Raccontare la favola della buonanotte del punk è un’impresa che hanno tentato in molti. “Please Kill Me”, pubblicato nel 1997, è solo uno di questi tentativi. Ma allora perché parlarne? Perché non apprendere ascesa e declino di questo celebre movimento musicale e culturale da una qualunque pagina internet, invece che “spararsi in vena” 600 pagine di libro? Perché il punk, quello vero, nonostante ispiri ancora gli animi ribelli di musicisti inquieti, nonostante tutti i tentativi di tenerlo in vita, nonostante tutte le t-shirt su cui si potrà trovare scritto che, sì, in fondo il punk non è morto, in questi nostri crudeli tempi moderni, è come un’istantanea dai colori un po’ sbiaditi, come una storia che, a forza di essere raccontata, ha perso autenticità.
La prima cosa da dire a questo proposito è che, secondo l’opinione di chi scrive, il punk è figlio della sua generazione e solo ad essa appartiene davvero.
Il punk è il figlio degenere della spensierata ribellione degli anni ’60, ma non potrebbe essere scappato più lontano dal “piece and love” che, in quegli anni, abitava i cuori di chiunque avesse in mano una chitarra. È il frutto proibito di una società che si sforzava di apparire puritana ma che andava scoprendo il suo lato più torbido. È il prodotto della ribellione, sì, ma nei confronti di un tempo, di un mondo, di un sistema che abita esclusivamente nel passato e che può essere raccontato solo da chi l’ha vissuto sul serio.
Un racconto spassionato e sincero, senza censure, come un drink puro al 100%. Un libro composto solo da interviste, perché, se c’è un generale musicale che proprio non può prestarsi alla narrativa, beh, quello è proprio il punk. Troppo complesso, troppo articolato, troppo difficile da raccontare attraverso gli occhi della semplice narrazione.
Please Kill Me è un libro libero, vero nella sua più sfacciata essenza. È il punk nelle reali e spesso volgari e oscene parole dei suoi protagonisti e non attraverso gli occhi nostalgici di un ascoltatore o interviste giustamente filtrate e selezionate per adattarsi agli standard televisivi. È, semplicemente, la storia completa di tutti quei cattivi ragazzi e del loro sesso sporco, droghe pesanti e rock’n’roll sperimentale; di un movimento che è stato, per eccellenza, libero e vero nella sua più sfacciata essenza, un caos senza compromessi e spiegazioni, “dischi con sonorità ultrasoniche che provocano lobotomie frontali”, per dirla alla Lou Reed.
E di quelle sonorità, così come delle personalità che le componevano, viene detto proprio tutto in questo libro. Si parte dagli anni ’60, da quando in una New York sempre più votata alla trasgressione e alla sperimentazione, La Monte Young, prima di una performance musicale, fece stampare dei volantini con la scritta “lo scopo di questa musica non è l’intrattenimento”. La parola “punk” era ancora ben lontana dall’essere scritta, gli stivali in pelle non andavano ancora così di moda e i Sex Pistols non erano che dei bambini in età scolare, eppure, quella frase, non potrebbe rappresentare meglio quello che, poi, fu il punk, ovvero un caos sonoro creato per qualunque motivo fuorché il “banale” intrattenimento di ospiti paganti.
Il primo a coglierne il potenziale e a sfruttare quell’inquieto desiderio di scioccare e di far spalancare ogni puritana bocca della città fu Andy Warhol, che notò e poi patrocinò i Velvet Underground, ai quali, per il tempo di un LP, si aggiunse l’affascinante Nico. “Un manipolo di pazzi” che si esibivano nei locali del West Village con performance “iper-culturali” ideate da Warhol, vestiti di pelle nera, armati di fruste e pronti a cantare storie di sadomaso e di eroina.
Il lungo e intricato viaggio della sub-cultura punk prosegue, a cavallo tra gli anni 60 e 70, con diverse band, tra le quali spiccarono The Stooges, capitanati da un giovanotto di nome James Osterberg, passato alle glorie della musica mondiale come Iggy Pop.
Iggy & The Stooges contrapposero alla sofisticata e promiscua New York dei Velvet Underground, la ruvida aggressività di Detroit, dando vita a performance talmente forti ed estrose, da lasciare pubblico e critici senza parole. “La gente non sapeva cosa pensare” apprendiamo da Scott Asheton, batterista del gruppo, “il piano era proprio quello – far crollare i muri e stendere il pubblico, dal primo all’ultimo”.
