Rita Levi Montalcini fra Genio e Grazia

«È un’idea strampalata quanto assurda: frequentare l’Università per diventare medico! Tu, una donna?! È già tanto che io abbia acconsentito a farvi proseguire gli studi superiori, a voi tre figlie. Non se ne parla, Rita. La nostra conversazione finisce qui». Adamo Levi, ingegnere elettrotecnico di colte origini sefardite, in quel giorno di primavera del 1930, era interdetto e intimamente furibondo.

Rita, dei quattro figli avuti da Adele Montalcini (Anna detta Nina, Luigi chiamato Gino, che diventerà un valentissimo architetto, e le gemelle Rita e Paola, nate il 22 aprile 1909), era quella che aveva rivelato più degli altri il suo stesso amore per le scienze, la sua stessa acuta e brillante mente e soprattutto la sua stessa inarrendevole caparbietà.

«Papà, mi dispiace contraddirvi, ma io non intendo rinunciare ai miei sogni, come hanno fatto mamma con la pittura e nostra sorella Nina con la scrittura, e diventare una moglie quieta che ubbidisce al marito. Non sono fatta per questo e non ho attitudine a diventar madre. Voglio laurearmi in Medicina, aiutare chi soffre e trovare nuove terapie per guarire i malati». E così sarà.

I Levi Montalcini appartenevano alla buona e benestante borghesia ebraica e abitavano in un palazzotto signorile di corso Umberto a Torino, non lontano da Largo Vittorio Emanuele II.

Le gemelle Rita e Paola, le piccole di casa, sono ovviamente legatissime tra di loro e alla Scuola Normale Margherita di Savoia, prestigioso liceo femminile per “signorine di buona famiglia”, manifestano entrambe attitudini artistiche: Paola, infatti, diventerà una talentuosissima pittrice allieva di Felice Casorati e apprezzata anche da Giorgio de Chirico, ma anche Rita dimostra di avere una mano felice nella pittura (per anni disegnerà manualmente e, con precisione calligrafica, le illustrazioni dei suoi articoli scientifici) e una indiscutibile propensione alla scrittura (i tanti libri da lei scritti ne sono una prova inconfutabile). Eccelle però soprattutto nelle materie scientifiche e di fronte alla sua determinazione, alla fine suo padre si arrende:

Rita nell’autunno del 1930 fa il suo ingresso alla Facoltà di medicina di Torino

In quell’anno erano solo sette ragazze a frequentarla, guardate dai colleghi maschi con ironica curiosità, se non addirittura con altera supponenza. Rita non si preoccupa dei giudizi altrui e tira dritto. La si vede ogni mattina diretta alla facoltà,  percorrere a passo svelto e deciso i bei viali della sua città, immersa nella tavolozza autunnale di colori ghiotti, luci ambrate e foglie accartocciate. All’Università fa amicizia con due brillanti studenti, dotati entrambi di un’intelligenza fuori del comune: Salvatore Edoardo Luria e Renato Dulbecco (che saranno vincitori del Nobel per la Medicina l’uno nel 1969 e l’altro nel 1975). Condividono un docente straordinario: il mitico, dispotico, e venerato professor Giuseppe Levi (la cui figura sarà mirabilmente tratteggiata da sua figlia Natalia Levi Gingsburg nel romanzo Lessico familiare).

Sono anni di intenso studio, ricerche appassionate, entusiasmi febbrili per Rita. Non c’è posto per gli affari di cuore, nonostante sia corteggiata, troppo concentrata com’è sugli studi, troppo affamata di conoscenza, troppo dedita al raggiungimento dei traguardi prefissati.

 

Rita Levi Montalcini, fotografia via Wikipedia

 

Nella sessione estiva del 1936 si laurea in medicina con lode, cui seguirà la specializzazione in neurobiologia, ma arriva il funesto 1938 e le famigerate leggi razziali che provocano non solo un’infamante discriminazione per gli appartenenti alla religione ebraica, ma anche l’epurazione di migliaia di essi dalla vita civile e professionale. Rita deve abbandonare studi e ricerche e come lei tutti gli studenti e i docenti di origine israelita, compreso il professor Levi.

