Benché i principi espressi nella nostra Costituzione dichiarino apertamente il contrario, l’Italia è ancor oggi un Paese piuttosto classista, soprattutto nell’amministrazione della Giustizia. In moltissime occasioni, seguendo i processi per delitti così efferati da colpire pesantemente l’immaginazione dell’opinione pubblica, capita di provare la sensazione che l’esito del processo si debba non tanto alle risultanze del dibattimento quanto alla capacità della difesa di insinuare nel collegio giudicante un minimo di dubbio sulla effettiva colpevolezza: che, come recita un principio giuridico valido più o meno in ogni Paese civile, “va provata al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Nemmeno sembra casuale la circostanza per cui le nostre carceri risultino affollate soprattutto da stranieri, per lo più privi di mezzi propri e con una incerta conoscenza della lingua, la cui difesa legale è puntualmente affidata a volonterosi “difensori d’ufficio” o ad avvocati completamente inesperti, alle primissime armi.
Questo avviene oggi, in pieno XXI secolo
E in passato? Quando non c’erano nemmeno i principi costituzionali a rappresentare almeno un riferimento generale? Ovviamente, era molto peggio. La Giustizia era, non solo in Italia, letteralmente una chimera, e viaggiava apertamente su un doppio binario: spietata (e spesso talmente frettolosa da risultare spesso ingiusta) con i poveri, sempre piuttosto delicata con i ricchi, anche se poteva diventare ugualmente feroce quando un ricco commetteva un crimine ai danni di un altro ricco più importante di lui.
I casi documentati sono moltissimi, ma alcuni appaiono particolarmente significativi perché, dal loro esame, si giunge facilmente alla conclusione che le autorità preposte alle indagini e ai processi insabbiarono deliberatamente le inchieste che avrebbero potuto nuocere a qualche personaggio importante.
C’è un esempio importante, che è noto a pochissimi dato che sono passati oltre 30 anni, ma vale sempre la pena di citarlo.
Nel 1981, l’Italia intera fu attraversata da un moto di giustizialismo sommario, che partì dalle autorità locali della provincia di Parma e arrivò a coinvolgere diversi intellettuali di fama internazionale (come il musicologo Massimo Mila), allo scopo di tacitare un pericoloso personaggio che diffondeva calunniose dicerie su una gloria nazionale. Il sindaco di Busseto si rivolse addirittura al presidente Pertini chiedendo (non si sa bene in base a quale legge) di revocare la cittadinanza italiana al giornalista del “Corriere della Sera” Maurizio Chierici, già autore di importanti inchieste, di cui una ancora molto attuale sulla corruzione nel mondo della sanità pubblica (dalla quale ricavò il libro “Malgrado le amorevoli cure”).
Ma di quale atrocità si era reso responsabile Chierici?
Chierici, parmense molto legato alla sua città, si era semplicemente imbattuto, per caso, nella storia di una strana morte, avvenuta nella villa di Giuseppe Verdi a Busseto nel 1898. La curiosità e l’istinto del cronista lo avevano portato a cercare notizie al riguardo nelle emeroteche. A trattare del caso, al tempo, era stata solo la “Gazzetta di Parma” e le notizie in essa riportate suonavano piuttosto incongrue tra loro. Del resto, la “Gazzetta di Parma” apparteneva proprio a Giuseppe Verdi, che anni prima l’aveva comprata perché sostenesse la candidatura al Senato del proprio avvocato, puntualmente eletto. Non era esattamente una fonte attendibile.
Sotto, Villa Verdi a Busseto:
Immagine di pubblico dominio
Allora Chierici si era messo a cercare se ci fosse qualcosa negli archivi della polizia. La ricerca lo aveva portato da Parma a Milano, al seguito della figura di un poliziotto, il delegato Gaetano Franzoni. Questo, un uomo piuttosto anziano originario proprio del parmense, in quel periodo era a Busseto, nascosto sotto copertura (si spacciava per un agronomo) con l’incarico di tenere sotto controllo Verdi e verificare se la sua residenza fosse frequentata da anarchici e socialisti. Sì, perché l’Italia umbertina era tutta un fiorire di paranoie poliziesche e controrivoluzionarie. Le insulse politiche coloniali dei governi di Crispi, culminate nell’atroce sconfitta di Adua in Etiopia nel 1896, avevano prosciugato le casse statali e indotto il governo ad aumentare a dismisura le imposte, che all’epoca erano quasi esclusivamente dirette e, colpendo i consumi, gravavano quasi interamente sui lavoratori.
