Goas al Ludu era un piccolo insediamento rurale della Bretagna francese, dove le giornate scorrevano all’insegna dell’agricoltura e delle risate dei bambini. In una fattoria, “un podere isolato, sperduto tra le ginestre, […] un angolo selvaggio senza nulla che disturbi il silenzio”, come la descrisse uno dei tanti giornali dell’epoca che s’interessarono alla notizia, abitavano i Picard: marito, moglie e nove figli. Erano una famiglia tranquilla, che coltivava i campi e allevava il bestiame, ma il 6 aprile del 1922 un fulmine a ciel sereno si abbatté su di loro e li rese testimoni e protagonisti di un inquietante evento di cronaca nera.
Il caso godette di un’impressionante risonanza mediatica e raggiunse anche la redazione del New York Times. Fra dubbi e teorie, dalla Francia agli Stati Uniti, tutti si domandavano:
Cos’è successo a Pauline Picard?
Il 6 aprile i piccoli Picard erano fuori a giocare, quando, all’approssimarsi dell’ora di cena, la madre li chiamò a raccolta e si accorse che all’appello mancava Pauline, di soli due anni. Il padre l’aveva vista gironzolare nei dintorni verso le 16:20, dopodiché sembrava sparita nel nulla. Un gruppo di 150 persone, composto da volontari e poliziotti, cominciò le ricerche, ma il compito si dimostrò più arduo del previsto. Al calare del sole, infatti, una violenta tempesta offuscò il cielo di Goas al Ludu e non fu possibile rivelare alcuna impronta.
Gli investigatori continuarono a far setacciare giorno e notte la zona boschiva e, al contempo, provarono a venire a capo della vicenda. Escludendo l’ipotesi di un rapimento degli zingari, l’attenzione si focalizzò su un bracciante di nome Keramon, che, già noto alle forze dell’ordine per il suo passato criminale, svolgeva dei lavoretti occasionali per i Picard. Stando ad alcune testimonianze era solito parlare con Pauline e, di tanto in tanto, regalarle qualche caramella. Lo sceriffo locale seppe che il sospettato si trovava alla fattoria quel fatidico 6 aprile e ordinò la caccia al potenziale assassino. Rintracciò Keramon il 9 aprile e quando lo interrogò, l’uomo asserì di esser stato impegnato per motivi di lavoro a circa quattro miglia da Goas al Ludu. Non appena l’alibi fu confermato, la polizia tornò a brancolare nel buio.
L’unica spiegazione plausibile era che, allontanatasi nei boschi, la piccola si fosse semplicemente persa, rimanendo vittima di qualche incidente o cadendo preda di volpi, cinghiali o lupi. Il condizionale era d’obbligo e sul finire di aprile, morta o viva, di Pauline Picard non vi era alcuna traccia.
La fase di stallo durò poco e dalla Normandia giunse una notizia inaspettata. L’8 maggio un poliziotto aveva trovato una bambina bionda dagli occhi azzurri che vagava in stato confusionale per i vicoli di Cherbourg e, poiché l’aspetto combaciava con la descrizione di Pauline, l’aveva presa in custodia per scattarle una fotografia da trasmettere ai colleghi di Goas al Ludu.
I capelli, gli occhi, il viso… I Picard non ebbero alcun dubbio:
La bambina era Pauline
Confermarono il riconoscimento e viaggiarono in treno fino a Cherbourg, ma, quando la strinse fra le sue braccia, la signora Picard si rese contro che la figlia sembrava non riconoscere né lei, né il padre. Provarono a rassicurarla, a chiederle cosa fosse successo: nessuna risposta. Ebbero, addirittura, l’impressione che non comprendesse nemmeno il dialetto bretone. Pauline era stata ritrovata a circa 300 miglia da casa; era malnutrita, taciturna e indossava un vestito diverso da quello del giorno della scomparsa, ma, scongiurata la tragedia, tutte le domande passarono in secondo piano e, ricongiuntisi con la figlia, i Picard fecero ritorno al villaggio l’11 maggio, fiduciosi di lasciarsi tutto alle spalle. Nel frattempo, le autorità di Cherbourg e Goas al Ludu continuarono le indagini.