Con l’entrata in guerra a fianco della Germania nazista il 10 giugno 1940, per Rita, come per altri intellettuali e studiosi ebrei, la situazione si fa ancora più difficile e pericolosa, ma lei, che non demorde mai, non potendo frequentare università e istituti di ricerca, s’ingegna a ricreare un piccolo laboratorio nella sua camera da letto.

A guerra finita, nel 1947, l’eminente neuroembriologo professor Viktor Hamburger le manda una richiesta per recarsi a lavorare nel suo laboratorio all’Università di Saint Louis in Missouri, negli States, e il 19 settembre di quell’anno Rita salpa da Genova alla volta degli USA sul transatlantico Sobieski.

Le sue giornate si svolgono quasi tutte nel laboratorio: ore e ore china sul microscopio posto sul suo scrittoio sempre ingombro di libri, vetrini e provette, mentre i topolini che fanno da cavia corrono in tondo nelle gabbiette squittendo.

Rita conquista tutti con la sua forza gentile: colleghi, collaboratori, assistenti, studenti, erano incantati dalla genialità, dalla grazia, dalla perseveranza e determinazione che possedeva e riverberava e contagiati dall’abnegazione e dall’entusiasmo che profondeva sia nelle lunghe ore trascorse in laboratorio, sia nelle lezioni davanti ai suoi amati studenti.

È instancabile, infervorata e soprattutto esigente, garbata, ma inflessibile: pretende da tutti i collaboratori puntualità e abnegazione e tutti, galvanizzati dal suo carisma e dal suo genio, non fanno fatica ad adeguarsi ai suoi dettami.  Lavorava instancabilmente persino nei giorni di festa, e anche quando non era pressata dall’impellenza del lavoro, andava ugualmente di domenica in laboratorio per assolvere un compito non da poco, ovvero dare da mangiare agli animali presenti nell’Istituto e indispensabili alla ricerca: «una trentina di grosse tartarughe, otto enormi conigli bianchi, circa duecento topolini, cento ratti, sette gattoni e dieci gattini» (ma arriverà ad avere anche 1000 grilli ed un numero impressionante di blatte).

È dotata di ironia e di spirito caustico, e in una lettera ai suoi familiari racconta che ad un ricevimento, in cui tutti erano arrivati in coppia, lei era l’unica donna sola; la moglie di uno scienziato le si avvicina e le chiede con un sorriso chi fosse suo marito e lei, con lo stesso sorriso, risponde: I am my own husband, sono io mio marito, lasciando la poverina interdetta.

Rita Levi Montalcini. Fotografia via Wikipedia via Quirinale.it

Intanto alla Washington University di Saint Louis arriva colui che sarà il suo più importante collaboratore: Stanley Cohen, ricercatore associato, esperto di biochimica, mente eccelsa e ottimo flautista, per giunta. Nel 1953 i due scienziati, lavorando indefessamente, riuscirono ad isolare il fattore di crescita delle fibre nervose, il NGF (Nerve Growth Factor), essenziale per la crescita e il mantenimento dei neuroni, il quale, oltre ad avere un ruolo importante nel sistema immunitario, è oggi al centro di numerose ricerche per contrastare il cancro e malattie degenerative come l’Alzheimer e la SLA: sarà proprio questa la sensazionale scoperta che varrà ai due scienziati il Premio Nobel conferito loro trentatré anni dopo.

Rita nel 1961 torna in Italia e a Roma va a dirigere il Centro di di Ricerche di Neurobiologia, associato alla Washington University e, dal 1969 al 1979, riveste la carica di Direttrice del  Laboratorio di Biologia cellulare (Lbc) inserito nella rete del Cnr (consiglio nazionale delle ricerche).

Il 10 dicembre 1986 è una data miliare nella vita di Rita Levi Montalcini e per l’ambiente scientifico italiano: a Stoccolma le viene conferito il Premio Nobel per la Medicina (assieme al suo collaboratore Stanley Cohen). Ha settantacinque anni, Rita, e per l’occasione indossa un abito stupendo, strutturato e sontuoso, di Roberto Capucci: nero, con un leggero strascico e maniche a sbuffo, dallo stile austero e vagamente gotico.