Il conseguente aumento di prezzi dei generi di prima necessità, accompagnato da un livello generalmente basso dei salari e da un alto tasso di disoccupazione, avevano indotto la popolazione di Milano a ribellarsi, manifestando ripetutamente in piazza. Il re Umberto, poco intelligente e sicuramente mal consigliato, soprattutto dalla moglie, aveva dato carta bianca ai militari affinché riportassero l’ordine. I reparti comandati dal generale Bava Beccaris avevano schierato i cannoni e i fucili e aperto il fuoco su una folla disarmata piena di donne e bambini, lasciando sul campo parecchi morti. Da quel momento in poi, era scoppiata a Corte la paranoia della possibile rivoluzione guidata dagli anarchici e dai socialisti e lo Stato, già molto autoritario, aveva stretto ancora di più i freni sulle libertà dei cittadini. La rivoluzione, poi, non ci sarebbe stata: ma un anarchico toscano emigrato negli Usa, Gaetano Bresci, avrebbe poi vendicato i morti innocenti di Milano uccidendo il Re, a Monza, il 29 luglio 1900.
In quel periodo, praticamente chiunque avesse mai avuto un lontano contatto non solo con socialisti e anarchici ma anche con repubblicani tipo garibaldini o mazziniani, era stato tenuto sotto stretto controllo dalla polizia. Compreso Verdi, che in realtà si interessava pochissimo di politica.
Sotto, Giuseppe Verdi ritratto da Giovanni Boldini:
Ma torniamo a Chierici. La sua ricerca era stata fruttuosa. Dagli archivi della questura di Milano era saltato fuori addirittura un diario segreto tenuto da Franzoni durante la sua attività e consegnato alle autorità al termine del servizio. Nessuno lo aveva mai aperto: Chierici sarebbe stato il primo.
Ecco la storia raccontata in quel diario segreto
Il Delitto in Casa Verdi:
Il 26 settembre 1898 è un piovoso lunedì di inizio autunno. Nella villa di Verdi a Busseto, alle 14.15, poco dopo pranzo, nel salone più vicino all’ingresso, una domestica sta lavando il pavimento. Ha 23 anni, si chiama Giuseppa Belli (in alcuni documenti il nome sarà sbagliato in Peppina Bindi) ed è una ragazza molto attraente. Troppo per passare inosservata. In una stanza vicina, suo fratello Alfonso Belli, pure domestico in casa Verdi, sta mettendo in ordine. Il silenzio del primo pomeriggio viene improvvisamente rotto da un’esplosione: qualcuno ha sparato un colpo d’arma da fuoco. Alfonso corre dalla sorella e la trova distesa supina sul pavimento, con una macchia di sangue che le si allarga sotto il colletto dell’abito, prima che cominci il grembiule. Chino su di lei c’è Angiolo Carrara, il nipote diciottenne di Verdi. Vedendo arrivare Alfonso, Angiolo scappa via, fuori della villa.
Giuseppa è morta sul colpo
Qualcuno chiama i carabinieri. Questi si mettono alla ricerca di Angiolo, ma nessuno sa dove possa essere andato. Ma poi si mette di mezzo la sorte e, in serata, una pattuglia di carabinieri che va in cerca di anarchici e socialisti, entrando a perquisire una casa senza preavviso, lo trova lì. Si è semplicemente nascosto presso degli amici.
Il rapporto tra Verdi e il nipote è molto particolare. Verdi ha avuto due figli dal primo matrimonio, ma sono morti entrambi nell’infanzia, lasciandolo affranto. Poi è morta anche la prima moglie. Dal secondo matrimonio, non ha avuto figli. Dei suoi parenti, solo la nipote Maria Filomena Verdi, figlia di un fratello, è sopravvissuta, e Verdi l’ha adottata legalmente. Angiolo è l’unico figlio di Maria Filomena, nato dall’ottimo matrimonio contratto con il facoltoso dottor Alberto Carrara, e Verdi stravede per lui, ne ha fatto il proprio principale erede, sarebbe disposto a tutto pur di proteggerlo.
Sotto, Margherita Barezzi, prima moglie di Verdi:
I carabinieri non fanno in tempo a riportare Angiolo a casa che già i Verdi hanno fatto venire un avvocato, il celebre Sanguinetti già eletto al Senato. Sanguinetti pretende e ottiene di sentire il ragazzo prima dell’interrogatorio dei carabinieri e lo assiste durante questo.
Questo è il momento in cui entra in scena Franzoni, che appena ha sentito del fatto ha preferito far saltare la sua copertura e qualificarsi come delegato di polizia, perché la stazione dei carabinieri di Busseto è piccola e il vicebrigadiere Angelo Gaiba, che la comanda, non sembra un uomo molto capace, anzi si direbbe completamente asservito ai Verdi. Franzoni si reca quindi alla villa, accompagnato da un avvocato di Busseto con cui ha fatto amicizia, Francesco Barbuti, un uomo abbastanza fidato da rivelargli la propria effettiva identità già prima del fatto.
