Nel 1975 la Cambogia era una piccola scacchiera che univa in un’unica partita i Vietcong, gli Stati Uniti d’America, l’URSS, la Cina, il governo locale e i rivoluzionari comunisti. I pedoni sacrificali di quel gioco di alleanze furono i semplici cittadini, che, a loro insaputa, divennero protagonisti di un massacro senza precedenti per moventi e modalità, di una tragedia passata alla storia come il “genocidio cambogiano”.
Il principale artefice dell’evento fu Pol Pot, pseudonimo di Saloth Sâr, spietato capo degli Khmer rossi (che era l’altro nome dei gerarchi del Partito Comunista Khmer). In realtà, per definire cosa accadde alla popolazione locale fra il 1975 e il 1979, il termine “genocidio” è inesatto e i più calzanti sono democidio e/o politicidio, perché il governo di Pot non pianificò uno sterminio sistematico paragonabile a quello degli ebrei o degli armeni. Ciò non toglie che, nella seconda metà degli anni Settanta, la Cambogia vide la morte di circa un terzo della sua popolazione. I dati esatti sono tutt’ora oggetto di un dibattito storico. In linea di massima, la stima delle vittime si assesta sul milione e mezzo, ma, in teoria, potrebbe arrivare fino a tre milioni. A prescindere dalle scuole di pensiero, i numeri sono altissimi e furono il frutto di una scellerata politica nazionalista, antioccidentale e antiurbana di un folle carnefice che cercò di piegare alla sua ideologia una popolazione già stremata dai conflitti interni e dalla vicina guerra in Vietnam.

Saloth Sâr, salito al potere come Pol Pot (pseudonimo che probabilmente deriva dall’abbreviazione dei termini francesi Politique Potentiel), nacque a Prek Sbauv il 19 maggio 1925. Era il figlio di un ricco proprietario terriero cambogiano. In gioventù si formò in un monastero buddhista, dove trascorse sei anni, e nel 1949 si aggiudicò una prestigiosa borsa di studio che gli permise di trasferirsi in Francia. A Parigi il giovane Saloth venne a contatto con gli ideali comunisti e, a discapito degli studi, si dedicò attivamente alla politica. Fece ritorno in patria nel 1953 e da lì in poi legò il suo nome al Partito Rivoluzionario del Popolo Khmer, di cui fu membro fondatore.
In quegli anni la Cambogia fu scossa da una serie di giochi di potere che, nel 1955, portarono il re Sihanouk ad abdicare e indire delle elezioni.
Tuttavia, si trattò di una mossa che con la democrazia aveva ben poco a che fare.
In realtà, il sovrano voleva legittimare la sua posizione di capo indiscusso dello stato: fondò un partito, sfruttò la sua popolarità fra i ceti bassi della popolazione per vincere le elezioni e divenne capo del governo anche attraverso numerose intimidazioni e brogli elettorali. A ostracizzare l’ex monarca vi era il partito di Pol Pot, i cui membri, visti gli esiti delle elezioni, dovettero darsi alla macchia per sfuggire alle persecuzioni di Sihanouk.
Dopo dodici anni di latitanza, Pot ottenne il supporto della Repubblica Popolare Cinese e, insieme ai suoi seguaci, imbracciò le armi per liberare la Cambogia. Il braccio destro di Sihanouk era Lon Nol, un convinto filostatunitense avverso ai comunisti. A differenza di quest’ultimo, il monarca aveva sposato una linea di pensiero nazionalista e, col tempo, allentò la morsa contro il partito di Pol Pot.
Anche in questo caso si trattò di una mossa con un doppio fine. Stando alla logica del sovrano, Pol Pot era l’unico in grado di fronteggiare la crescente ambizione del suo ormai scomodo vice e farselo amico gli sarebbe potuto tornare utile. Nel 1970, le tensioni fra i vertici cambogiani degenerò in un colpo di stato: Lon Nol ottenne il supporto del governo statunitense e depose Sihanouk.

