Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda, Merlino e Morgana, tutti i personaggi del “Ciclo arturiano” sono inscindibili dall’inanimata protagonista della narrazione: Excalibur, la spada leggendaria alla quale erano attribuite proprietà magiche, era l’arma dell’altrettanto leggendario Re Artù. In alcune delle tante versioni, Excalibur viene identificata con la “spada nella roccia”, ma in altre, più numerose, si parla di due armi distinte.
Scultura in bronzo al Castello di Tintagel
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La storia di Excalibur venne narrata per la prima volta da Geoffrey di Monmouth, nella sua Historia Regum Britanniae, scritta intorno al 1136.
La spada viene chiamata con il suo nome latinizzato, Caliburn: “un’ottima spada forgiata nell’isola di Avallon”, senza nessun potere magico. L’autore invece calca la mano sulle doti di Artù come prode guerriero: “…estrasse il suo Caliburn e chiamando il nome della beata Vergine, si precipitò con grande furia nel cuore dei ranghi nemici; …né diminuì la furia del suo assalto fino a quando non ebbe, con solo il suo Caliburn, ucciso quattrocentosessanta uomini”.
Talvolta Excalibur viene considerata la stessa spada che Artù estrasse dalla roccia: secondo la leggenda, il Mago Merlino aveva predetto che solo l’uomo che fosse riuscito a tirar fuori la spada che lui aveva piantato in una roccia sarebbe divenuto re, impresa che riuscì ad Artù.
Tuttavia, la mitica “spada nella roccia” compare per la prima volta solo alla fine del 12° secolo, in un racconto del francese Robert de Boron, nel quale il futuro re estrae la leggendaria arma da un’incudine, che nelle versioni successive diviene un masso di pietra.
Sir Thomas Malory, uno strano personaggio della cui vita si sa poco, se non che fu spesso ospite delle prigioni inglesi, scrisse La morte di Artù, opera pubblicata postuma nel 1485, forse la fonte più utilizzata nelle successive rielaborazioni. In questa versione, Excalibur non è la spada estratta dalla roccia, perché Artù l’aveva rotta durante uno scontro con il re Pellinore. Poco dopo il re riceve una seconda spada, la vera Excalibur, dalla Dama del Lago.
Mentre nelle leggende raccontate da Monmouth, Excalibur non ha nessun potere magico, in quelle posteriori la spada ha delle proprietà straordinarie. La più nota è quella attribuita al suo fodero, capace di guarire le ferite: una garanzia di immortalità in battaglia, per il prode Artù. Poi, quando la “cattiva” sorellastra del re, Morgana la Fata, ruba il fodero, Artù perde la sua invulnerabilità, e viene ferito mortalmente da Mordred, nella battaglia di Camlann.
Prima di morire ed essere poi sepolto, il re ordina ad uno dei suoi cavalieri, Sir Bedivere, di gettare la spada nel lago. In una delle tante versioni, il cavaliere per due volte esita prima di lanciare l’arma in acqua, perché non disposto a buttare via un’arma così preziosa. Alla fine, quando si decide a gettare la spada, una mano esce dall’acqua per impugnarla, e portarla per sempre nelle profondità del lago.
Le storie su Excalibur sono quindi contrastanti, ovviamente, perché l’esistenza reale di Re Artù è storicamente dubbia e inverificabile, e quindi non esiste una verità accertabile. Tutti gli scrittori che narrarono le gesta di Artù, dal 1100 in avanti, si rifacevano ad avvenimenti risalenti al VI – VII secolo, basandosi su tradizioni orali. Anche se i racconti di Monmouth hanno trovato qualche riscontro storico, sono chiaramente una versione romanzata e abbellita della realtà.
Quante spade aveva allora Re Artù? Se la magica Excalibur fosse quella estratta dalla roccia, il racconto della sua rottura non avrebbe senso. Se si accettano per buone le versioni nelle quali la prima spada di Artù si spezza, allora occorre credere alla presenza di una seconda spada, quella donata dalla Dama del Lago: solo due spade possono mettere d’accordo tutte le leggende su Re Artù, i suoi cavalieri, Merlino e Morgana, e l’infinità di personaggi usciti dalla fantasia di molti narratori.
Comunque sia, la spada magica di re Artù non ha perso il suo potere di affascinare chiunque ascolti la sua storia, e probabilmente sarà ancora così per molto tempo a venire.