Di lei Catullo scrisse:
“Viviamo, mia Lesbia, e amiamoci,
e le dicerie dei vecchi severi
consideriamole tutte di valore pari a un soldo.
I giorni possono tramontare e risorgere;
noi, quando una buona volta finirà questa breve vita,
dobbiamo dormire un’unica notte eterna.
Dammi mille baci, poi cento,
poi ancora mille, poi di nuovo cento,
poi senza smettere altri mille, e ancora cento […]”

La sua relazione con Lesbia era all’inizio, ma, come si può notare dal carme 85, a un certo punto abbandonò l’euforia sentimentale e si lasciò andare a un’amara constatazione:
Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile;
non so, ma è proprio così e mi tormento

Fra il cosiddetto carme dei Baci e quello dell’odio et amo, c’è di mezzo la sua tormentata storia d’amore con una donna di cui neanche Cicerone aveva una buona opinione. Clodia, che Catullo chiamò Lesbia in onore della poetessa Saffo, originaria dell’isola di Lesbo, non era né una rispettabile matrona romana, né una donna virtuosa. Il perfetto riassunto di come Cicerone la vedeva è un soprannome che le affibbiò durante l’orazione della Pro Caelio.
La “Medea del Palatino”, la controparte romana di quella femme fatale della mitologia greca che agiva per mezzo di inganni e di efferatezze

Nel II secolo d.C., Apuleio affermò che il vero nome della Lesbia di Catullo era Clodia e, nel Cinquecento, l’umanista Piero Vettori la collegò alla moglie del proconsole Quinto Metello Celere, ovvero la Clodia tanto invisa a Cicerone. Da allora è opinione quasi del tutto condivisa che queste due figure del passato coincidano, ma per ricostruire la vita della scandalosa Clodia dobbiamo per forza affidarci al Liber di Catullo e alla Pro Caelio di Cicerone. Le informazioni sono poche e coprono solo qualche anno, ma bastano per tratteggiare a grandi linee la biografia di una donna colta, elegante, licenziosa e spregiudicata.

La relazione con Catullo
Claudia Pulcra nasce intorno al 94 a.C., figlia di Appio Claudio Pulcro, un esponente dell’antica gens Claudia, la cui origine risale alla fondazione di Roma. In gioventù segue l’esempio di suo fratello maggiore Publio Claudio, poi divenuto Publio Clodio, e chiude i dittonghi del suo nome, come vuole la tradizione popolare, per trasformarlo in Clodia. Nel 63 a.C. va in sposa al console Quinto Metello Celere, ma si tratta di un matrimonio poco felice. La coppia discute e litiga spesso, quasi sempre in pubblico, e Clodia, poco incline alla fedeltà, sfrutta le sue frequentazioni mondane per circondarsi di numerosi amanti.
È una donna bella e piena di fascino, un’ammaliatrice, e in molti cadono ai suoi piedi, incluso un certo Gaio Valerio Catullo, di dieci anni più giovane di lei

Il poeta lascia la natia Verona, nella Gallia Cisalpina, fra il 61 e il 60 a.C., e si trasferisce a Roma, dove frequenta gli ambienti aristocratici e intellettuali della città e inizia una delle relazioni adultere più celebri della letteratura latina.

Nel carme 109 scrive:
“Tu dici, vita mia, che questo nostro amore
sarà tra noi per sempre.
O grandi dei, fate che possa prometterlo davvero
e che parli sinceramente e dall’animo,
così che sia possibile per noi condurre tutta la vita
questo patto infinito di sacra amicizia”.
Catullo è innamorato perso. Canta delle sua Lesbia come se fosse l’incarnazione dell’eros e descrive la loro unione come un’esperienza totalizzante. All’inizio il poeta si illude della sincerità dell’amante. Lei gli promette fedeltà, qualcosa di grande e duraturo, ma non sarà così, perché, per quanto il loro patto d’amore sembri quasi un vincolo matrimoniale, Lesbia deve ancora mostrare la sua vera natura.

“Se si avvera ciò che tanto ardentemente vuoi,
e già ne hai perduto la speranza, questo sì che fa piacere al cuore.
Perciò mi fa piacere, anzi per me vale più dell’oro,
il tuo ritorno, o Lesbia, a me che ti bramo […]”
Nel carme 107, Catullo descrive il primo allontanamento di Clodia. Non sappiamo cosa sia successo, ma è probabile che la donna sia già venuta meno al suo giuramento, salvo poi riavvicinarsi al poeta e convincerlo che si sia trattato solo di un episodio sporadico.
La verità è ben più amara
Catullo abbandona la centralità dell’amore e gli affianca l’odio, il suo sentimento contrario. La vera Lesbia si palesa sempre di più. Mente, inganna e tradisce, usa parole fuorvianti, fa promesse che non manterrà mai, ma Catullo non riesce a dimenticarla.

“Un tempo dicevi di avere come amante il solo Catullo,
o Lesbia; che non lo avresti scambiato nemmeno per Giove […].
Ora invece conosco chi sei; e, quand’anche la mia passione divampi più ardente,
tuttavia, ti considero più volubile e abietta […]”

Catullo è in una fase di stallo. Lesbia lo ha tradito e ha infranto la promessa di fedeltà; addirittura, in un altro carme scopriamo che si è messa a sparlare di lui nelle domus romane. La donna continua, imperterrita, a mentire, ingannare e circondarsi di nuovi amanti e, ben presto, dell’odio et amo, rimane solo l’odio.
“Infelice Catullo,
non impazzire più.
Ritieni morto ciò che vedi morto […].
Non cercarla, se sfugge; e non vivere da disperato,
ma con ostinazione sopporta e tieni duro.
Cara ragazza, addio. Alla fine, Catullo tiene duro.
Più non ti cerca, più non t’implora, tanto tu non lo vuoi”

Dopo averla cantata come una sorta di donna angelo, Catullo è stanco e descrive Lesbia alla stregua di una meretrice, i cui trecento amanti non bastano a saziare il suo animo infedele.

