Nel sud-est della Tasmania, in una penisola circondata da acque infestate dagli squali, collegata alla terraferma solo da una sottilissima striscia di terra larga 30 metri un tempo presidiata da soldati, trappole e cani da guardia, si erge imponente un edificio simbolo della giustizia britannica:
Il penitenziario di Port Arthur
Nel XIX secolo l’Impero Britannico mise in atto una politica penale di trasporto e detenzione di condannati nelle colonie penali australiane. Qui venivano deportate persone di ogni età, sesso ed estrazione sociale, responsabili di qualsiasi tipo di reato, per lo più minori, in quanto la pena per stupratori e assassini era generalmente la morte.
Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:
Sotto, il Penitenziario di Port Arthur, fotografia di Martin Pot via Wikipedia:
L’insediamento di Port Arthur fu stabilito nel 1830 come stazione per la produzione di legname; fu tre anni dopo che iniziarono ad arrivare i condannati al carcere duro. Per tutto il decennio successivo i detenuti lavorarono all’ampliamento del complesso, creando manifatture, costruendo edifici, tra cui un mulino, un granaio e un ospedale. Vi abitavano più di mille persone. Qualche anno dopo fu avviata la costruzione della Prigione Separata, dove verrà sperimentata una nuova filosofia penitenziaria.
Una fotografia recente, che mostra alcuni detenuti a lavoro nel 1926:
La prima filosofia attuata nel campo si basava su rieducazione e riformazione dei detenuti mediante il lavoro. Era nuova opinione che fosse inutile frustarli e lasciarli marcire in prigione, si decise, dunque, di utilizzarli per mandare avanti la colonia e renderla competitiva dal punto di vista industriale. Attraverso una formazione religiosa, civile e lavorativa ci si proponeva di dar loro i fondamenti culturali per tornare a vivere nella società in veste di uomini rispettabili, con un’utile esperienza lavorativa alle spalle. Vennero costruiti diversi edifici e tutto ciò che serviva alla colonia veniva prodotto lì, grazie alla manodopera dei detenuti, almeno fino a quando il loro numero non aumentò tanto da rendere necessaria almeno l’importazione dei beni di prima necessità.
La chiesa della prigione, fotografia di D. Gordon E. Robertson via Wikipedia:
Ai più educati veniva concesso di lavorare al cantiere navale, mentre gli altri tagliavano e trasportavano la legna, o si davano da fare come artigiani. Nel 1848 il cantiere venne chiuso in seguito alle lagnanze degli armatori privati, che trovavano ingiusto concorrere contro un cantiere governativo avvantaggiato da agevolazioni fiscali. Gli anni successivi videro un notevole incremento della produzione di legname e di quella agricola.
Il complesso di Port Arthur:
Nel 1857 mulino e granaio furono trasformati in un penitenziario, a fianco del quale vennero posizionate delle officine. Tuttavia il numero di detenuti in quegli anni iniziò a calare. I restanti erano vecchi, malati o pazzi. L’ultimo fu deportato nel 1877, e la colonia si avviò verso l’inesorabile fine.
Negli anni sessanta il regime divenne molto più flessibile e rilassato. Ai detenuti del manicomio si cercava di dare un’atmosfera più calma. Gli si faceva fare attività fisica e curare il giardino o tagliare la legna da ardere.
La peculiarità della colonia penale è, tuttavia, la Prigione Separata
L’edificio riprende l’idea del Panopticon di Jeremy Bentham, ma invece di avere una forma circolare si componeva di una struttura a croce, le cui ali erano collegate al nucleo centrale di sorveglianza, dando l’impressione ai detenuti di essere costantemente osservati da un guardiano onnisciente. Il risultato era la costante pressione psicologica, ragione di un autonomo mantenimento dell’ordine da parte dei prigionieri.
La prigione separata:
Il sistema separato segnò il passaggio dalla punizione fisica a quella psicologica. Le punizioni corporali erano ormai viste come inutili e controproducenti, non educavano all’abbandono della violenza, alimentavano, bensì, l’odio verso la società; le seconde invece risultavano molto più efficaci. Il sistema dei premi, ad esempio, mostrava ai detenuti come sarebbero stati ricompensati, nel qual caso avessero seguito le regole e si fossero comportati diligentemente, inculcando l’idea che questo sarebbe successo anche nel mondo al di fuori del penitenziario. Quando uno di essi si distingueva per un atteggiamento positivo durante la riabilitazione veniva premiato con un aumento della razione di cibo, o con prodotti di lusso, quali tè, zucchero o tabacco.
La punizione consisteva invece nel disumano “sistema del silenzio”
I carcerati maggiormente indisciplinati, diventati ormai dei semplici numeri identificativi, spogliati della propria identità, venivano incappucciati e rinchiusi in una minuscola cella d’isolamento, illuminata da una piccola lampada, con una scrivania, dei secchi per i bisogni fisiologici, una branda per dormire e il breve e semplice regolamento affisso al muro.
Non potevano emettere alcun suono, e non ne udivano provenire dall’esterno
Potevano solo ascoltare i propri pensieri e riflettere sui propri sbagli. Questo sistema, al tempo considerato più umano rispetto quello utilizzato dagli altri penitenziari, causò nelle vittime una progressiva instabilità mentale che in poco tempo li conduceva alla pazzia.
L’isola dei morti, dove venivano sepolti i detenuti. Fotografia di Martin Pot condivisa con licenza Creative Commons 3.0 via Wikipedia:
Non a caso il manicomio fu costruito proprio di fianco al penitenziario. Tutto in quella prigione era organizzato in modo da escludere completamente dal mondo i detenuti. Non potevano comunicare tra loro, non sentivano né vedevano nulla. Potevano avere solo un fugace “contatto” con le guardie, chiamate all’occorrenza tramite una campanella, le quali comunicavano a gesti e indossavano calzature di feltro per non emettere suoni nemmeno mentre camminavano. Il tutto avveniva con la massima discrezione, senza perdite di tempo e senza rumore. Le rigide regole erano affisse alla parete come monito per i carcerati e la routine non prevedeva sgarri.
Lapidi dell’isola dei Morti. Fotografia di Star reborn condivisa con licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia:
I detenuti passavano 23 ore al giorno in cella. La restante ora la passavano lavorando o partecipando alle funzioni religiose. Pur di evitare la condanna i prigionieri tentavano una rocambolesca fuga, come fece Billy Hunt, che si travestì da canguro per cercare di ingannare le guardie, ma dovette arrendersi quando queste iniziarono a sparare. I detenuti, qualora non ne vedessero l’opportunità, preferivano commettere un omicidio al solo scopo di ottenere la pena capitale e riposare finalmente in pace nell’isola dei morti, il cimitero di Port Arthur.
Oggi il sito fa parte dei patrimoni dell’umanità UNESCO:
La pazzia, inevitabile all’interno della prigione del silenzio, sarebbe stata una pena molto peggiore…
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