Com’era arrivata in Normandia?
Considerando i misteri e gli elementi approssimativi a disposizione degli investigatori di entrambe le città coinvolte, il caso sembrava destinato a cadere nel dimenticatoio.
A Goas al Ludu i Picard dovettero far fronte alle conseguenze della misteriosa disavventura della figlia. Pauline parve soffrire di un disturbo da stress post traumatico, che ne inibì la capacità di memoria e ne alterò il carattere. Qualsiasi cosa le fosse successo o le avessero fatto, non era più la bambina estroversa, allegra e sorridente di prima, ma si aggirava spaesata per la fattoria, continuava a non parlare e a non capire la lingua dei genitori. Col passare dei giorni, le sue condizioni migliorarono e, incoraggiata dall’affetto di parenti e compaesani, timidamente, riuscì a pronunciare qualche parola in bretone, oltre che a ritrovare familiarità con l’ambiente domestico.
Una mattina si presentò un vicino, Yves Martin. In molti avevano fatto visita ai Picard per sincerarsi delle condizioni di Pauline, ma l’incontro con Yves assunse una piega agghiacciante. L’uomo chiese ai coniugi se fossero sicuri di aver ritrovato Pauline e, udendo la risposta affermativa, esclamò:
Che Dio mi aiuti, sono colpevole!
Quelle parole tanto ambigue lasciarono di stucco i Picard e Yves cappò via senza fornire alcuna spiegazione. Le autorità raggiunsero la sua abitazione per interrogarlo, ma le sue risposte si dimostrarono una serie sconclusionata di vaneggiamenti e gli agenti lo giudicarono semplicemente pazzo. Fu rinchiuso in manicomio nel giro di qualche giorno e di lui non si ebbero più notizie.
Il grottesco episodio passò quasi inosservato, ma, a poco meno di un mese dal ritrovamento di Pauline, tutti i quesiti accantonati in precedenza tornarono in auge a causa di un nuovo, inquietante risvolto. La mattina del 26 maggio un contadino s’imbatté in un cadavere, nascosto maldestramente con rami e foglie a circa 900 metri dalla fattoria dei Picard. Il corpo, che si rivelò appartenere a una bambina, era nudo, senza mani, piedi e testa, in stato di decomposizione avanzata, con accanto una cranio dal volto sfigurato e un abito ben piegato. La signora Picard giunse sul posto e riconobbe il vestito indossato da Pauline il giorno della scomparsa. Il mistero s’infittì. Considerando che le ricerche svoltesi ad aprile erano state attente e minuziose, gli inquirenti avanzarono l’ipotesi di uno spostamento recente. Inoltre, il lembo di terra in questione era sotto gli occhi di tutti e parve inverosimile che nessuno avesse notato dei resti umani.
L’elemento, che, però, sconcertò maggiormente gli inquirenti, fu la testa mozzata. Studiandone le dimensioni, si appurò che apparteneva a uomo adulto e non a una bambina di due anni, ma i morsi degli animali avevano dilaniato il volto e fu impossibile risalire all’identità della seconda vittima.
Le indagini fugarono immediatamente l’ipotesi che vedeva Pauline aggredita da qualche animale dopo essersi persa nei boschi: le parti preferite dai predatori, il busto e lo stomaco, erano intatte. La parola passò all’autopsia. I medici evidenziarono una serie di ferite da taglio, di cui una all’altezza della gabbia toracica e una all’altezza dell’inguine, e constatarono che lo stomaco della bambina era vuoto. Le nuove scoperte si prestavano a diverse interpretazioni e, anziché facilitare la risoluzione del caso, ne ingarbugliarono ancora di più la matassa. Le lesioni erano attribuibili sia a una lama sia agli artigli di un felino e l’assenza di cibo lasciava ipotizzare che Pauline potesse esser morta di fame e di stenti dopo aver vagato nel bosco, oppure che i rapitori non le avessero permesso di nutrirsi. Dovendo lavorare su di un corpo orribilmente martoriato, il responso dell’autopsia fu inconcludente. Omicidio o semplice incidente, qualcuno l’aveva spogliata, mutilata e spostata, lasciandone gli abiti accanto.