La situazione in Cambogia non era delle migliori e favorì l’ascesa di Pol Pot. Già nel 1969, infatti, la popolarità dei comunisti aveva subito un’impennata in seguito a una serie di attacchi dell’aviazione americana. Il confine con il Vietnam era vicino e gli echi della guerra non potevano non giungere alle orecchie della popolazione. Spesso i Vietcong sconfinavano nei territori cambogiani e li utilizzavano come basi; ciò fornì al governo di Washington un valido pretesto per estendere i sistematici bombardamenti al Napalm anche alla Cambogia. Dopo il colpo di stato, Sihanouk passò da simpatizzante a effettivo sostenitore del Partito Comunista Khmer. L’estrema impopolarità degli Stati Uniti a seguito dei bombardamenti da un lato e l’ex sovrano schierato al fianco dei comunisti dall’altro furono i fattori determinanti che spinsero Pot al potere. Lon Nol, neo dittatore della Cambogia, inasprì la faida contro i Khmer rossi e nacque una guerriglia che si concluse nel 1975: l’esercito rivoluzionario entrò nella capitale, Phnom Penh, e costrinse Lon Nol alla fuga negli USA.
Da allora ebbe inizio il genocidio di oltre un milione e mezzo di vittime.
La Cambogia cadde nelle mani dei Khmer rossi il 17 aprile e cambiò ufficialmente nome in Kampuchea Democratica. A capo del nuovo governo vi era l’Angkar (organizzazione), ossia il partito comunista con tutte le sue strutture e i suoi apparati burocratici. Pol Pot, dittatore solo de facto, si auto-relegò nell’ombra per giostrare i fili della politica senza esporsi e creò, attorno a sé e ai suoi alleati, una sorta di aura mistica, affinché la popolazione venerasse e rispettasse i leader della rivoluzione. Pol Pot fu molto cauto e pose ai vertici della Kampuchea Democratica uomini del precedente governo.
Ad esempio, l’ex monarca Sihanouk venne nominato capo di stato, ma, nel concreto, la sua carica era solo di facciata e lui un burattino con una popolarità interna e una reputazione internazionale da sfruttare. A poco a poco il complesso piano di Pol Pot prese forma e, proprio come Benito Mussolini con la retorica sul grande Impero Romano, preparò il popolo a una rivoluzione senza precedenti, che guardava indietro ai fasti dell’Impero Khmer, sorto agli albori dell’800 dopo Cristo e cessato di esistere nel 1431. Per Pol Pot era quello il modello da seguire, era quello il nazionalismo da associare al comunismo affinché la Cambogia potesse imporsi sul territorio indocinese. Il ritorno ai fasti del passato era il fine ultimo, la meta da perseguire a ogni costo, ma, nel mentre, era necessaria anche una rivoluzione sociale.
L’ingresso dell’esercito khmer a Phnom Pen, quindi, segnò l’inizio della Kampuchea Democratica e dei piani di Pol Pot. A tal proposito, vi è la testimonianza riportata nel libro Il racconto di Puw bambina cambogiana, edito da Einaudi, di una sopravvissuta al genocidio, all’epoca dodicenne. Il racconto è del 17 aprile: il giorno in cui la capitale passò sotto il comando dell’Angkar.
“Al mattino c’era una gran quiete. Nessuno osava uscire: si aspettava un avvenimento. D’un tratto scoppiano degli applausi e si sente un grido di trionfo: “Kampuchea libera!”. Dalle finestre chiuse, vedevamo la folla dei curiosi e dei senzatetto che ciondolavano l’intero giorno per la città, far siepe ad ogni lato del viale: nel mezzo, in fila indiana, dei ragazzi con giacca e pantaloni neri, con i piedi calzati di pezzi di gomme trasformati in sandali, avanzavano in silenzio, armi in spalla, senza un sorriso, senza uno sguardo né a destra né a sinistra. […] Dietro ai soldati avanzavano uomini che sembravano un po’ più anziani: anche loro erano vestiti di nero, ma con panni sporchi, anzi luridi. Uno di loro ci grida: “Veniamo a salvarvi” o “ad aiutarvi”, non ho sentito molto bene. Mio padre apre la porta e fa mossa d’uscire a salutarlo: “Non uscite! Prima dobbiamo far pulizia nella città: ci sono banditi che svaligiano i negozi”. […] Verso mezzogiorno, stavamo per metterci a tavola, una moto si ferma davanti a casa. Mio padre va a vedere, io lo seguo: è un khmer rosso. “Preparate i bagagli- dice. – Dovete partire al più presto possibile. Andrete due o tre chilometri lontano di qui; vi diranno dove. Noi dobbiamo far pulizia nella città. E soprattutto badate bene di non nascondervi in casa!”.
