Se qualcuno pensa che le pagine divulgative di cultura generalista come “Vanilla Magazine” siano nate con il web, è completamente fuori strada. Vanilla, in effetti, ha avuto illustrissimi predecessori già dal tempo in cui esisteva solo la stampa su carta. E la storia di questi predecessori, che è molto variegata e affascinante, è quanto racconteremo oggi, in riferimento alla pubblicazione che ne rappresenta in qualche modo l’esempio più riconoscibile per noi che abbiamo conosciuto bene il XX secolo: “Selezione dal Reader’s Digest”.
“Selezione”, come è stato sempre familiarmente chiamato in Italia, ha cessato le sue pubblicazioni nel nostro Paese già dal 2007 e non se la passa molto bene neanche negli Usa, dove è nato e ha ancora molti lettori, ma spese ancora superiori che ne mantengono sempre in bilico la sopravvivenza. Si tratta sicuramente di un segno dei tempi: nulla è eterno su questa Terra. Ma la sua eredità culturale è molto superiore a quanto si potrebbe comunemente credere.
Il “Reader’s Digest” nasce nel 1922 a New York, ad opera di una coppia di giornalisti, compagni nella professione e nella vita, William Roy DeWitt Wallace (1889-1981) e Lila Bell Acheson (1889-1984). Lui, originario del Minnesota, era un reduce della Grande Guerra. Lei era canadese e aveva lavorato per associazioni religiose. Entrambi venivano da buoni studi universitari e si erano sposati nel 1921.
Fu lui ad avere l’idea: tornato dalla guerra, mentre si riprendeva da una serie di ferite subite al fronte, senza problemi economici grazie al sussidio che riceveva per la convalescenza dal governo passò moltissimo tempo a leggere riviste nella biblioteca pubblica di Minneapolis, finché pensò che avrebbe potuto condensare (riscrivere in forma più essenziale) e raccogliere insieme gli articoli più interessanti in una sola pubblicazione. Ne parlò a lei che ne fu entusiasta e lo assistette fattivamente nel lavoro di redazione dei numeri di prova della nuova rivista.
C’è da dire che pubblicazioni di un tipo simile, negli States, esistevano da molto tempo. La prima era stata “L’almanacco del povero Richard”, pubblicato dal 1732 al 1757 e redatto quasi interamente dal grande Benjamin Franklin, che proprio grazie a questo successo editoriale era diventato ricco e famoso. Franklin aveva apportato delle importanti innovazioni alla struttura dell’almanacco, un tipo di pubblicazione nata nell’Europa tardomedievale, prima contenente solo tavole astronomiche e altri dati utili al calcolo dei giorni e delle stagioni, necessario per pianificare le attività agricole, e poi sempre più ricca di notizie di ogni genere. I più antichi tra quelli conosciuti risalgono al 1088 ma ce ne sono stati sicuramente di precedenti, pur concependolo sempre per la lettura di un pubblico di agricoltori alfabetizzati.
“L’almanacco del povero Richard” conteneva ogni sorta di dati e consigli utili per ottenere i migliori raccolti ma anche moltissime curiosità enciclopediche (Franklin, che aveva iniziato come tipografo e libraio, era un lettore onnivoro di tutto ciò che veniva pubblicato al mondo) e perfino storielle umoristiche, racconti edificanti e filastrocche, tutto sempre inventato via via dalla fervidissima fantasia e dall’immenso talento di Franklin (che redigeva l’almanacco per hobby intanto che si occupava di esperimenti scientifici, di politica attiva e ovviamente di affari). I Wallace decisero di dare alla loro rivista una impostazione che si ispirasse a quella di Franklin, ma modernizzandola in modo da renderla appetibile anche per il lettore di città.
Poiché i costi di realizzazione erano piuttosto elevati in rapporto ai capitali di cui la coppia disponeva, i Wallace decisero di farne una pubblicazione destinata a un pubblico di soli abbonati, in modo da evitare lo spreco dei resi. Una paziente campagna di proselitismo portò al raggiungimento della cifra di circa 1500 abbonati per i primi numeri, la cui vendita portò alla coppia il rispettabile reddito di circa 5000 dollari annui. Il passaparola dei lettori fece il resto e nel 1929 gli abbonati erano già 290.000, per un reddito annuo di 900.000 dollari.
Il mensile fu chiamato “Reader’s Digest” in riferimento al fatto che gli articoli proposti erano in una forma decisamente più “digeribile” rispetto a quella originaria. Aveva un formato particolare, che fu chiamato proprio “formato digest”, più piccolo delle normali riviste ma più grande dei libri tascabili, praticamente corrispondente a un A5 di oggi (successivamente imitato da molte pubblicazioni periodiche di racconti e di fumetti). Era composta inizialmente di 30 articoli, ossia uno per giorno, insieme a quattro rubriche fisse di aneddoti e barzellette. Tutti i titoli dei pezzi erano elencati in copertina e l’ultimo, di solito ricavato dalla “condensazione” di un libro intero, era molto più lungo degli altri.