Associare un nome all’uomo del cranio era infattibile, tanto quanto ricostruire le sorti di Pauline, e l’unico vero sospettato, l’enigmatico Yves Martin, risultò irrintracciabile. Successivamente, si scoprì che l’uomo soffriva di un grave handicap dovuto a un incidente sul lavoro, pertanto gli inquirenti ritennero plausibile che i suoi fossero davvero solo dei vaneggiamenti.
In quei giorni frenetici d’inchieste, teorie e dolore, l’unica certezza era che, raggiunto dalle voci del miracoloso ritrovamento a Cherbourg, il presunto omicida, o un eventuale complice, aveva deciso d’interrompere le illusioni dei Picard.
La fantasia dei giornalisti si scatenò e, a tratti, rasentò il complottismo. Ad esempio, un quotidiano bretone puntò il dito contro il signor Picard, che, descritto come un uomo incline alla violenza, avrebbe brutalmente ucciso la figlia in un raptus di follia, sfruttando, in secondo luogo, il pretesto del ritrovamento della bambina di Cherbourg per coprire l’omicidio con la complicità della moglie. Ancora più stravagante fu la teoria che vide coinvolta un’ignota famiglia agiata francese, accusata di aver comprato Pauline per sostituirla alla loro figlia defunta. Finalizzato lo scambio, i Picard si sarebbero, poi, serviti del cadavere di un’altra bambina per giustificare l’improvvisa sparizione della piccola.
Mentre speculazioni d’ogni sorta fioccavano, la polizia era ancora alle prese con quell’enorme rompicapo, che vide l’aggiunta di un nuovo enigma:
Chi era la finta Pauline?
Nessun disturbo da stress post traumatico; la bambina di Cherbourg, il cui eco degli eventi le valse la nomea di doppelgänger (tradotto letteralmente: doppio viandante), semplicemente, non era la figlia dei Picard. Eppure, parenti e abitanti di Goas al Ludu non avevano nutrito alcun dubbio sulla sua identità. A noi posteri sorgerebbe una domanda:
Erano davvero identiche? O la speranza accentuò una presunta somiglianza?
Stando alle indagini delle autorità normanne, nessuno l’aveva mai vista e sembrava comparsa dal nulla. Perché una bambina di due anni, malnutrita e disorientata, vagava per i vicoli della città? Per qualcuno, la risposta contraddiceva tutte le altre teorie:
Era lei la vera Pauline
Vista l’impossibilità di ricostruire i retroscena dello scambio d’identità, il caso fu archiviato con più dubbi che certezze. Quanto alla finta Pauline, dopo il funerale della figlia, i Picard l’affidarono a un orfanotrofio, nella speranza che la sua vera famiglia la reclamasse. La piccola continuò a esternare un carattere introverso, perpetuò il mutismo che aveva contraddistinto il suo soggiorno a Goas al Ludu e, infine, si ammalò di morbillo per poi morire nel giro di poco tempo.
All’alba del XX secolo la scienza forense era ancora agli albori e, indubbiamente, le indagini sul DNA avrebbero fornito numerose risposte, ma, per quanto ci riguarda, sono passati quasi 100 anni da quel tragico 6 aprile e tutt’oggi, il mistero di Pauline Picard e della bambina di Cherbourg resta un caso di cronaca nera irrisolto, uno dei più inspiegabili dell’inizio ‘900.