e lacrime, sudore e sangue, con in testa solo il modo di riconquistare la libertà.
Nella notte tra il 30 giugno e il 1° luglio Sengbe Pieh riesce a liberarsi e poi toglie le catene ai suoi compagni. La libertà è lì, a portata di mano, occorre solo impadronirsi della nave.
Il primo a fare le spese della rivolta è il cuoco di bordo, Celestino Ferrer, ucciso immediatamente prima del suo padrone, il capitano Ramón Ferrer, mentre due marinai riescono a scappare a bordo di una lancia. Remano verso Cuba, per lanciare l’allarme, ma intanto gli schiavi hanno sopraffatto il resto dell’equipaggio, così come i due spagnoli, José Ruiz e Pedro Montes, che li avevano appena comprati per farli lavorare nelle loro piantagioni di canna da zucchero. I ribelli ordinano di far rotta verso l’Africa, ma non si accorgono che i marinai li ingannano: durante il giorno navigano verso est, ma di notte ritornano verso nord-ovest in direzione delle coste americane.
Così per quasi due mesi, fino a quando, poco al largo di Long Island (New York), gli ammutinati, stremati dalla fame e dalla sete, decidono di far gettare l’ancora per andare a cercare cibo e acqua a terra. Invece arriva un guardacoste statunitense che, per decisione del comandante, Thomas Gadney, prende in custodia la nave e la relativa merce (gli schiavi ribelli) e si dirige verso un porto del Connecticut, New London, anziché nell’assai più vicina Long Island. Il motivo è semplice: nello stato di New York la schiavitù è illegale (a differenza del Connecticut) e quindi non si sarebbe potuta chiedere la ricompensa per il salvataggio della nave e della merce.
E’ il 26 agosto 1839, e quella goletta, la Amistad, diventerà un simbolo della lotta allo schiavismo
Il commercio di schiavi tra l’Africa e le Americhe è illegale fin dal primo decennio dell’800, ma i negrieri continuano comunque con i loro traffici, in collaborazione con alcuni popoli africani che già usavano ridurre in schiavitù i prigionieri di guerra, e che poi hanno trovato proficuo venderli ai mercanti che fanno la spola tra i due continenti.
Per capire i numeri in gioco si parla di 10 o 12 milioni di persone deportate dalla loro terra nel Nuovo Mondo nel corso di tre secoli. Ne muoiono dai due ai quatto milioni solo a causa delle condizioni nelle quali vengono trasportati: gli afroamericani lo chiamano black holocaust, anche se sui libri di storia tutto questo non viene raccontato con l’enfasi di altre tragedie.
Sengbe Pieh ha circa 25 anni e vive nella sua terra, quella del popolo Mende (oggi Sierra Leone), quando viene catturato da qualcuno di una tribù diversa della sua, forse perché non ha pagato un debito. Deve camminare per dieci giorni, con in testa forse solo la moglie e i tre figli che ha lasciato al villaggio, per arrivare sulla costa, a Lomboko, la terribile “fortezza degli schiavi”, dove vengono rinchiusi nei famigerati barracoons i prigionieri in attesa di partire per l’America.
E’ il regno privato di Pedro Blanco, uno spagnolo che ha trovato più redditizio commerciare schiavi anziché coltivare canna da zucchero a Cuba. Per sedici anni (tra il 1822 e il 1838) procura braccia da lavoro da mandare a Cuba, Porto Rico, Trinidad e nella Repubblica del Texas (non ancora parte degli Stati Uniti), mentre le più grandi banche di Londra e New York fanno a gara per averlo come cliente. Intanto lui vive lì, a Lomboko, dove si è fatto costruire una sorta di reggia, che ospita le sue numerose mogli e concubine. Nel 1838 lascia l’Africa ma non abbandona la tratta degli schiavi, che prosegue tramite i suoi collaboratori. Solo nel 1849 una spedizione della Marina britannica libera tutti gli uomini in quel momento imprigionati a Lomboko e distrugge i barraccons.
Sengbe Pieh viene imbarcato su un brigantino, il Teçora, che batte bandiera portoghese o forse brasiliana, ma che comunque è diretto a Cuba. A bordo ci sono all’incirca 500/700 persone, o meglio, schiavi, che finiscono sul mercato dell’Avana. Josè Ruiz compra 49 adulti, mentre il compare Pedro Montes si aggiudica 4 bambini (tre femmine e un maschio). Gli schiavi salgono a bordo della Amistad di notte, perché quel commercio di persone è illegale, anche se probabilmente tollerato. Da quel momento Sengbe Pieh non ha più diritto nemmeno al suo nome (come lui tutti gli altri), e verrà chiamato Joseph Cinque.
E’ lui il leader di quel gruppo di schiavi ribelli, finiti nelle prigioni del Connecticut con le accuse di omicidio e ammutinamento. Inizia una battaglia legale che vede contrapposti due schieramenti: schiavisti e abolizionisti, ma che coinvolge anche i buoni rapporti tra Spagna e Stati Uniti.