Sotto, Giuseppe Verdi al centro e la figlia adottiva Filomena Verdi (la prima a sinistra):
Proprio Franzoni conduce l’interrogatorio di Angiolo, mentre Gaiba si limita a trascrivere domande e risposte. Sono presenti sia Sanguinetti sia Barbuti. La strategia difensiva è subito chiara: il colpo è partito accidentalmente, perché Angiolo, di ritorno dalla caccia, aveva dimenticato di scaricare il fucile. Il ragazzo, entrando in casa, avrebbe chiesto alla Belli di pulire l’arma e questa avrebbe risposto che doveva prima finire di lavare il pavimento. A questo punto, Angiolo avrebbe deciso di pulire il fucile da solo ma, mentre tentava di aprirlo, il colpo sarebbe esploso in modo del tutto fortuito, colpendo la Belli, che si trovava nella stanza accanto, attraverso la porta aperta.
Franzoni ci crede poco e, ignorando le veementi proteste di Sanguinetti e di tutta la famiglia Verdi in generale, dispone che Angiolo sia custodito in una cella della stazione dei carabinieri. Il ragazzo vi trascorrerà una sola notte. La mattina dopo, prestissimo, l’avvocato Sanguinetti va a buttare giù dal letto il procuratore Pessina, ossia il magistrato che dovrebbe sovrintendere all’inchiesta, e questo firma prontamente l’ordine di scarcerazione.
Portato via Angiolo, Franzoni interroga il dottor Alberto Manzi, medico di famiglia dei Verdi, che ha esaminato il cadavere. Manzi è un po’ in imbarazzo ma finisce per fornire un dettaglio sconvolgente: la ferita mortale, alla base della gola, ha tutta l’aria di essere stata provocata da un colpo esploso a bruciapelo, non certo da un’altra stanza. Turbato, Franzoni sente uno dietro l’altro i parenti della Belli, che appaiono sotto choc ma non dicono nulla. Poi passa agli altri domestici, con i quali pure non cava un ragno dal buco. Però uno di questi domestici, dopo, lo aspetta fuori casa e, lontano da occhi indiscreti, gli racconta che la Belli era incinta e che in casa lo sapevano tutti.
Giuseppe Verdi suona il pianoforte a Villa Sant’Agata in occasione del suo ottantaseiesimo compleanno, illustrazione tratta da «La Domenica del Corriere» di Achille Beltrame, 1899:
Franzoni, allora, va a casa del dottor Manzi, che nel frattempo se n’è andato, e gli chiede perché non ha effettuato l’autopsia del cadavere. Manzi gli risponde che non può farla di propria iniziativa, deve essergli ordinato dall’autorità giudiziaria. E, aggiunge, dubita che questo ordine gli arriverà mai.
Infatti Pessina non ordinerà mai di compiere l’autopsia
Pochi giorni dopo, Franzoni viene richiamato a Milano. Non si sa cosa si dicano lui e l’amico Barbuti che lo accompagna a prendere il treno. Non si sa se i due si siano tenuti in contatto dopo, non è stata ritrovata alcuna traccia di corrispondenza tra loro. Franzoni, poco dopo i fatti, viene messo in pensione e muore nel 1904. Barbuti conduce una vita piuttosto appartata e muore nel 1909.
Intanto, si svolge anche un processo
Angiolo Carrara, che diventerà un notaio e un importante politico locale al tempo del fascismo, viene condannato in primo e secondo grado per omicidio colposo. La pena è ridicola: 38 giorni di reclusione, 31 lire di multa e il ritiro del porto d’armi. Ma nemmeno la sconta, perché interviene personalmente il Re Umberto a condonarla con un apposito decreto.
Tutte le pagine web che lo riguardano omettono completamente qualsiasi riferimento al delitto del 1898
Con il materiale raccolto, Chierici si presentò dall’editore Giulio Einaudi, con il quale aveva già pubblicato altri libri, e gli chiese cosa pensava della possibilità di ricavarne un breve saggio. Einaudi era un uomo di una certa esperienza e sapeva come andavano le cose in Italia. Rispose che il libro lo avrebbe pubblicato volentieri, ma sarebbe stato meglio che Chierici gli avesse dato la forma di un romanzo storico, con quel che di fantasioso e ipotetico che sarebbe sicuramente servito a mantenere ogni eventuale reazione nei limiti della compostezza. Nasce così “Quel delitto in casa Verdi”, che esce appunto nel 1981.
Ma la reazione sarà di gran lunga peggiore di quanto Einaudi e Chierici avessero potuto mai immaginare. E, ancora oggi, a conoscere questo libro e i fatti che narra, in Italia, sono pochissimi. Per chi fosse interessato, è stato recentemente ristampato ed è disponibile su Amazon: