Rodolfo Valentino: la Tormentata Storia del 1° Divo di Hollywood

Quando la mattina del 23 agosto del 1926 una peritonite degenerata in setticemia uccise, a soli 31 anni, Rodolfo Valentino, si registrarono scene di isteria collettiva e di fanatismo mai viste prima.

Sotto, la folla lascia il funerale:

Il Polyclinic Hospital di New York, luogo del trapasso del divo, fu letteralmente preso d’assalto da fotografi e da cronisti, ma soprattutto divenne l’immediata meta di pellegrinaggio di migliaia di ammiratrici in preda allo sconforto.

Scene di disperazione da parte del pubblico femminile si registrarono, tuttavia, un po’ ovunque nel mondo, data la fama planetaria dell’attore italiano.

Seguirono il feretro – oltre agli attori più celebri dell’epoca, da Gloria Swanson a Chaplin – decine di migliaia di persone in una ressa indicibile, che paralizzò il traffico e causò decine di feriti, mentre Pola Negri, la sua ultima amante, sveniva teatralmente sulla sua bara.

Si contò un’impressionante serie di suicidi quel giorno, anche se non è chiaro se fossero tutti da porsi in relazione alla scomparsa di Rodolfo Valentino. Certamente si suicidò per lui una giovane attrice inglese, Margaret Scott, che prima di togliersi la vita, a Londra, commissionò addirittura il proprio necrologio su di un quotidiano, che recitava: “Margaret Scott, 27 anni, straziata dal dolore per la morte del celebre attore Rodolfo Valentino, si è avvelenata ieri nella sua abitazione: l’estate scorsa aveva avuto la fortuna di trascorrere qualche tempo a Biarritz in compagnia dell’astro del cinema”. Si uccise per la disperazione persino un ragazzo che lavorava all’Ambassador Hotel di New York, dove l’attore aveva una suite fissa.

Ma chi fu davvero Rodolfo Valentino, questo giovane dalla fama tuttora ineguagliata, che divenne il più grande divo del cinema muto di inizio Novecento?

Rodolfo (o Rudy) Valentino, all’anagrafe Rodolfo Alfonso Raffaello Pierre Filibert Guglielmi, era nato a Castellaneta, in Puglia, nel 1895 e, giovanissimo, dopo un breve soggiorno a Parigi ed un altrettanto breve rientro in Italia, era partito alla volta dell’America, in cerca di fortuna.

Non era un emigrante come gli altri, la sua era una famiglia borghese: il padre, che aveva perso da piccolo, era stato un veterinario, ex capitano di cavalleria, appassionato di araldica, convinto di avere ascendenze nobili, mentre la madre, Marie Gabrielle Bardin, era una francese in buoni rapporti con l’aristocrazia locale.

Nonostante la tendenza all’indisciplina, che lo aveva fatto radiare da un collegio, era riuscito comunque a diplomarsi in agraria presso un istituto di Sant’Ilario Ligure, nel 1912.

Sbarcato nel nuovo continente, Rodolfo si trovò rapidamente in ristrettezze economiche ed intraprese, per sopravvivere, vari mestieri di fortuna, finché finì per lavorare come taxi dancer, ovvero come ballerino a pagamento, per balli in coppia.

Era diventato un giovane di rara bellezza, anche se di statura non eccelsa, dai capelli corvini e dai grandi occhi neri, a mandorla, nel volto dai tratti fini e regolari. Il fisico agile ed aggraziato, la naturale disposizione alla danza, la gentilezza dei modi, lo resero immediatamente popolare tra le donne, ed attrassero l’attenzione di danzatrici di solida reputazione, quali Bonnie Glass e Joan Sawyer, che fecero coppia fissa con lui.

Trasferitosi sulla costa occidentale degli Stati Uniti, a San Francisco, venne ingaggiato da una compagnia teatrale di operetta per una tournée come ballerino, che lo portò ad Hollywood, la meta lungamente agognata.

Dopo aver lavorato come comparsa in alcune pellicole, interpretò, nel 1921, “I quattro cavalieri dell’Apocalisse” di Rex Ingram.

Nel film recitava il ruolo di un avventuriero libertino, che si riscatta con un’eroica morte in battaglia. La scena del tango, in cui Rodolfo Valentino danzava allacciato in modo sensuale alla propria compagna, sedusse il pubblico e gli assicurò la celebrità.

Era stata la sceneggiatrice June Mathis ad intuire che il fascino dell’italiano avrebbe potuto fare breccia sul pubblico femminile.

Il film decretò il successo travolgente di “Rudy” come sex-symbol e l’inizio della sua breve e folgorante carriera, fatta di 40 pellicole in poco più di dieci anni, che lo proiettarono in maniera indelebile nel firmamento della storia del cinema.

Indimenticabili le sue interpretazioni in film quali “Il figlio dello sceicco”, “Lo sceicco” e “Sangue e arena”.

Magnetico ed appassionato, l’attore dal fascino esotico e tenebroso infiammava lo schermo grazie alla gestualità fluida, unita alla naturale fotogenia: fu di volta in volta uno sceicco arabo, un torero spagnolo, un gaucho argentino o un cospiratore russo, restando infine imprigionato in ruoli che, pur esaltandone la fisicità, mortificheranno in parte la sua versatilità come attore.

