Roma, 42 a.C.: Ortensia e lo scandalo della Donna Avvocato che difese le Matrone

Tacere: questo è uno degli obblighi delle donne romane, o meglio, un dovere suggerito dalla tradizione, un attenersi ai costumi, quei mores che costituiscono le fondamenta della società. Anche il vino, che rende loquaci, è proibito, perché le donne, prive di autocontrollo per loro stessa natura, non possono mai assumere atteggiamenti che siano contrari alla verecondia e al pudore, e soprattutto devono tacere per non mettere a rischio le istituzioni pubbliche, l’equilibrio stesso dello Stato.

E per dare a quel tacere una veste sacra, ecco che nasce il culto di Tacita Muta, una divinità degli inferi che diventa, proprio per il luogo dove viene relegata, dea del silenzio. E’ un culto arcaico quello di Tacita Muta, che risale ai tempi della fondazione di Roma: lo introduce il successore di Romolo, Numa Pompilio, che evidentemente teme le donne e le loro parole.

Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:

Le donne devono tacere

L’immagine rappresenta Sant’Anna, affresco da Faras oggi al Museo Nazionale di Varsavia

Ovidio racconta, nei “Fasti”, l’origine del culto di Tacita Muta: Lara o Lala è una gran bella ninfa, una naiade per la precisione, che Giove tenta di sedurre. Peccato che lei vada a raccontare la cosa a sua sorella e, fatto gravissimo, anche alla dea Giunone, ovvero la legittima e gelosa moglie di Giove che, per punirla le strappa la lingua. Non contento, il re degli dei ordina a Mercurio di condurla negli inferi, il luogo del silenzio eterno.

Lala non può più parlare, non può raccontare che durante il tragitto verso gli inferi Mercurio la violenta: il silenzio forzato di una donna, che diventa obbligo per tutte le donne, assicura il potere degli uomini. Lala è ormai diventata Tacita Muta, madre di due gemelli, i Lares Compitales (divinità protettive minori), figli di quel rapporto non voluto con Mercurio.

Matrona Romana del II secolo – Museo Archeologico di Istanbul

Immagine di Giovanni Dall’Orto via Wikimedia Commons

Il silenzio in pubblico e nel foro è dunque per le donne un obbligo legato alla tradizione, ai costumi dei padri (mos maiorum), non sancito per legge. Capita allora che qualcuna ogni tanto sgarri (il primo esempio è Lucrezia, simbolo però di virtù), come Ortensia, che nel 42 a.C. diventa avvocato per un giorno, e che per questo resterà nella storia.

Ortensia parla davanti ai triumviri

In realtà non è la sola che osa tanto: lo storico Valerio Massimo (I secolo d.C.) cita anche Gaia Afrania, “personificazione dell’intrigo femminile”, un “mostro”, con una voce simile al “latrare di un cane”, e Mesia Sentinate, per la quale ha parole meno offensive ma che paragona comunque, per “l’animo virile”, a un uomo. Queste due donne evidentemente destano scandalo per quel loro presentarsi in tribunale senza la presenza di un tutore, un uomo che perori la loro causa. Sono considerate le prime avvocate della storia, insieme a Ortensia, che però si distingue da loro per il diverso fine della sua arringa, non pronunciata per un motivo personale, ma per una vicenda collettiva che si trasforma in un caso politico.

De Mulieribus Claris: Ortensia in un’immagine medioevale

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E’ il 42 a.C. A Roma, dopo la morte di Giulio Cesare, c’è il caos. I triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido mettono in atto una politica di proscrizioni e di massacri, giustificati da una volontà di vendetta nei confronti degli assassini di Cesare. Oltre a questo c’è anche un altro fine: accumulare la ricchezza necessaria per affrontare l’inevitabile guerra civile contro Bruto e Cassio.

I triumviri non sanno più a chi estorcere denari, così pensano di tassare un gran numero di matrone romane, mille e quattrocento donne ricche e sole, che non hanno più un uomo (padre, marito, figlio) che le tuteli e che possa rappresentarle in tribunale.

