Raffaello Matarazzo: il regista che rese centrale il ruolo della Donna nel Cinema Italiano

Il rapporto tra gli artisti e il successo è sempre stato problematico. Spesso gli artisti sono persone che non dispongono di grandi risorse economiche e possono contare solo sul loro talento. In questa situazione, avere successo significa emanciparsi dal bisogno e diventare finalmente liberi di esprimere la propria creatività senza doversi preoccupare del giudizio di qualche committente.

Al tempo stesso, però, il successo può diventare una gabbia capace di stritolare la creatività anziché liberarla: se un artista lo ha raggiunto proponendo un determinato modello della sua arte, spesso si trova costretto a ripetere quel modello all’infinito, perché il pubblico apprezza il modello più dell’artista stesso.

Alcuni casi esemplari di questa “gabbia” li ritroviamo nelle vicissitudini affrontate da alcuni scrittori famosissimi: ad esempio, nel 1893 Arthur Conan Doyle si stufò del suo personaggio Sherlock Holmes e lo fece morire in un racconto intitolato “L’ultima avventura”. Bombardato da lettere dei lettori delusi, lo resuscitò per il romanzo “Il mastino dei Baskerville”, scritto dopo il racconto ma ambientato in un periodo precedente. Il successo di questo romanzo e le ulteriori insistenze dei lettori, lo indussero poi a “resuscitare” Holmes in un altro racconto (“L’avventura della casa vuota”), nel quale Holmes stesso spiegò di aver finto la propria morte per poter lavorare sotto copertura nei servizi segreti britannici.

In una diversa misura, questo condizionamento ha colpito anche gli autori di cinema. Quando Charlie Chaplin, ormai troppo anziano per riportare in scena l’omino con la bombetta, abbandonò Charlot per mettersi a girare film di grande qualità, come “Monsieur Verdoux” e “Un re a New York”, il pubblico gli voltò le spalle nonostante gli elogi della critica. Un altro esempio può riguardare un famoso attore, Sean Connery, che tra gli anni ’60 e gli anni ’70 faticò moltissimo a scrollarsi di dosso il personaggio di James Bond che lo aveva portato alla fama, anche se fu abbastanza oculato da sfruttare questa fama per finanziare i film migliori della sua splendida carriera (opere straordinarie e coraggiose come “I cospiratori” di Martin Ritt o “Riflessi in uno specchio scuro” di Sidney Lumet sono state girate solo perché Connery accettò di fare dei nuovi 007 solo a patto che i produttori, dopo, le finanziassero).

In questo articolo parleremo di un autore italiano che oggi è noto, probabilmente, solo alle persone anziane che seguono le rassegne pomeridiane di vecchi film su qualche canale privato. Un autore che nella prima parte della sua carriera inseguì inutilmente il successo di pubblico con delle opere originali e brillanti, troppo in anticipo sui tempi, e successivamente, ne raggiunse uno enorme traducendo in film lo schema classico della sceneggiata napoletana. In ambo i casi, però, finì maltrattato dalla critica, che lo ha riscoperto solo ad alcuni decenni dalla sua scomparsa. Si tratta di Raffaello Matarazzo.

Sotto, Matarazzo negli anni ’30:

Matarazzo, nato nel 1908 a Roma da una famiglia napoletana, perse il padre nella Grande Guerra e dovette lavorare sin da adolescente, ma questo non gli impedì di terminare il liceo. In seguito, tentò l’avventura del giornalismo, su un quotidiano dove scrisse anche recensioni cinematografiche. Il cinema era il suo maggiore interesse e fu il primo a proporre l’istituzione di una scuola di cinema a Roma, finanziata dallo Stato, scuola che fu aperta nel 1930 e che nel 1935 divenne l’attuale C.S.C. (Centro Sperimentale di Cinematografia). In questo periodo, si avvicinò al mondo delle produzioni cinematografiche svolgendo diversi lavori (soggettista, aiuto regista, perfino autore di canzoni) per alcuni celebri registi del periodo, come Mario Camerini, Alessandro Blasetti e Nunzio Malasomma. Passò finalmente dietro la macchina da presa per dirigere due documentari propagandistici dell’Istituto Luce e il buon successo di questi gli aprì la strada per dirigere un vero film.