La vedovanza e l’affaire alessandrino
Chiusa la burrascosa relazione col poeta, Clodia continua a far parlare di sé e, quando nel 59 a.C., suo marito Metello entra in contrasto con Cesare e muore in circostanze misteriose, qualcuno si convince che sia stata lei ad avvelenarlo per conto di Cesare.
La vedovanza non la scalfisce, anzi, le offre terreno fertile per una maggior libertà d’azione e, quando Marco Celio Rufo, anch’egli più giovane di lei di circa dieci anni, si trasferisce sul Palatino, dove appunto abita Clodia, la donna lo aggiunge alla sua schiera di amanti.

Nel 57 a.C., a Roma giunge una delegazione di 300 sudditi egiziani, capitanati dal filosofo Dione d’Alessandria, che hanno il compito di impedire al Senato di appoggiare il destituito Tolomeo XII nel suo piano di riconquista del trono. La spedizione si trasforma in un massacro e i sicari del faraone uccidono quasi tutti i diplomatici alessandrini, incluso Dione, della cui morte viene accusato Celio.
L’evento, che ha luogo nel 56 a.C., poco dopo che il giovane Celio ha interrotto la relazione con Clodia, gli costa un processo per sovversione contro l’ordine pubblico celebrato fra il 3 e il 4 aprile.

Dietro i vari capi d’imputazione ci sono Publio Clodio Pultro e sua sorella Clodia, con quest’ultima che fornisce all’accusa una testimonianza fondamentale. Secondo la sua ricostruzione dei fatti, ambientata poco prima della tragica morte degli alessandrini, Celio si reca da lei e le chiede in prestito dei soldi, senza dirle cosa debba farci. La donna acconsente e più tardi scopre che sono serviti per assoldare gli assassini di Dione. Quando Celio lo viene a sapere, paga i servi di Clodia per avvelenarla, ma questi avvisano la padrona e la salvano.

La Pro Caelio
Con un resoconto del genere, per Celio non si prospetta altro che la morte, perché Clodio è un importante alleato di Cesare, e lui stesso è un elemento scomodo nella politica romana, ma se, nel primo giorno di udienze, l’accusa lo fa a pezzi, descrivendolo come un giovane dissoluto e capace di ogni misfatto, il 4 aprile, giunge in suo soccorso un certo Marco Tullio Cicerone.

Fra Cicerone e Clodio ci sono vecchi attriti, e il celebre oratore decide di attaccare il rivale attraverso la sorella Clodia, la cui fama poco lusinghiera la precede. In poche parole, il processo a Celio si trasforma in un procedimento giudiziario in cui i rancori personali di tutte le parti in causa si intrecciano con la politica.
La linea difensiva di Cicerone è semplice. I capi d’imputazione si reggono in piedi grazie alla testimonianza di Clodia, e se vuole ottenere il rilascio di Celio, non deve concentrarsi sulle accuse, ma sulla testimone.

Nel suo discorso, raccolto poi nella Pro Caelio, presenta Clodia per quella che è: una libertina protagonista di tanti pettegolezzi; addirittura, qualcuno parla di una possibile relazione incestuosa fra lei e Clodio. Nulla di cui meravigliarsi, dice Cicerone, considerando la sua schiera di amanti pressoché infinita.
Come si può credere alla testimonianza di una donna così lontana dalle virtù delle rispettabili matrone romane?

Secondo Cicerone, una vedova immorale come Clodia ha inventato di sana pianta tutta la storia dei soldi e dell’avvelenamento – fra l’altro, proprio lei, che, a sua volta, è stata sospettata di aver avvelenato il marito – per vendicarsi di Celio.

Il giovane aveva capito chi era Clodia, la Medea del Palatino, come la definisce Cicerone, e l’aveva allontanata ferendone la vanità. Ed è stato in quel momento che, sempre secondo Cicerone, la donna avrebbe reagito facendo quello che sapeva fare meglio: manipolare e mentire.
Alla luce di tutti questi elementi, perché dar credito alle insinuazioni di una donna più vicina a una prostituta che a una matrona?

Per Cicerone è un successo su tutti i fronti. I giudici affermano l’innocenza di Celio, che viene scagionato, e Clodia esce dal processo sconfitta e umiliata, pubblicamente derisa da tutti.

Le notizie biografiche su di lei si esauriscono dopo il processo. Ci è ignoto cosa le sia successo e quando sia morta, ma grazie alla Pro Caelio di Cicerone e al Liber catulliano sappiamo quanto basta per delineare il ritratto di una femme fatale del passato, di un’abile manipolatrice che si invischiò nella politica romana, raggirò un’inerme Catullo ed entrò di diritto nella storia della letteratura latina.
Fonti:
Gian Biagio Conte, Letteratura Latina: dall’alta repubblica all’età di Augusto, Le Monnier, Milano, 2012
Pro Marco Caelio, Cicerone – Wikisource
Clodia – Enciclopedia Treccani
Clodia – Wikipedia inglese