Scoperto il “GENE” dei Serial Killer

No, non si tratta né di fantascienza né dell’ultimo thriller uscito al cinema, perché ciò che accomunerebbe i peggiori serial killer della storia è più reale che mai. Sono ormai diversi anni che, nel campo della criminologia, neuroscienziati di tutto il mondo studiano il cervello umano e cercano di individuare le cause che spingono certi soggetti a compiere atroci gesti come quello dell’omicidio.

Da questi studi è emerso che effettivamente una spiegazione scientifica esiste, e si trova nel nostro DNA. Cosa significa? Che le nostre stesse azioni potrebbero dunque essere comandate da qualcosa di più forte della volontà stessa.

Ma cosa abbiamo nel nostro organismo che potrebbe essere correlato ai tipici comportamenti di un serial killer?

Black and white shot of a man with a knife hysterically smiling.

Durante le ricerche sono stati scoperti due geni come principali cause di questi squilibri neurologici: il primo è il gene chiamato CDH13, di cui una particolare variante viene associata ad autismo, schizofrenia e ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività).

Il secondo gene, chiamato MAO-A, si trova nella parte più corta del cromosoma X, ed è un enzima che regola l’attività di neurotrasmettitori come quello della serotonina e della dopamina (conosciuti anche come gli ormoni della felicità). In pratica, chi possiede queste due varianti, specialmente nel caso del gene MAO-A, avrà più probabilità di sviluppare comportamenti violenti e aggressivi, di solito già visibili in giovane età. Tali soggetti tenderanno inoltre a diventare sempre più apatici, fino a commettere atti crudeli senza il minimo rimorso.

Dalle analisi però risulta una curiosità.

Sembra che questi due geni coinvolgano soltanto chi possiede una singola copia di cromosoma X (presente quindi nell’uomo), facendo sì che si crei un’alta concentrazione dell’enzima MAO-A. Al contrario invece, in chi possiede due copie di cromosoma X (come nella donna), l’enzima quasi si disperde.

Ecco (forse) spiegato il motivo per cui si riscontra un alto tasso di criminali seriali uomini rispetto alle donne. Un noto neuroscienziato statunitense di nome James H. Fallon, specializzato nella ricerca genetica del comportamento umano, ricevette da un suo collega la richiesta di cominciare ad analizzare diversi encefali appartenenti ad assassini psicopatici. Le analisi consistevano nel capire se potessero esserci dei pattern fisici ricorrenti.

Dopo mesi di continua ricerca, un giorno i due neuroscienziati si accorsero che uno di questi cervelli presentava le esatte caratteristiche di un potenziale serial killer. Naturalmente Fallon rimase stupito dal fatto. Quello che però lo sconvolse di più era che il cervello in questione fosse proprio il suo.

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Dopo questa scioccante scoperta, Fallon decise di risalire al suo intero albero genealogico, nell’intento di capire se nella sua famiglia ci fosse stato qualcun altro col suo stesso gene. Risultato?

Si scoprì che da parte di suo padre ci furono ben sette assassini

Ma come era possibile che un uomo così socievole, spiritoso e con un’infanzia caratterizzata dall’enorme affetto da parte dei genitori, fosse a tutti gli effetti un potenziale assassino?

In realtà qualche domanda sui suoi modi di fare se l’era anche fatta. Lui stesso ricorda momenti in cui l’ira improvvisa stava per prendere il sopravvento durante certe discussioni, o la sua reazione di totale indifferenza dopo aver saputo della morte di un suo caro amico. Probabilmente questi erano tutti sintomi legati alle caratteristiche genetiche riscontrate.

Tuttavia Fallon spiega come negli anni sia riuscito a controllare questo genere di istinti, specialmente quello della manipolazione (altro sintomo ricorrente nelle persone affette da psicopatia). Ora ha 73 anni, è padre di tre figli, professore all’UC Irvine School of Medicine e racconta al mondo intero la sua storia.

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La conclusione è che, come affermano gli scienziati, non tutti gli uomini che abbiano sviluppato il gene del serial killer lo diventino per forza. È molto più significativo in realtà osservare il contesto psicologico, sociale e ambientale in cui crescono questi individui, più che il gene stesso.


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