Il provvedimento, emanato con la scusa di un doveroso e obbligatorio aiuto alla spesa militare, prevede la stima di tutti i beni di ogni matrona, in base ai quali quantificare il contributo dovuto. Schiavi e liberti possono, dietro ricompensa, denunciare le padrone che provano a nascondere qualche proprietà…

Le matrone non ci stanno e si rivolgono alle mogli dei triumviri perché intercedano in loro favore. E’ una prassi comune questa dell’intercessione, che veicola una richiesta privata (non solo delle donne) per il tramite di una persona vicina a chi ha il potere decisionale. In questo caso la pratica fallisce: Fulvia, moglie di Antonio, caccia in malo modo le matrone, e le altre due non concludono nulla.

Fallito il tentativo di risolvere la faccenda privatamente, ecco che la questione diventa pubblica, trova voce nel luogo riservato alla politica e quindi agli uomini, il Foro, dove le donne non hanno facoltà di parlare, se non in casi eccezionali.

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Nel Foro i triumviri ascoltano le eccezioni alle proscrizioni decise, e lì si presentano le matrone, patrocinate da Ortensia, figlia di un noto avvocato (Quinto Ortensio Ortalo all’epoca già morto), che ha studiato retorica, e bene, sotto l’ala del padre.

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Un motivo c’è se è una donna a perorare la causa delle matrone:

Nessun uomo aveva osato assumere il loro patrocinio (Valerio Massimo)

Ortensia la butta subito in politica, e pronuncia un’orazione degna del padre. Lo storico Appiano (II secolo d.C.) scrive:

“Perché mai, chiese Ortensia, le donne dovrebbero pagare le tasse, visto che sono escluse dalla magistratura, dai pubblici uffici, dal comando e dalla res publica?”

Senza contare che quei soldi servono a finanziare una guerra civile e non a difendere la patria:

“Ci avete da sempre privato del potere e ora volete tassare noi che non comandiamo nulla? Ci dite che c’è la guerra? E quando mai non c’è stata la guerra? Non potete ridurci nello stato indegno e indecoroso di chi non ha più terra, dote, case. Questi sono beni senza i quali a donne libere non è possibile vivere. Potremmo donarvi spontaneamente dei gioielli, come hanno fatto una volta le nostre madri (durante le guerre puniche, Ndr), quando ciò serviva a difendere la patria da nemici, ma a voi il patrimonio di cui volete privarci serve solo a farvi guerra l’uno contro l’altro”

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Generosità delle matrone romane – Louis Gauffier, 1790

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I triumviri, che si sentono attaccati personalmente, e per giunta da una donna (in un momento in cui nessun uomo osava contrastarli pubblicamente), sono furibondi e ordinano che tutte le matrone siano allontanate dal Foro. Incredibilmente però, la folla prende le loro difese e quei tre grandi uomini, Ottaviano, Antonio e Lepido, devono cedere, almeno in parte:

Si accontentano di tassare solo 400 tra le più ricche matrone romane

Ortensia parla davanti ai triumviri – illustrazione su legno di epoca medioevale

Immagine di pubblico dominio via Flickr

La vittoria di Ortensia invece è memorabile: la sua voce si alza chiara e forte nel Foro, a rivendicare un ruolo che non le sarebbe consentito, ma del quale si appropria in virtù di una situazione eccezionale, la guerra civile, che nessun uomo aveva avuto il coraggio di indicare come causa di quel periodo così difficile per Roma.

Dopo quello straordinario episodio però, gli uomini romani troveranno il modo per impedire che accada di nuovo: vietano alle donne, per legge, di esercitare attività maschili, soprattutto quella di avvocato. Postulare pro aliis, perorare per altri, è proibito alle donne, così come ricoprire incarichi pubblici…

Trascorreranno più di diciotto secoli prima che una donna, Lidia Poët, possa esercitare la professione di avvocato in Italia, e non senza contrasti. Ma questa è un’altra storia…

Fonte su Tacita Muta: Tacita Muta, la dea del silenzio, di Neria De Giovanni


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