E quello era esattamente il tipo di sound, il tipo di performance, il tipo di shock che il mondo della musica stava aspettando ed è quindi naturale che il talento di personaggi come Lou Reed e Iggy Pop fosse destinato a volare anche oltreoceano, in particolare in Inghilterra, grazie alle preziose collaborazioni di entrambi con il già celebre David Bowie e grazie all’intervento di Malcom Mc Laren, che in molti hanno definito una sorta di deus ex machina del punk britannico. Mc Laren, che a Londra gestiva insieme a sua moglie, una giovane e ancora sconosciuta Vivienne Westwood, un negozio di abbigliamento in stile fetish, entrò in contatto, tra gli altri, anche con i New York Dolls, altra band statunitense a dir poco fondamentale nella storia del punk, e fu proprio ispirandosi a loro, al loro modo di vestire, di cantare e di suonare, che diede vita ai Sex Pistols.
E così, quel movimento di giovani ribelli e maledetti, partorito da una New York trasgressiva ma pur sempre piuttosto bohemienne e sofisticata, prese vita propria nell’Inghilterra liberalista e conservatrice di Margaret Thatcher, usando come propellente tutta la rabbia della classe lavoratrici contro la borghesia e, più in generale, contro il sistema.
“La rabbia riguardava i soldi, il fatto che la cultura fosse diventata aziendale, che ce l’avessero strappata di mano e che tutti quanti cercavano disperatamente di riprendersela. Tutto questo riguardava una generazione intera.”
E questa rabbia popolare, che troviamo qui di sopra espressa direttamente da Malcom Mc Laren, diede al punk britannico una sfumatura a tratti violenta e anarchica, differenziandosi così da quello statunitense. Se il punk americano era ribelle, ironico, dedicato a creare unicità e scossa emotiva ad ogni singola performance, quello britannico era urlo disperato, distruttivo e autodistruttivo; era la rivolta di una società che sgomitava e lottava per essere libera dalle etichette della borghesia, al contrario di un’America che, forse, libera lo era già, e poteva permettersi di esplorare nuovi orizzonti del rock, senza preoccuparsi troppo di renderlo politico.
E forse un po’ per quell’aria da ragazzi pericolosi, un po’ perché la loro rabbia così estrema rappresentava una novità e un po’ per i loro look fetish, orchestrati ad arte da Mc Laren e Westwood; Sid Vicious e compagni divennero delle vere e proprie celebrità tanto in patria quanto negli Stati Uniti, scatenando la moda punk anche tra i più giovani. Ma si sa, quando una cosa diventa di moda e di massa, non può più essere definita underground e il punk, senza quella nota di incomprensione e ristrettezza, non poteva sopravvivere a lungo.
Legs Mc Neil, autore del libro e creatore della rivista “Punk”, racconta, proprio nel libro, tutto il suo rammarico per come, a suo parere, Mc Laren avesse commercializzato e “brandizzato” un concetto, un’idea, quella del punk, che in realtà nasceva dalla cultura rock underground americana, che nasceva come naturale conseguenza della Beat Generation, in particolare dagli scritti di William Borroughs e che era poi diventata strumento commerciale per creare una moda tra gli adolescenti.
“Dopo il tour dei Sex Pistols (in America, ndr), non mi interessava più lavorare alla rivista Punk. I media si erano impadroniti del fenomeno e l’avevano trasformato in qualcosa di fasullo. Il punk non apparteneva più a noi. Si era trasformato in tutto ciò che odiavamo.”
Punti di vista, naturalmente. A queste affermazioni si potrebbe obiettare che il punk apparteneva a tutti o nessuno, che ognuno aveva il diritto di interpretarlo a proprio modo, ça va sans dire, ma è innegabile che, a quel punto, il punk non avesse ancora molta vita davanti a sé.
I vecchi gruppi si erano sciolti o si stavano sciogliendo uno dopo l’altro, a partire dai Velvet Underground; Patti Smith si era ritirata dalle scene; e quando Johnny Rotten, abbandonando il gruppo, decretò la fine dei Sex Pistols, fu chiaro che, in qualche modo, la festa era finita.
La tragica fine di Sid Vicious completò l’opera
Certo, rimanevano ancora tante anime punk, ancora e sempre pronte a urlare, rompere strumenti, esplodere sui palchi e cantare tutta la loro ribellione. Rimanevano i Ramones, per esempio, o i The Clash, sulla sponda britannica, ma la vita del punk, per come era nato, andava inevitabilmente esaurendosi con l’arrivo degli anni ’80, per poi trasformarsi e dividersi in varie correnti di pensiero.
Forse perché le cose belle non sono destinate e durare, chi lo sa, forse perché “lo scopo di questa musica non è l’intrattenimento” o, forse, perché quando si dedica ogni energia alla distruzione di ciò che c’è all’esterno, prima o poi, è inevitabile distruggere anche ciò che c’è all’interno.
Distruzione e autodistruzione, in pieno stile punk, dopotutto.