Peter Beard: il Fotografo a metà fra “Tarzan e Lord Byron”

Impossibile dare una definizione di Peter Beard, anche se è universalmente noto come fotografo.Metà Tarzan, metà Byron” disse di lui Bob Colacello in Holy Terror, il suo libro su Andy Warhol. Molte donne sono andate e venute durante la sua vita mentre i decenni sono rotolati via, ma Beard resta quello che è sempre stato: un fotografo di fama internazionale che disprezza la fotografia; un creativo i cui diari hanno influenzato artisti tra i più disparati come Andy Warhol e Francis Bacon. Lui però si considera uno che semplicemente vive:

Ogni singolo momento della mia vita è servito solo ad ottenere vita attraverso di esso, non c’è un solo momento di programmazione. Tutto ciò che è (la mia vita) è proprio come una barriera corallina: accumulo accidentale

Dopo aver letto “La mia Africa” di Karen Blixen, e aver conosciuto e collaborato personalmente con l’autrice fino alla sua morte, nel 1962, Beard dai 17 anni restò folgorato dalla bellezza e dalla natura selvaggia del Kenya, che aveva visto con i propri occhi insieme al nipote di Charles Darwin. Alla morte della Blixen, nel 1962, decise quindi che avrebbe avuto una vita lontana quanto più possibile da quella degli esclusivi college americani che aveva frequentato e dove aveva conseguito la laurea, a Yale, nel 1961.

Nel 1962 comprò l’Hog Ranch, una proprietà poco distate dalla fattoria della scrittrice danese, da cui poteva vedere le stesse colline descritte dalla Blixen. E questo accampamento fatto di tende è stata la sua casa per tutta la vita, e lo è tutt’ora.

Beard visse una sorta di doppia vita durante tutto il ‘900. Quando non era impegnato a creare i suoi magnifici diari, una combinazione di fotografie e collage, sotto la sua tenda keniana, andava in giro per il mondo a fotografare modelle e dive del cinema, conducendo una vita da play-boy (ha avuto innumerevoli mogli-fidanzate-amanti), insieme ai più noti esponenti della cultura pop dell’epoca: tra i suoi amici c’erano Truman Capote, Francis Bacon, Andy Warhol, Salvador Dalì e i Rolling Stones.

I suoi collages riflettono la natura selvaggia di un poeta-avventuriero, lacerato tra la voglia di libertà e la seduzione della notorietà. Le sue fotografie di personaggi famosi si sovrappongono a paesaggi africani, disegni e citazioni scritte con il sangue: Warhol raccontò che Beard si tagliava e poi dipingeva con il proprio sangue.

Beard ha fotografato e documentato la morte della natura in Kenya, la scomparsa degli elefanti e di altri animali selvaggi già nel 1965, con il suo primo libro The End of Game (La fine del gioco).

La distruzione di una delle più importanti aree naturali del mondo continua ad essere il cruccio insanabile dell’artista, che dice: “La gente pensa che sei un piagnucolone se lo dici, ma la velocità con cui distruggiamo la natura è impressionante, e ci adattiamo al danno che causa con furbizia incredibile”.

La pessimistica visione sul futuro del nostro pianeta è ossessivamente espressa da Beard con il suo lavoro, un’opera eccentrica che trascende tutti i generi. Anno dopo anno i suoi diari si sono moltiplicati, volumi imbottiti con ogni sorta di “souvenir” della sua vita: carte di caramelle, chiavi, bottoni, piume, foglie secche, ossa, sassi, lische di pesce, una varietà infinita di elementi, quell’accumulo accidentale che è la vita di Peter Beard.

 


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