Era prevedibile che una pubblicazione come il “Reader’s Digest” avesse successo. Facile da leggere ma non vuota di contenuti, facile da reperire (o in abbonamento, che ha sempre avuto un costo abbordabile, o usata in bancarelle o mercatini delle pulci), sempre incentrata su un concetto basilare di “American Way of Life” piuttosto ottimista.
I Wallace erano fedelissimi repubblicani ma, durante gli anni ’30 e ’40 non si sognarono neanche lontanamente di mettere in dubbio la validità delle politiche dei presidenti democratici come Roosevelt, mentre la loro inclinazione emerse chiaramente negli anni ’50, quando la rivista assunse un carattere marcatamente antisovietico e anticomunista, anche se non si abbassò mai al livello da sostenere apertamente la “caccia alle streghe” del senatore McCarthy nella prima parte del decennio, preferendo dare spazio a figure più apertamente patriottiche come il generale (e futuro presidente) Eisenhower, di cui fu pubblicata anche una biografia autorizzata tra i “condensati” di fine numero. In questo periodo, molti articoli trattavano della vita dei militari in guerra o in vari tipi di missione, ad esempio dei piloti di bombardieri B-52 delle squadriglie che si avvicendavano in volo sui cieli dell’Alaska per stare lì pronti a “rispondere” con bombardamenti strategici a una eventuale aggressione sovietica.
Ma non c’erano solo patriottismo e militarismo
La fede repubblicana dei Wallace era ancora quella del più importante tra i fondatori di questo partito (quando, alla metà del XIX secolo, era nato come un partito progressista), ossia Abraham Lincoln. Non c’era mai il minimo appoggio al Ku Klux Klan e ad altri movimenti razzisti, le cui violenze erano anzi stigmatizzate, e non mancavano pezzi che esaltavano la promozione sociale dei neri ben integrati nella società, ad esempio il condensato del libro “Adhoolo!” che era la biografia di Matthew Henson (1866-1955), il fedele domestico di colore dell’ammiraglio Robert Peary (1856-1920), da lui seguito in tutti i viaggi al Polo Nord (all’epoca, non si metteva in dubbio che Peary avesse raggiunto per primo il Polo, nel 1909, nonostante una sua imbarazzante diatriba con il suo ex medico di bordo Frederick Cook, che sosteneva a sua volta di esserci arrivato già nel 1908. I due affrontarono anche un processo giudiziario, che si concluse con la condanna di Cook come millantatore. Ma in tempi più recenti è apparso evidente che anche Peary non aveva raggiunto il Polo, bensì si era fermato a qualche km di distanza, probabilmente perché tratto in inganno dalla deriva dei “pack” ghiacciato. Dunque, a raggiungere per primo il Polo sarebbe stato, nel 1926, sul dirigibile “Norge”, Roald Amundsen, lo stesso esploratore che nel 1911 aveva raggiunto per primo il Polo Sud).
Non mancavano neppure avvincenti reportages su fatti controversi della Storia recente: ad esempio, tra i “condensati”, uscì anche “La notte del Titanic”, la lunga e impegnativa inchiesta di Walter Lord sul tragico naufragio del 1912.
Ma si parlava anche di storie più quotidiane, che avevano per protagonisti delle persone più semplici, di solito proposte per perorare qualche importante causa civile. Ad esempio, quando nel 1963 fu pubblicato un “condensato” di grande successo sulla vita di Janis Babson (1950-1961), una bambina canadese che, mentre pativa le terribili sofferenze di una leucemia acuta, aveva imposto ai genitori la decisione di donare le proprie cornee per i trapianti, una volta morta. All’epoca, i trapianti di cornea erano ancora a livello sperimentale e la diffusione della storia di Janis fece aumentare enormemente il numero dei donatori.
Un aspetto estremamente significativo e particolarmente ammirevole del “Reader’s Digest” è stato l’uso assiduo del “checking”, ossia della verifica dei fatti dal più elevato numero possibile di fonti, nonostante il suo evidente indirizzo politico. Il “Reader’s Digest” non ha mai né inventato né diffuso né riportato bufale, nemmeno quando, negli anni ’50, conduceva martellanti campagne antisovietiche e anticomuniste (che erano infatti improntate più alla difesa delle tradizioni e del modo di vivere americano che alla denigrazione dei nemici). La più netta presa di posizione si ebbe nel 1968, quando la rivista assunse una netta posizione a favore di Richard Nixon, un “falco” repubblicano, quale candidato alla presidenza degli Usa. La collaborazione si spinse fino a pubblicare articoli firmati dallo stesso Nixon su suoi progetti politici. Nonostante lo scandalo Watergate che lo costrinse alle dimissioni resta comunque il fatto che, durante la sua presidenza, furono assunti importanti provvedimenti quali il ritiro delle truppe americane dal Vietnam, la creazione dell’Agenzia Federale per l’Ambiente, il potenziamento di quella per la Salute e una serie di leggi per la tutela dei consumatori contro gli abusi delle multinazionali.