Nel 1933 uscì infatti “Treno popolare”, una commedia che prendeva spunto dalla recente iniziativa delle Ferrovie dello Stato di offrire biglietti scontati per gite fuori porta nei giorni festivi. La trama era esile ma gradevole, piena di simpatici malintesi e di caricature, sicuramente ispirata alle commedie francesi di René Clair ma con in più un realismo descrittivo che anticipava quello successivo di Visconti, Rossellini e De Sica, favorito dal fatto che gli attori erano perlopiù sconosciuti, e una bella colonna sonora scritta da un giovane compositore esordiente, Nino Rota.

Sotto, la musica di Nino Rota per Treno Popolare:

Ci si sarebbe aspettato che un film così piacevolmente leggero incontrasse il favore del pubblico, che in altre occasioni aveva dato prova di preferire le cose non molto impegnative, purché intelligenti: nel 1930, la canzone “Lodovico” (“sei dolce come un fico…”), cantata da Vittorio De Sica, aveva avuto un successo enorme, tale da oscurare tutti i pezzi patriottici o strappalacrime che andavano di moda a quel tempo. Invece, fin dalle prime proiezioni, “Treno popolare” fu fischiato dal pubblico e stroncato dalla critica. Solo negli anni ’80 è stato finalmente riscoperto come precursore del Neorealismo.

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Durante gli anni ’30, Matarazzo ebbe comunque la possibilità di dirigere altri film, ma la sua attività in quel periodo non è facilmente valutabile, perché gran parte delle pellicole, che non ebbero grande successo, finirono distrutte durante la guerra, e solo dopo ricerche approfondite è stato possibile reperire una copia di alcune di esse. Nel periodo della guerra, Matarazzo (che era segretamente antifascista e non aveva nessuna intenzione di farsi ammazzare per i deliranti sogni di gloria di Mussolini) se ne andò in Spagna, dove aveva ottenuto un ingaggio, e lì ottenne qualche piccolo successo come autore teatrale e cinematografico, ma anche dei suoi film spagnoli non sono rimaste molte tracce.

Rientrato in Italia, poiché aveva la fama di essere un buon artigiano, venne scelto dal produttore Gustavo Lombardo, proprietario della “Titanus”, per dirigere un film che già nelle intenzioni nasceva come “minore”, destinato alle piccole sale e realizzato molto in economia. Matarazzo ne fu entusiasta, perché il soggetto gli ricordava la trama dei romanzi d’appendice di cui era sempre stato accanito lettore. Il titolo era “Catene” e i personaggi principali erano interpretati da un ex divo la cui carriera sembrava in crisi, Amedeo Nazzari, e da una ragazza greca, tanto avvenente quanto poco conosciuta, Yvonne Sanson. La storia è ambientata a Napoli, città in cui furono girati gli esterni, ed è incentrata sul tipico triangolo della sceneggiata napoletana: Isso, Essa e ‘O Malamente, dove Isso è un uomo buono ma non troppo sveglio, Essa è sua moglie, donna bella e un tantino spregiudicata, e ‘O Malamente è un individuo senza scrupoli che riemerge dal passato di lei per minare la loro unione.

In “Catene”, Isso (il personaggio nel film si chiama Guglielmo) uccide ‘O Malamente (che nel film si chiama Emilio) ed è costretto a fuggire in America, dove dividerà la dura vita degli emigranti (famosa la sequenza in cui il cantante Roberto Murolo, che ne interpreta uno, canta “Lacreme napulitane”) finché sarà arrestato ed estradato. Ma, al processo, Essa (che nel film si chiama Rosa) si assumerà la responsabilità morale del delitto, dichiarando il falso, ossia di essere stata davvero l’amante di ‘O Malamente, in modo che il marito sia assolto grazie alla legge sul delitto d’onore. Ci vorrà tutto l’impegno dell’avvocato e dei figli per convincere Isso a tornare con Essa, ma alla fine la famiglia si ricongiungerà.

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Un fotogramma da “Catene”:

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Nonostante gli strali della critica cattolica (e il conseguente divieto nelle sale parrocchiali), il film fece il pieno in tutti i cinema e incassò 735 milioni, un’enormità per quel tempo. Anche i critici non cattolici lo massacrarono, ma il pubblico lo gradì moltissimo, specie quello femminile. In particolare, le donne di bassa estrazione sociale, ormai stufe di essere rappresentate solo come vittime capaci solo di piagnucolare, implorare pietà e recitare preghiere, si immedesimarono tutte nella spregiudicata (ma non immorale) Rosa; ma forse apprezzarono anche di più la figura di Guglielmo, che davanti al sospetto del tradimento sfoga il suo raptus di violenza sul rivale, senza torcere un capello alla moglie. La carriera di Nazzari, un attore ancora giovane, altissimo e imponente, bello come un divo di Hollywood, fu istantaneamente rilanciata.

Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari:

Il produttore Lombardo era morto durante il lancio del film. Il suo posto fu preso dal figlio Goffredo, un giovane intraprendente che in seguito avrebbe prodotto capolavori come “Rocco e i suoi fratelli” e “Il gattopardo”. Per ora, tuttavia, Goffredo Lombardo capì che il filone film-sceneggiata poteva essere un grande affare e, quasi subito, produsse altri due film di Matarazzo, che riprendevano i temi di “Catene”, “Tormento” e “I figli di nessuno”, sempre interpretati dalla collaudata coppia Nazzari- Sanson.

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I primi minuti di “Tormento”:

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Il soggetto del primo è tratto da un’opera del poeta napoletano Libero Bovio (lo stesso di “Zappatore”) ed è parecchio spregiudicato per quei tempi, dato che i due personaggi principali hanno addirittura dei rapporti prematrimoniali (infatti si sposano in carcere, dove lui è detenuto dopo essere stato condannato per un delitto mai commesso, mentre lei è già incinta). Il ruolo di Nazzari (Carlo) è piuttosto ridimensionato rispetto a quello della Sanson, Anna, che è la vera protagonista e passa per ogni umiliazione e rischio per mantenere la figlia, fino ad ammalarsi gravemente, salvo poi guarire più o meno miracolosamente quando il marito viene finalmente riconosciuto innocente, recupera la bambina nell’orfanotrofio dove è stata chiusa e si ricongiunge a lei. Inutile dire che anche in questo caso la critica sparò ad alzo zero e le sale parrocchiali restarono chiuse: ma il film incassò lo stesso 725 milioni di lire.

“I figli di nessuno” è invece il remake di un film del 1921 ed è molto drammatico, senza neppure il conforto di un happy end. Al centro c’è la tormentata relazione tra un aristocratico, Guido, proprietario di una cava di marmo a Carrara, e una ragazza di umili origini, Luisa, figlia di un dipendente. Luisa, già incinta di Guido, mentre questo è assente, viene convinta con il ricatto e la violenza della madre di lui a fingersi morta e a farsi suora, mentre il figlio che nasce, Bruno, finisce in orfanotrofio e poi in collegio, dopo aver fatto credere a Luisa che è morto pure lui. Intanto Guido sposa un’altra donna, Elena, e ha una figlia, Anna.

Ma la madre di Guido è tormentata dai sensi di colpa e, oltre a pagare di nascosto la retta del collegio di Bruno, ne fa il proprio erede, scatenando la gelosia di Elena che distrugge il testamento. Bruno, finito il collegio, va a lavorare nella cava di proprietà di Guido e sventa il tentativo di distruggerla da parte di un amministratore infedele, che è stato appena licenziato. Ma nel farlo resta gravemente ferito. Salta fuori la verità sulla sua identità e sul destino di Luisa, che viene mandata a chiamare per assisterlo. Il ragazzo muore lo stesso, davanti ai genitori che si sono brevemente ritrovati, poi Luisa torna mestamente in convento.

Di nuovo la critica tuonò (forse anche a ragione, visto che Matarazzo non rinunciò a nulla, pur di commuovere gli spettatori, nemmeno a una estemporanea esibizione del tenore Giorgio Consolini che, in un cameo, canta “Mamma” proprio davanti agli orfani) ma stavolta gli incassi disintegrarono ogni precedente record, toccando i 960 milioni.

Appare evidente come al successo di Matarazzo contribuissero soprattutto due elementi. Il primo è il ruolo fondamentale delle donne nelle storie che trattano di vicende familiari. Il secondo è il coraggio di affrontare apertamente delle questioni su cui i benpensanti erano abituati a stendere ipocriti veli di silenzio, quale appunto quella ricorrente dei figli illegittimi.

Nel 1952 uscì (sempre con Nazzari-Sanson protagonisti) “Chi è senza peccato”, tratto da un romanzo minore di Alphonse de Lamartine, ambientato tra emigranti italiani (più precisamente valdostani) in Canada, che ripropone la stessa vicenda di “I figli di nessuno” (una coppia di amanti separata dalla malvagità di una donna vecchia e ricca) ma, stavolta, c’è il lieto fine. Gli incassi furono minori degli altri successi, ma sempre ragguardevoli (505 milioni).

Per il film successivo, si dovette aspettare il 1955, con “L’angelo bianco”, che presenta due novità. La prima è che si tratta del sequel di “I figli di nessuno”, la seconda è che Yvonne Sanson interpreta due ruoli. La storia riprende esattamente dove era finito l’altro film. Guido vuole lasciare la moglie Elena e farsi affidare la figlia Anna, ma la donna cerca di scappare con la bambina, provocando un incidente in cui muoiono entrambe. Più tardi Guido conosce Lina, una ballerina dal passato dubbio, molto somigliante alla sua ex amata Luisa, e la mette inevitabilmente incinta (i personaggi di Matarazzo non hanno mai il minimo problema di sterilità) ma la donna finisce in un brutto giro e da qui in galera, dove viene presa per delatrice dalle altre detenute e sottoposta ad un pestaggio che la lascia moribonda. Ma la suora che la assiste, che non è altri che Luisa, riesce a salvare il bambino e a farlo affidare a Guido, chiedendogli di chiamarlo Bruno come il figlio morto nel film precedente.

Giuseppe Marotta, scrittore e critico cinematografico (da alcuni suoi racconti è tratto “L’oro di Napoli” di De Sica) paragonò questo film a una tortura e si sorprese a incontrare, durante una visita in carcere per un servizio giornalistico, delle detenute che versavano fiumi di lacrime mentre leggevano il fotoromanzo che ne era stato ricavato (questa è anche l’epoca in cui furono lanciati i primi fotoromanzi, con un successo enorme).

Gli incassi però erano in flessione e, con il film successivo, “Malinconico autunno”, del 1958, scesero sotto i 200 milioni, inducendo il produttore Lombardo a sciogliere il sodalizio Matarazzo- Nazzari-Sanson, che non si sarebbe più ricomposto.

Negli anni ’50, Matarazzo non diresse solo questi film, ma anche altri che la critica continuò imperterrita a stroncare anche se il loro valore appare più che evidente. Un esempio è “La risaia” del 1955, in cui lanciò una bellissima ragazza destinata a diventare una grande attrice, Elsa Martinelli, per il quale si parlò di una scopiazzatura dal capolavoro neorealista “Riso amaro”. Un altro ottimo titolo è “Guai ai vinti” del 1952, tratto da un romanzo della scrittrice Annie Vivanti (oggi conosciuta soprattutto per essere stata l’amante di Giosuè Carducci) e incentrato sulle conseguenze di uno stupro subito da due donne da parte di un esercito occupante. La vicenda originale si svolge in Belgio nel 1914 ma Matarazzo la traslò in Veneto nel 1917, dopo Caporetto.

Delle due donne, che restano entrambe incinte, una (interpretata da Lea Padovani) è già sposata e sceglie di abortire, esponendosi alla disapprovazione della famiglia, della Chiesa e di tutto il paese; l’altra (interpretata da Anna Maria Ferrero) è un’adolescente così ingenua che, essendo svenuta durante la violenza, non ricorda nulla e crede di essere rimasta incinta per opera dello Spirito Santo. Decide quindi di tenere il bambino a tutti i costi, ma questo la espone all’odio di tutto il paese (compresi quelli che hanno disapprovato la scelta dell’altra di abortire, i soli a sostenerla sono il parroco e l’altra donna stuprata) che la accusa di collaborazionismo con gli invasori. Nel tentativo di difendere il bambino appena nato da un gruppo di facinorosi, la ragazza resta gravemente ferita e muore il giorno dopo tra le braccia dell’ex fidanzato straziato dal rimorso dopo aver assistito impotente alla sua aggressione.

Occorreva una buona dose di coraggio per affrontare un tema come questo in quel periodo (non sarebbe facile neppure oggi) e soprattutto di farlo dalla parte delle donne. Eppure Matarazzo ci riuscì e, nonostante il suo stile appaia molto datato, oggi questo film è più attuale che mai. I film di Matarazzo dopo il 1958 non si avvicinarono nemmeno da lontano ai livelli di successo precedenti. Ne diresse, peraltro, pochissimi, solo 4.

Il 17 maggio 1966, non ancora 57enne, Matarazzo muore in seguito a un improvviso infarto mentre si trova al Policlinico di Roma per degli accertamenti. Negli ultimi tempi era diventato molto ansioso e ipocondriaco ed è possibile che questo abbia affrettato la sua fine. Dieci anni dopo, prima a un festival internazionale e poi finalmente in Italia, i suoi film vengono riproposti e apprezzati: i tempi sono finalmente maturi perché la critica si decida a riscoprirlo e a rivalutarlo.


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