Come si evince dalle parole di Puw, Pol Pot ordinò all’intera popolazione di evacuare la città e compì il primo passo per piegare la Cambogia alle sue mire ideologiche. Seguendo l’esempio di Mao in Cina, anch’egli voleva compiere un grande balzo in avanti e per farlo guardava al passato per aspirare a una Cambogia libera dalle influenze occidentali che l’avevano inquinata. Phnom Pen non fu un caso isolato e, nel giro di poco tempo, tutti gli abitanti delle città principali vennero trasferiti nelle campagne, dove iniziarono a lavorare in delle entità di produzione collettiva chiamate cooperative. Il presupposto dell’ideologia di Pol Pot era la fusione di un nazionalismo esasperato e di un comunismo affine a quello maoista, il cui obiettivo era riportare la nazione alla potenza e allo splendore dell’Impero Khmer attraverso il potenziamento della produzione di riso. L’intenzione di ampliare la superficie delle risaie e farci lavorare l’intero popolo cambogiano era finalizzato a triplicare il raccolto annuo di riso, ma non vi fu alcuna logica o razionalità, e il prezzo degli errori lo pagarono uomini, donne e bambini, schiavi di un folle che li condannò a una lunga agonia.
Le incredibili cifre del genocidio cambogiano sono la somma di tante variabili legate all’estremismo di Pot. In primo luogo vi sono le vittime di un programma agrario gestito in maniera scellerata. Seguendo il più classico dettame comunista, il feroce dittatore abolì la proprietà privata e relegò le popolazioni urbane in cooperative autosufficienti e isolate tra loro. I turni di lavoro erano estenuanti, di circa 10/12 ore giornaliere, e anche i bambini dovevano fornire il proprio contributo alla causa.
Sul fronte finanziario il nuovo ordine politico approvò l’utilizzo del denaro e stampò per un po’ una nuova moneta, ma anche quell’elemento fu, poi, cancellato in favore del baratto, una soluzione più consona al processo di deoccidentalizzazione in atto. Infine l’intera nazione chiuse le porte agli stranieri e agli scambi commerciali. Un blackout totalitario oscurò la Cambogia e i più elementari diritti dell’uomo divennero solo un lontano ricordo.
Le prime vittime del regime furono gli oppositori politici, i funzionari del governo sconfitto, i borghesi e chiunque rifiutasse di piegarsi agli ideali di Pot. L’Angkor vietò alla popolazione di indossare abiti colorati, di leggere libri e, persino, di portare gli occhiali, a detta dei khmer, strumenti tipici degli intellettuali e, quindi, riconducibili a quell’occidentalizzazione da debellare a ogni costo. L’arretramento culturale era necessario affinché ogni cambogiano s’impegnasse a lavorare per l’aumento della produzione di riso, ma la disorganizzazione era tale che, invece, fruttò numerose carestie.
I contadini schiavizzati nelle cooperative morivano di fame e di stenti, erano malnutriti, con misere razioni di cibo, e si ammalavano senza poter godere di cure adeguate.
Infatti, il regime aveva uccisi o relegato nei campi tutti i professionisti che conoscevano o praticavano la medicina occidentale e, di rimando, aveva favorito la formazione approssimativa di giovani dottori privi d’esperienza che potevano effettuare cure solo con metodi e farmaci non occidentali, quasi sempre inefficaci. I temibili carcerieri delle cooperative, inoltre, erano spesso bambini e adolescenti manipolati psicologicamente per compiere azioni efferate senza alcun disturbo da stress post traumatico.

Come la storia insegna, questo era il problema principale che dovette affrontare Hitler per le esecuzioni sommarie degli ebrei. Da lì nacque la soluzione dei campi di Auschwitz et similia, ma la Cambogia aveva ovviato al contrattempo e poteva tranquillamente perpetuare crimini e violenze per tenere sotto scacco la popolazione. L’intera nazione, insomma, era diventata un enorme campo di sterminio.
Sebbene la situazione fosse pressoché tragica, a Pol Pot poco importava
Ogni individuo, se preso singolarmente, non aveva alcun valore, e ciascun cambogiano non era altro che una pedina da immolare. Ai decessi causati dai problemi logistici delle varie cooperative si aggiunsero, poi, le terribili conseguenze dei prodromi del fallimento utopistico di Pol Pot. Mentre la popolazione pativa la fame e si ammalava senza poter essere curata a dovere, i Khmer rossi non esitarono a esercitare il proprio potere attraverso omicidi di varia natura.
