Robledo Puch: l’Angelo nero di Buenos Aires

Ad appena vent’anni si era già macchiato di undici omicidi, compiuti nell’arco di pochi mesi. Non soltanto: anche furti, rapine, rapimenti, abusi e stupri. Questa è la storia nera di Robledo Puch, l’Angelo della morte.

Nato il 19 gennaio 1952, Carlos Eduardo Robledo Puch, chiamato semplicemente Robledo Puch, nella seconda metà degli anni cinquanta si trasferì con i genitori a Olivos, una popolosa città della provincia di Buenos Aires. Lineamenti delicati, naso sottile, splendidi occhi azzurri e un nido di capelli ondulati a incorniciare un volto gentile, Robledo veniva descritto da tutti come un ragazzino timido e riservato.

Amava giocare con le biglie e scambiare figurine con i compagni di scuola, ma non era particolarmente attratto dallo studio. Nel complesso, però, era un ragazzino come tanti, un po’ introverso, ma nulla di apparentemente diverso rispetto a tutti gli altri “niños” del sobborgo di Buenos Aires.

Con il trascorrere degli anni, però, qualcosa andò storto.

Olivos oggi

Fotografia di devinleedrew condivisa via Wikipedia con licenza CC BY 2.0

Robledo crebbe e tolse la maschera del bravo ragazzo per indossare quella dello spietato assassino. Il giovane aveva diciannove anni quando il 15 marzo 1971, assieme al complice Jorge Antonio Ibañez, entrò in una discoteca di La Lucila per rapinarla. Robledo era armato e dopo aver arraffato il bottino, consistente in 350.000 pesos, usò la piccola pistola semiautomatica che aveva portato con sé per ferire mortalmente il proprietario del locale e il guardiano notturno. A rendere più efferato il crimine, pare che questi non stessero già rincorrendo i due giovanotti in fuga, ma fossero addormentati in uno stanzino, ignari di tutto.

Nel maggio dello stesso anno Puch e Ibañez si introdussero nella filiale della vicina Vicente López di un noto marchio automobilistico tedesco. Era notte e i due compari confidavano di non incontrare nessuno, ma improvvisamente si imbatterono in una giovane coppia con in braccio un bambino di poche settimane. Preso forse dalla paura, Robledo Puch sparò mortalmente all’uomo, poi rivolse la pistola alla moglie, la ferì e tentò di abusare del suo corpo; infine, sotto gli occhi di un immobile Jorge Antonio Ibañez, fece partire un colpo verso il neonato che miracolosamente non fu centrato dalla pallottola. Passarono le settimane e la coppia di criminali colpì ancora, sempre più affiatata: prima fecero fuori il guardiano di un supermercato rapinato, poi, in due distinte occasioni, violentarono e uccisero due ragazze incontrate per strada.

Un inconveniente scosse però il duo di assassini: il 5 agosto 1971, cinque mesi dopo l’avvio di quella striscia di sangue, Jorge Antonio Ibañez morì in un incidente automobilistico causato probabilmente dal compare Robledo Puch alla guida della vettura. Puch uscì indenne dallo schianto e svanì nel nulla.

Pistola Ruby calibro.32 come quella usata da Puch

Fotografia di Rama condivisa via Wikipedia con licenza CC BY-SA 3.0

Il terrore, intanto, si era ormai diffuso in tutta la provincia di Buenos Aires; nonostante la giovane età e l’inesperienza, Puch e il fu Ibañez erano riusciti sempre a far perdere le tracce di sé dopo i crimini, lasciando i poliziotti a brancolare nel buio.

Successivamente alla morte dell’amico, Puch trascorse alcuni mesi alla ricerca di una nuova spalla che trovò infine nel diciassettenne Héctor Somoza.

Il debutto della nuova coppia criminale ebbe luogo a novembre: l’obiettivo era un supermercato di Boulogne Sur Mer, omonima della cittadina francese affacciata sul canale della Manica. Somoza convinse Puch e i due, in rapida successione, misero in atto due rapine ad altrettanti concessionari d’auto riuscendo a portare a casa oltre un milione di pesos.

L’escalation del crimine di Robledo Puch, però, era destinata a concludersi, sicché il 3 febbraio 1972 la coppia principiò una rapina in un negozio di ferramenta di Martínez. Dopo aver fatto fuori il guardiano, Puch individuò la cassaforte e tentò di aprirla con delle chiavi, ma lo scrigno non si aprì in nessuna maniera. Impaurito o arrabbiato per le informazioni errate ricevute sul luogo del colpo, Robledo estrasse nuovamente il revolver e fece partire una pallottola contro il compagno, uccidendolo.

Robledo questa volta non scappò via, ma afferrò una fiamma ossidrica e, facendo un viaggio e due servizi, prima sciolse il volto di Somoza, per impedirne la seguente identificazione, poi si concentrò sulla cassaforte che finalmente si schiuse. Rubò quel che c’era da rubare e fuggì via. Troppo di fretta perché dimenticò un elemento che gli costerà l’arresto: nella tasca dei pantaloni di Héctor Somoza la polizia trovò una carta d’identità, non intestata al defunto, ma a Robledo Puch di Buenos Aires, quello che da quel momento fu appellato dai giornalisti come l’Angelo nero o l’Angelo della morte.

Passarono pochissime ore e il 4 febbraio 1972, Robledo, ventenne da appena due settimane, fu finalmente arrestato.

Carlos Eduardo Robledo Puch

Fotografia di Graciela García Romero – Archivo Graciela García Romero di Pubblico dominio condivisa via Wikipedia

Il processo durò molti anni ché fu davvero complicato ricostruire l’intera parabola criminale del ragazzo. Al termine si accertò il coinvolgimento dell’Angelo nero in undici assassini, completati in meno di un anno di attività criminale, oltre a una marea di rapine, stupri e altri piccoli crimini.

Fu posta in essere anche una accurata perizia psichiatrica che, contro ogni pronostico, mostrò la più completa capacità di intendere e volere dell’imputato: nessun problema famigliare, affettivo, di natura economica o di salute. Robledo Puch era semplicemente un “delinquente nato”, come avrebbe detto nel XIX secolo Cesare Lombroso.

Si arrivò a sentenza solo nel novembre del 1980 e Robledo Puch fu condannato alla pena dell’ergastolo. Il giovane si oppose alla sentenza, la massima possibile in Argentina, definendola una ingiusta farsa, un “circo romano”, ma i giudici non cambiarono idea e Puch fu trasferito nel carcere di massima sicurezza di Sierra Chica dove tuttora si trova a scontare la pena.

Nel 2008 Robledo Puch, ormai un uomo di quasi sessant’anni, la stragrande maggioranza dei quali trascorsi dietro le sbarre, chiese la libertà condizionata. Il giudice gliela negò, ritenendolo ancora un elemento pericoloso per la società. Nel 2013, poi, stanco di quella vita, l’Angelo della morte avanzò richiesta di una revisione della pena oppure di condurlo alla morte con una iniezione letale. Entrambe le richieste furono rigettate; la seconda, inoltre, risultava illegale in Argentina dove la pena capitale era stata cancellata dal 1984.

Dall’inizio del 2019, superati i 45 anni di reclusione, Robledo Puch è divenuto il detenuto più longevo della storia dello stato sudamericano.

Sull’enigmatica figura dell’Angelo nero, il regista Luis Ortega ha realizzato nel 2018 un film dal titolo “L’angelo del crimine” (“El ángel”). A interpretare Robledo Puch, il giovane attore argentino Lorenzo Ferro.


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