S’Accabadora: la Dama Sarda della “Dolce Morte” fra Mito e Realtà

Eutanasia, la “dolce morte” desiderata da chi sopporta una lunga e dolorosa agonia è un argomento sul quale è difficile trovare pareri concordi. Quel che è certo è che aiutare un moribondo a porre fine alle sue sofferenze è considerato, per la legge italiana, un omicidio a tutti gli effetti, punibile con la reclusione da 6 a 15 anni.

Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:

Ma è possibile che in passato, in alcune aree isolate dove le cure mediche rappresentavano soltanto un miraggio, ci sia stata una forma di amore familiare che sfociava con l’eutanasia?

Da questa domanda si passa all’introduzione di una storia che è sospesa fra storia e leggenda, la figura sarda dell’Accabadora.

Fotografie di copertina di: Omar Lugas tratta da Flickr, condivisa con licenza CC BY-NC-SA 2.0. e Museo Etnografico di Luras.

In tempi remoti, e forse anche relativamente recenti, la femina accabadora era una figura presente in alcune aree della Sardegna: una donna vestita di nero che aveva la funzione di “finire”, di porre termine alle sofferenze di un moribondo, o di un anziano bisognoso di cure troppo impegnative, che in una società rurale potevano significare un problema per la sussistenza dell’intero nucleo familiare.

Sotto, fotografia del Museo Etnografico di Luras:

Già sul significato di accabadora, oltre che sulla sua realtà storica, ci sono opinioni diverse. Forse il termine deriva dal verbo spagnolo acabar, che significa “finire / terminare”, ma potrebbe anche avere a che fare con il sardo accabaddare, un vocabolo dai diversi significati che evocativamente si rincorrono: incrociare le mani ad un morto, oppure “mettere a cavallo”, ovvero far partire.

Comunque sia, l’accabadora era una donna che procurava la morte a chi stentava, tra mille sofferenze, a lasciare la vita terrena. Secondo alcuni studiosi erano persone reali che si assumevano il compito, su richiesta dell’ammalato o dei parenti, di dare una morte rapida e possibilmente indolore, senza ricevere un pagamento in denaro ma solo qualche prodotto della terra.

S’accabadora vestiva di nero, e agiva sempre di notte nella casa del malato, con il volto coperto, dopo aver allontanato tutti i parenti. La morte poteva arrivare in diversi modi: innanzitutto la donna toglieva al moribondo quegli amuleti che magari ancora portava su di sé, ma anche le immagini sacre presenti nella stanza, considerate una protezione, quindi un impedimento alla “partenza”. Se, nonostante tutto, ancora l’anima non si decideva ad abbandonare il corpo, s’accabadora poteva, a seconda delle tradizioni locali, usare un cuscino per soffocare l’ammalato, oppure l’avrebbe strangolato, o ucciso con un colpo di mazzuolo alla tempia.

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In Gallura, nel Museo etnografico di Luras che ringraziamo per le fotograie del video e dell’articolo, è conservato proprio l’unico “mazzolu” (un martello di legno di olivo selvatico), che appartenne ad una donna che operava come levatrice e come accabadora fino agli anni ’40 del secolo scorso. Non deve stupire che in diversi racconti la figura dell’accabadora coincida con quella della levatrice, perché in passato la nascita e la morte venivano considerati momenti naturali del ciclo della vita.

Sotto, fotografia del Museo Etnografico di Luras:

In Barbagia, cuore ancestrale della Sardegna, il rituale di morte era quanto di più vicino alla nascita si possa immaginare: s’accabadora stringeva tra le cosce il collo del malato, che moriva con la testa appoggiata proprio là dove un bimbo vede la luce per la prima volta.

Sotto, fotografia del Museo Etnografico di Luras:

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Secondo la tradizione orale, quando un moribondo tardava a morire, significava che doveva probabilmente scontare un grave peccato commesso durante la sua vita: aver spostato le pietre di confine di una proprietà, oppure aver rubato un giogo, attrezzo agricolo fondamentale per la sopravvivenza, in una società contadina. Per questo, a chi soffriva un’interminabile agonia, veniva passato sul corpo, e/o messo sotto la testa su jualeddu (un piccolo giogo), rituale che avrebbe posto fine alle sofferenze terrene.

Sotto, fotografia del Museo Etnografico di Luras:

Secondo alcuni resoconti le accabadora avrebbero portato avanti la loro pietosa opera fino ai primi decenni del ‘900, e le testimonianze orali identificano almeno due casi nel XX secolo: uno a Luras, nel 1929 e uno ad Orgosolo, nel 1952.

Tuttavia, diversi antropologi non credono che veramente in Sardegna si praticasse l’eutanasia. Le accabadora erano piuttosto delle donne esperte di rituali magici, condotti allo scopo di abbreviare l’agonia di un malato: una accabadura magica, legata a forme di superstizione popolare. Questa è la tesi di Italo Bussa, che nel libro “L’accabadora immaginaria. Una rottamazione del mito” sostiene che le dimostrazioni reali accabadoras siano prive di fondamento.

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La figura dell’Accabadora è quindi una figura a metà fra realtà e leggenda, ma sia che appartenga alla storia sia al mito, in moltissime comunità la sua presenza è percepita come parte della memoria storica del tempo che fu.

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L’Accabadora è stata il soggetto per il film omonimo di Enrico Pau del 2016, di cui sotto trovate il trailer:

La studiosa di antropologia Dolores Turchi, ha scritto un libro “Ho visto agire s’accabadora”, dove raccoglie la testimonianza di un’anziana donna che racconta del suo incontro con una accabadora:

Per scoprire di più di S’Accabadora è possibile leggere i libri dedicati e visitare il Museo Etnografico di Galluras, che ha gentilmente fornito le fotografie dell’articolo.


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