Crebbe in loro la convinzione che gli insuccessi economici fossero causati da oppositori clandestini che agivano nell’ombra, perciò chiunque fosse anche solo sospettato di essere avverso alla rivoluzione andava incontro a un tragico destino. La nazione era povera e, anziché una classica fucilazione, i soldati khmer giustiziavano le vittime pestandole a sangue con bastoni, zappe e coltelli per non sprecare proiettili. Anche le famiglie dei possibili traditori venivano sterminate per evitare ipotetiche vendette.
Nella Cambogia di Pol Pot era permesso ogni crimine, anche il più disumano. Particolarmente agghiaccianti sono le storie degli esperimenti medici condotti senza anestesia, come, ad esempio, l’apertura del torace di una persona viva per osservarne il cuore, o le iniezioni di succo di cocco nel sangue. Non erano da meno le crudeli torture inferte ai prigionieri che, a interrogatori conclusi, venivano percossi a morte in delle fosse comuni. Nemmeno ai bambini e ai neonati dei presunti criminali era concesso un briciolo di umanità, e venivano scaraventati con violenza contro degli alberi.
Col passare del tempo il tasso di mortalità crebbe a dismisura, di pari passo con l’aggravarsi della crisi economica, e Pol Pot iniziò a sospettare anche dei membri del suo stesso partito. Numerosi esponenti dell’Angkar furono accusati di aver tradito la rivoluzione e di averne ordito il fallimento; i distretti a loro affidati, infatti, non riuscivano a produrre la quantità minima di riso richiesta. Coerente con la sua filosofia del “conta la collettività e non il singolo individuo”, anche in questo caso Pol Pot ordinò la morte dei suoi funzionari e di tutti i loro familiari, dando vita a un’epurazione interna fra gli Khmer rossi. Un caso limite, eclatante e aberrante per la totale mancanza di razionalità, fu quello del 1978, dove l’intera popolazione di una regione (circa centomila persone) fu accusata di complicità con il dirigente dell’Angkar che la sovraintendeva. Questi non aveva saputo assolvere i suoi doveri in nome della causa comunista e furono tutti giustiziati.
Il declino di Pol Pot iniziò sul finire del 1976. Il dittatore accusò il Vietnam di aver occupato territori che, storicamente, appartenevano al popolo Khmer, ma dalla parole si passò ai fatti solo nel 1978, quando il governo di Hanoi invase la Cambogia e sconfisse senza troppa fatica l’esercito dell’Angkar.

Il 7 gennaio del 1979 cadde anche Phnom Pen e Pol Pot ripiegò verso il confine con la Thailandia. Era alle strette, ma aveva ancora un ampio seguito e, nel frattempo, scese in campo il suo alleato principale, la Cina, che attaccò il Vietnam con una fallimentare campagna militare. In Cambogia venne formato un nuovo governo di coalizione, ma il folle dittatore continuò per anni a controllare alcune zone indocinesi e a dar battaglia per riprendere in mano la sua utopia di un nuovo Impero Khmer.
Uno degli ultimi suoi atti fu la messa a morte, nel 1997, del suo braccio destro, Son Sen, reo di aver appoggiato la creazione di un governo ufficiale. Pol Pot fu infinte catturato e posto agli arresti domiciliari. I Khmer Rossi decisero di consegnarlo a un tribunale internazionale, ma non ci riuscirono:
Stando alla testimonianza della moglie, Pol Pot morì ad Anlong Veng il 15 aprile del 1998 per un infarto, la notte dell’annuncio della sua consegna alla giustizia
Tuttavia, non fu possibile ispezionare il corpo, che fu cremato in gran fretta, e ciò destò forti sospetti sulla reale causa del decesso: forse si suicidò o fu vittima di un omicidio per avvelenamento. Con un epilogo avvolto nel mistero, si concluse, così, la vita di uno dei più efferati criminali del Novecento, di un folle capace di sfruttare fino alla morte i suoi connazionali, di uno spietato carnefice che, al pari dei suoi predecessori, ha vergato pagine di storia impregnate del sangue di tanti innocenti.