Quando, nel 1921, uscì “Lo sceicco bianco”, il suo produttore, Adolph Zukor, ricordò che le file di donne al botteghino erano interminabili al punto che la fama del suo interprete divenne di tale portata – i giovani si pettinavano e si vestivano come lui – che sociologi e psicologici cercarono una possibile spiegazione al fenomeno.

Forse la spiegazione risiedeva semplicemente nel fatto che l’attore incarnava, nell’immaginario femminile, l’ideale romantico coniugato al piacere trasgressivo, ideale su cui Valentino giocava per dare credibilità al proprio personaggio, non a caso restò celebre la sua affermazione “per gli occhi di una donna si può anche andare in prigione”, pronunciata quando fu arrestato per bigamia.

Ma se nella vita pubblica Rodolfo Valentino era adorato come un sex-symbol, la sua vita privata fu sempre molto chiacchierata. Si vociferava che avesse intrattenuto varie relazioni omosessuali e che i suoi due matrimoni – il primo, brevissimo, con Jean Acker, il secondo con Natacha Rambova, di cui erano note le amicizie lesbiche – fossero solo di facciata.

Sotto, Jean Acker:

A dispetto del nome d’arte russo, Natacha Rambova era una danzatrice e sceneggiatrice statunitense, sofisticata quanto ambiziosa, che esercitò un forte ascendente sul divo.

Sotto, Natacha Rambova:

Il loro matrimonio non era iniziato nel migliore dei modi: quando la coppia si sposò nel 1922, in Messico, l’attore fu immediatamente arrestato per bigamia, perché la legge americana consentiva di risposarsi solo a un anno dalla separazione, ed il divorzio dalla Acker non era ancora effettivo.

Natacha cominciò ben presto a gestire la carriera del marito, entrando in rotta di collisione con la potente Paramount, sostenendo che avrebbe dovuto valorizzare Valentino in ruoli maggiormente impegnati.

Il matrimonio terminò quando la United Artists, subentrata alla Paramount nella produzione dei film dell’attore, vietò alla Rambova di interferire nelle scelte del marito, di cui per alcuni anni era stata l’unica manager. La donna si vendicò raccontando in pubblico le vicende personali di Rudy, ridicolizzandolo.

Sotto, Natacha e Rodolfo:

Anche la stampa statunitense fu spesso ostile all’attore, dipinto come un immigrato dai costumi ambigui e dal fascino perverso, un dandy effeminato (verrà pubblicamente schernito dal “Chicago Herald Examiner” come “piumino per cipria rosa”) ed un corruttore dei costumi, che rubava immeritatamente i cuori delle donne americane.

Eppure Rodolfo Valentino era un artista eclettico e poliglotta, che desiderava costantemente migliorarsi, la cui biblioteca era piena di libri e di opere d’arte. Le sue interpretazioni nei ruoli voluti per lui dalla Rambova, come “Monsieur Beaucaire” del 1924 e “Notte nuziale” del 1925, ne misero inoltre in luce l’insospettato talento per la commedia e la sorprendente autoironia.

Charlie Chaplin fu tra i suoi estimatori. Scrisse nella sua “Autobiografia”:

Aveva un’aria triste. Rudy faceva buon viso al successo, dal quale, tuttavia, sembrava quasi schiacciato

È un dato di fatto che Valentino restò imprigionato – al punto di divenirne quasi insofferente alla fine – nel ruolo di amante ideale di un pubblico morbosamente attratto dalla sua immagine romantica e selvaggia.

In un’epoca come i “Roaring Twenties”, i ruggenti Anni Venti, in cui cominciavano ormai ad imporsi i fenomeni di massa, Valentino si impose – volente o nolente – come il prototipo del sex symbol maschile, senza avere il tempo di consegnare alla storia molto altro di sé.

La morte precoce contribuì infatti a trasformarlo in un’icona del cinema, destinata ad entrare permanentemente nella memoria collettiva, al punto che “Rodolfo Valentino” è divenuto, in molte lingue, il sinonimo stesso dell’amante irresistibile.

Aveva dichiarato:

Sono la tela su cui le donne dipingono i sogni”. Ed aveva visto lontano dato che, all’indomani della sua morte, più di 60 americane affermarono di aspettare un figlio da lui.

La sua tomba, all’Hollywood Forever Cemetery, a quasi cento anni dalla scomparsa, non è mai priva di fiori: un tributo quasi ossessivo ad un attore indimenticabile, divenuto leggenda (o prigioniero della sua leggenda) prima che l’avvento del sonoro nel cinema potesse offuscarne il mito.

Giovanna Potenza

Giovanna Potenza è una dottoressa di ricerca specializzata in Bioetica. Ha due lauree con lode, è autrice della monografia “Bioetica di inizio vita in Gran Bretagna” (Edizioni Accademiche Italiane, 2018) e ha vinto numerosi premi di narrativa. È uno spirito curioso del mondo che ama viaggiare e scrivere e che legge avidamente libri che riguardino il Rinascimento, l’Età Vittoriana, l’Arte e l’Antiquariato. Ha una casa ricca di oggetti antichi e di collezioni insolite, tra cui quella di fums up e di bambole d’epoca “Armand Marseille”.