La Spagna (e Cuba è all’epoca una colonia spagnola) chiede la restituzione dell’Amistad e della “merce”: quelli sono schiavi ribelli già di proprietà di Ruiz e Mendes, nati a Cuba, non uomini appena arrivati dall’Africa. Il governo statunitense appoggia questa tesi, per evitare complicazioni internazionali e anche le proteste degli stati del sud.
Il giudice del tribunale distrettuale di New Haven decide diversamente: quegli uomini sono stati portati via dalla loro terra illegalmente e hanno quindi diritto a essere, non solo liberati, ma anche ricondotti in Africa. Succede il putiferio: i proprietari di schiavi del sud insorgono e gli spagnoli protestano in modo pervicace. Interviene il Presidente, Martin Van Buren, che vuole placare tutte quelle contestazioni interne e internazionali (spera di essere rieletto per il secondo mandato), così si schiera a favore dell’accusa, che presenta ricorso alla Corte Suprema.
Intanto si è formato un comitato di abolizionisti a sostegno degli schiavi dell’Amistad, che riesce addirittura a trovare un interprete per gli imputati, un marinaio africano della Marina britannica che conosce la lingua mende. Joseph Cinque, a nome di tutti, può dare la sua versione dei fatti, ma è l’intervento di un ex Presidente, John Quincy Adams, a fare la differenza. E’ lui che, il 24 febbraio 1841, tiene l’arringa finale a difesa degli schiavi. La Corte Suprema accoglie la sua tesi e decide di rimettere in libertà gli imputati, perché, dicono:
“… è diritto fondamentale di tutti gli esseri umani in casi estremi, resistere all’oppressione e applicare la forza contro l’ingiustizia estrema.”
La sentenza non prevede che il viaggio verso l’Africa sia a spese del governo statunitense. Anche in questo caso intervengono gli abolizionisti, che raccolgono i soldi necessari per la traversata. Joseph Cinque è tra le 36 persone che decidono di tornare in patria, dove arrivano il 3 gennaio del 1842, insieme a cinque missionari cristiani.
La storia non dice cosa ne fu di loro, ma qualche racconto orale può fornire alcune informazioni. La Sierra Leone è senza pace, le guerre tribali insanguinano il paese, mentre il commercio degli schiavi non si ferma. Pare probabile che qualcuno degli uomini dell’Amistad si sia dedicato proprio a quel terribile commercio, forse anche Joseph Cinque.
Ma nulla è certo: al ritorno in Africa Cinque non ritrova né moglie né figli, forse portati via anche loro come schiavi. Per un po’ mantiene i contatti con i missionari arrivati con lui in Sierra Leone, poi sparisce e le voci si rincorrono: forse commercia in tabacco, o forse fa l’interprete in un’altra missione, oppure diventa uno schiavista, che si pente alla fine della sua vita e chiede una sepoltura cristiana. Tutto rimane avvolto nella nebbia di storie poco attendibili, raccontate chissà da chi e chissà quando.
Certamente però Joseph Cinque è stato un simbolo, positivo o negativo a seconda delle opinioni: un uomo sanguinario, un selvaggio, un “animale della giungla”, oppure un leader nato, un guerriero che lotta per la libertà.
Per comprendere le opinioni degli schiavisti dell’epoca, val la pena leggere qualche riga di un articolo pubblicato sul New York Morning Herald proprio a proposito di Cinque. Il giornalista racconta di come un abolizionista si ricreda dalle sue convinzioni (uso il linguaggio dell’epoca, non voglio edulcorarlo per non alterare la realtà storica):
“Invece di un leader cavalleresco con il portamento dignitoso e aggraziato di Otello, che impartiva energia e fiducia ai suoi seguaci intelligenti e devoti, vide un negro dall’aspetto cupo e scontroso, con un naso piatto, labbra spesse e tutte le altre caratteristiche dei suoi degradati connazionali, senza un solo tratto redentore o sorprendente, tranne le mere qualità brute di forza ed energia, che avevano ispirato il terrore tra i suoi compagni per l’uso indiscriminato e spietato della frusta. E invece di uomini intelligenti e relativamente civilizzati, che languono in prigionia e soffrono sotto le restrizioni della prigione, li trovò come veri animali, perfettamente contenti di essere reclusi, senza un raggio di intelligenza e sensibili solo ai bisogni del bruto.”
Questi poveri esseri disgraziati, secondo il pensiero del giornalista, sarebbero certamente progrediti respirando l’aria degli Stati Uniti, sotto i “miti vincoli di un possidente intelligente e umano”. Perché “l’idea astratta di libertà è del tutto incomprensibile per un africano, e ridicola se applicata a lui”.
Chissà cosa avrebbe pensato quel giornalista di inizio ‘800 se avesse visto il futuro, se avesse visto un presidente con la pelle nera guidare tutti gli americani moderni, nipoti e pronipoti di quei coloni che hanno strappato la loro terra ai nativi nei decenni successivi a quando aveva scritto. Forse Barack Obama non gli sarebbe sembrato più tanto un animale, ma noi, questo non possiamo saperlo.