Sotto un’intervista in cui si può osservare anche la consegna del Premio Nobel nel 1986:

Al banchetto che segue, gli illustri ospiti e i grandi accademici applaudono e omaggiano alzandosi in piedi quella minuta signora d’acciaio, quella piccola signora dal piglio principesco (come Primo Levi l’aveva acutamente definirla) che incede al braccio di re Carlo Gustavo, ai quali lei risponde con un sorriso soave e quel guizzo di inequivocabile sagacia  negli occhi.

Nel corso della sua lunghissima e straordinaria vita, Rita consegue altri incarichi prestigiosissimi: prima donna ad essere insignita del Premio Max Weinstein per la neurologia, prima donna ad essere ammessa alla Pontificia Accademia delle scienze, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei e poi presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani: un’attività intensa che lei alterna a quella di relatrice e conferenziera dall’eloquio affascinante, e di scrittrice dalla penna feconda e faconda. Oltre ad una mole di scritti di divulgazione scientifica, pubblica anche moltissimi libri interessanti e godibili tra i quali l’autobiografia Elogio dell’imperfezione,  l’epistolario Cantico di una vita, e poi La galassia mente, in cui ricostruisce l’affascinante e imperscrutabile evoluzione del sistema nervoso, Eva viene dall’Africa, in cui coniuga il suo essere scienziata e appassionata attivista per l’emancipazione femminile.

Nel frattempo è attiva e intraprendente anche in campo politico, umanitario e sociale: il primo gennaio 1987 si iscrive al Partito Radicale, nel 1992, insieme all’amata sorella Paola, fonda l’Associazione Levi Montalcini mirata alla implementazione della cultura scientifica nelle zone più povere del Sud Italia, e nel 2001 dà vita alla Fondazione Rita Levi Montalcini per promuovere la scolarizzazione, l’istruzione e la formazione professionale di bambine e ragazze africane, e, grazie a questa onlus, centinaia e centinaia di giovani diventeranno medici, ostetriche, infermiere, ginecologhe, e sempre in quell’anno crea a Roma un centro di ricerca dedicato agli studi neurologici, l’EBRI, l’European Brain Research Institute.

L’horrida senectus di oraziana memoria le aveva minato la vista e l’udito, ma non la mente, che rimane lucida e vivida, e men che meno la tempra, sempre indomita e inarrendevole: «il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente» disse, memorabile, in un’intervista.

E sempre in quell’anno l’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi la nomina senatrice a vita. Rita ha 92 anni, ma per ben undici anni, con orgoglio, senso del dovere e spirito civico sedette su quello scranno di Palazzo Madama, sempre elegante e con un che di regale (non a caso era soprannominata nell’ambiente universitario the Queen), conservando anche in tarda età il vezzo per gli abiti eleganti, le spille elaborate, i capelli acconciati con quell’onda laterale, composta e retrò che divenne iconica.

Alla veneranda età di 98 anni, Rita si concede uno sfizio: comporre il testo di una canzone, Linguaggio universale, che, musicata dal duo Jalisse, venne presentata alla commissione di selezione di Sanremo 2007 (dove però purtroppo venne scartata).

Il 22 aprile 2009, al compimento dei suoi cento anni, il Senato della repubblica italiana, alla presenza di tre presidenti della Repubblica (Scalfaro, Ciampi e Napolitano), la festeggia in modo ufficiale e con un applauso interminabile.

Il 30 dicembre 2012, a centotré anni, Rita Levi Montalcini lascia questo mondo che aveva contribuito a rendere migliore con la sua presenza, la sua genialità e le sue battaglie etiche e sociali.

«La vita non finisce con la morte. Quello che resta, è quello che trasmetti» aveva scritto un giorno.

Proprio per questo lei, la piccola signora dal piglio principesco, in fondo, non morirà mai.

Il racconto di Rita Levi Montalcini è tratto dal libro di Daniela Musini “Le Indomabili-33 donne che hanno stupito il mondo” (Piemme).


Pubblicato

in

da