Non a caso, il giornalista e scrittore inglese Francis Wheen, appartenente all’area dei partiti marxisti, ha scritto nel 2004 che, in Usa, le politiche più di sinistra del dopoguerra sono state portate avanti proprio da Nixon, da lui giudicato il miglior presidente americano del XX secolo.
Il successo della rivista la portò anche all’estero. Dal 1938, il “Reader’s Digest” cominciò a essere pubblicato anche in Regno Unito (dove esiste ancor oggi). Poco più tardi, arrivarono le prime traduzioni: in spagnolo per il mercato dell’America Latina (dal 1940 in poi) e in portoghese per quello brasiliano (dal 1942). Poi, man mano che le vittorie della Seconda Guerra Mondiale aprivano un po’ tutti i Paesi all’influenza della cultura statunitense, le edizioni straniere si moltiplicarono. In Italia, così come in Germania, arrivò nel 1948. In alcuni Paesi se ne fecero più edizioni per i diversi gruppi linguistici (tipo francese e inglese per il Canada, francese e fiammingo per il Belgio). Un’edizione in arabo (“Al-Mukhtar”) uscì in Egitto dal 1976 al 1993. Nei Paesi dell’ex Cortina di Ferro è uscita a partire dal 1991. Dal 2008 ne esiste addirittura un’edizione in cinese, che però ha avuto un successo relativamente scarso, dato che ha cessato le pubblicazioni nel 2012.
In Italia, come si diceva, la rivista uscì per la prima volta nell’ottobre del 1948, ottenendo subito un buon successo. Fino al 1967 fu pubblicata dalla Arnoldo Mondadori Editore, che però poi la cedette alla Camuzzi Editoriale SpA. La tiratura media era di 110.000 copie mensili, un ottimo risultato per un Paese di non-lettori come il nostro. Purtroppo, le disavventure imprenditoriali della holding Camuzzi, attiva anche nella distribuzione dell’energia, portarono nel 2000 alla creazione di un nuovo marchio editoriale, chiamato “Edizioni Reader’s Digest”, che non riuscì a contenere le perdite dovute alla graduale disaffezione del pubblico, fino alla chiusura della rivista nel dicembre 2007; un successivo tentativo di resuscitarla, da parte della MK Group, non andò a buon fine.
L’edizione italiana di “Selezione”, per anni, ebbe il suo punto forte nella diversificazione dell’offerta, che divenne particolarmente ricca dal 1959 in poi. Gli abbonati alla rivista avevano la possibilità di acquistare, a prezzi veramente competitivi, anche attrezzature come radio o giradischi, o una vasta scelta di Lp, enciclopedie, atlanti, dizionari e manuali, in cofanetti o edizioni rilegate di un certo livello.
Un capitolo a parte meriterebbe la storia dei libri di narrativa proposti prima solo agli abbonati e poi anche per proprio conto, con la collana “Selezione del Libro”, che uscì dal 1955 fino alla chiusura della rivista. Ognuno di questi volumi, rilegati prima in cartone colorato con sovraccoperta e poi in similpelle, conteneva da 2 a 6 “condensati” di bestseller del mercato americano e internazionale. I critici tuonavano contro la qualità di queste versioni piene di tagli o addirittura ridotte alle sole scene essenziali, ma sta di fatto che questa prassi era comunemente diffusa tra gli editori di collane popolari dagli anni ’40 in poi (molti Gialli Mondadori, al momento della ristampa, hanno avuto bisogno di essere ritradotti, perché le edizioni classiche erano veramente tagliate con l’accetta: ad esempio, la prima uscita del classico dello spionaggio “La maschera di Dimitrios” di Eric Ambler, che aveva titolo “A caccia di un’ombra”, cominciava direttamente dal terzo capitolo dell’originale! Anche la versioni italiane di “Dracula” di Bram Stoker uscite fino a quella curata da Francesco Saba Sardi alla fine degli anni ’70 erano piene di tagli).
Sebbene i romanzi nei volumi di “Selezione dal Libro” non possano essere paragonati alle loro edizioni integrali, bisogna dire che queste solo raramente sono arrivate a essere tradotte in Italiano. Gran parte della narrativa mondiale proposta da “Selezione del Libro” è accessibile al lettore italiano solo in quella versione, e dunque si deve riconoscere che questi tanto vituperati “condensati” hanno spesso colmato il vuoto di scelte editoriali non sempre lungimiranti.