Pauline Boty: l’unica artista donna della Pop-Art inglese oggi dimenticata

Essere artisti, artisti veri, è sempre stato difficile. Per quell’uno su mille che ce la fa, a essere ottimisti, ce ne sono altri 999 destinati, nel migliore dei casi, a una vita grigia con un piccolo seguito di parenti e amici, e il resto dell’umanità che li ignora del tutto o li considera dei dilettanti allo sbaraglio. 

Nella società capitalista poi, l’arte è una merce di consumo come tante altre, che si produce a comando secondo le richieste del mercato. Alcuni campi, come la musica o il cinema, sono invasi da prodotti che, anche quando sono realizzati in modo professionale, sembrano fatti in serie a chiunque se ne intenda appena un poco. A distanza di decenni capita che qualcuno di questi prodotti di consumo sia rivalutato, che vi si scopra all’interno una scintilla di genio originale: ma non succede molto spesso e, in genere, si finisce per guardare con nostalgia ai prodotti del passato solo perché si ha la sensazione che quelli nuovi siano ancora più banali e stereotipati. 

Una cosa certa è che quasi tutti i grandi artisti hanno dovuto impegnarsi parecchio per emergere, eppure tutto il loro talento e tutto il loro impegno non sarebbe bastato se non ci fossero state anche le circostanze a favorirli. Le stesse circostanze che possono portare poi un artista e la sua opera a essere rapidamente dimenticati, in attesa di una riscoperta che forse arriverà o forse no, ma in genere arriva postuma, quando l’artista non ha più la possibilità di goderne i frutti.

Tanto più se è un artista prematuramente defunto, caso tutt’altro che raro.

Un capitolo a parte poi, è quello delle donne artiste che hanno dovuto affermarsi in campi tradizionalmente riservati agli uomini. Senza nessun particolare sessismo o discriminazione, solo perché il pubblico li ha sempre percepiti così. Pensiamo a quante poche registe cinematografiche conosciamo, e soprattutto al fatto che la maggior parte di esse sono attive solo da pochi decenni.

Lo stesso vale per le pittrici: anche la più arrabbiata femminista, quante ne conosce, se non si occupa professionalmente di arte? Frida Kahlo, ok, dopo il film con Salma Hayek. Artemisia Gentileschi, per la faccenda dello stupro e del processo. Chi è stata a Parigi magari riconosce Mary Cassatt e Berthe Morisot, le impressioniste. Se ha letto “Il Maestro e Margherita” nell’edizione Einaudi degli anni ’70, forse le è familiare Zinaida Serebriakova, perché c’era un suo quadro in copertina. Probabilmente molte hanno visto Esther Kenworthy nei quadri del marito John William Waterhouse, per il quale fece a lungo da modella, ma non sanno che dipingeva anche lei e con notevole successo. E le altre? Possibile che ce ne siano state così poche? Quante conoscono Sofonisba Anguissola, Winifred Knights, Gwen John, Anna Bilinska, Paula Modersohn, Angelica Kaufmann, Natalia Goncharova, tanto per citarne qualcuna a caso? Eppure stiamo parlando di pittrici davvero importanti. 

Quindi non c’è da sorprendersi che in Italia quasi nessuno conosca Pauline Boty, artista inglese importante e sfortunata, fondatrice ed esponente di punta della Pop Art inglese, ma purtroppo attiva solo per pochi anni, ai quali è seguito un lunghissimo oblio, che forse è terminato nello scorso decennio, ma ancora non si può dire con certezza, perché a livello internazionale la sua fama sembra limitata ai Paesi anglofoni.

Pauline Boty

Immagine via Wikipedia – Giusto Uso

Pauline Boty, londinese di Croydon, nata il 6 marzo 1938, cresce in quella media borghesia che, parafrasando Claudio Lolli, “di disgrazie può averne tante, per esempio una figlia artista”. E infatti il padre non è che guardi alle sue inclinazioni con particolare simpatia. Ma la madre, che in gioventù avrebbe voluto frequentare una scuola d’arte e non ha potuto perché i genitori non glielo hanno permesso, è abbastanza lungimirante da incoraggiarla e sostenerla, quindi Pauline segue un percorso formativo di ottimo livello, conseguendo qualifiche professionali in litografia e in design in vetro colorato, prima di completare gli studi al prestigioso Royal College of Art nel 1961. 

A Wimbledon, dove ha studiato litografia e design in vetro colorato, si è fatta conoscere anche per la sua avvenenza fisica, al punto che i compagni l’hanno soprannominata “the Wimbledon Bardot”, in virtù di una vaga rassomiglianza con la celebre attrice francese.

Nel periodo in cui Pauline lo frequenta, il Royal College of Art ospita pochissime studentesse. Malgrado ciò, lei riesce sempre a emergere. Le sue opere sono ospitate nelle principali mostre che fanno conoscere agli appassionati del Paese le nuove tendenze artistiche, come “Modern Stained Glass” o “Young Contemporaries”. 

Tra i suoi compagni di corso (e amici) c’è tutto quello che poi diventerà il Gotha dell’arte britannica nei decenni successivi: David Hockney, Peter Phillips, Derek Boshier, Peter Blake…

In realtà, Pauline è un’artista polivalente, capace di riuscire in diverse discipline. Non ha mai paura di rimettersi in gioco. Con la bellezza fisica che si ritrova non è difficile essere ingaggiata come cantante, ballerina, attrice in spettacoli studenteschi: ma non è altrettanto scontato che le sue prestazioni in questi campi attirino l’attenzione di impresari professionisti. Le riviste studentesche le danno anche la possibilità di esprimersi come autrice di testi poetici e in prosa. 

A tempo perso, insieme ad altri studenti d’arte che lavorano il vetro colorato e che quindi sono spesso chiamati a decorare facciate di palazzi, dà vita alla Anti-Ugly Action, un movimento di contestazione delle nuove tendenze dell’architettura inglese.

Il suo tutor di Wimbledon, Charles Carey, l’aveva molto incoraggiata a esplorare le tecniche del collage e, alla prima mostra collettiva cui partecipa dopo essere uscita dal Royal College of Art, si presenta appunto con venti collage ispirati ai più svariati soggetti, che vanno da Superman alla scrittrice Gertrude Stein.

Nel 1962 è uno dei quattro artisti emergenti (gli altri sono Phillips, Boshier e Blake) che vengono presentati in un documentario della BBC realizzato dal regista Ken Russell.

È un periodo di successi, ma anche di chiaroscuri. Lei vorrebbe solo dipingere ma, anche se le sue opere hanno successo, i guadagni non le permettono di essere indipendente. Finisce per accettare le offerte degli impresari e si ritrova in scena a ballare, cantare e recitare, soprattutto in teatro, ma anche in televisione, in un telefilm ispirato ai romanzi di Georges Simenon con il commissario Maigret. Questo significa che per il grande pubblico, fomentato dalle banalità della stampa popolare, sarà soprattutto una starlet capricciosa con la stravaganza di realizzare opere artistiche. 

Invece Pauline esprime, nei suoi quadri, un punto di vista femminile che forse la società non è abbastanza matura per apprezzare. Realizza opere su quelle che considera i suoi modelli di bellezza femminile (Monica Vitti e Marilyn Monroe) ma dipinge anche come sex symbol gli uomini che le piacciono di più: Elvis Presley, Jean-Paul Belmondo, lo scrittore Derek Marlowe. Dedica un originalissimo ritratto a un’amica, la creatrice di moda Celia Birthwell, raffigurandola circondata dai suoi quadri preferiti (opere di Hockney e Blake) e da un poster di Elvis. 

Dal 1962, lavora stabilmente nella BBC come conduttrice di programmi radiofonici e televisivi. Ha un lungo legame con l’attore e regista Philip Saville, che però è un infaticabile tombeur de femmes e non sembra il tipo adatto per una relazione stabile.

Nel giugno del 1963 incontra un vulcanico intellettuale, Clive Goodwin, attore, impresario teatrale e poi agente letterario nato nel 1932; tra i due scocca un imprevedibile colpo di fulmine e dopo 10 giorni si sposano. Rumors non confermati sostengono che la loro storia abbia ispirato Frederic Raphael (scrittore e sceneggiatore prediletto di Stanley Kubrick) che ne avrebbe ricavato la sceneggiatura del film “Darling”, diretto da John Schlesinger nel 1965 e vincitore di 5 Oscar, compreso uno a Raphael e uno alla protagonista Julie Christie.

Il sodalizio con Goodwin porta Pauline a introdurre concetti più marcatamente politici nelle sue opere (l’assassinio di JFK, la guerra del Vietnam, ecc). La casa della coppia diventa presto un ritrovo di artisti, a volte da essi espressamente invitati e ospitati, come Bob Dylan nel suo primo soggiorno inglese. Anche su questo fatto esiste una diceria, quella per cui Dylan avrebbe scritto la canzone “Liverpool Gal” ispirandosi a Pauline. 

La sua fama televisiva la porta anche al cinema, con un brevissimo ma suggestivo e indimenticabile ruolo nel film “Alfie” di Lewis Gilbert, accanto a Michael Caine.

Ma, a quel punto, il Destino ha già deciso che Pauline, come Roy Batty di “Blade Runner” è una candela che ha fatto tanta luce perché ha bruciato da entrambe le estremità.

Nell’estate del 1965 resta incinta e si sottopone agli esami di rito, dai quali emergono alcune anomalie. Esami più approfonditi evidenziano la presenza di un timoma, un raro tumore maligno del timo, una ghiandola endocrina posta nel mediastino (lo spazio tra i polmoni nel torace). La malattia è già a uno stadio piuttosto avanzato e l’unica speranza sarebbe un intervento terapeutico drastico di rimozione chirurgica e massiccia chemioterapia: ma, prima di sottoporsi a questo protocollo, Pauline deve abortire. 

Pauline, invece, rifiuta l’aborto, rifiuta le cure palliative per non danneggiare il feto e si limita a fumare cannabis per alleviare la sofferenza. Finché può, rimane attiva e, anche dopo la nascita della figlia Kathy, il 12 febbraio 1966, la tiene accanto e si sforza di occuparsi di lei, perfino quando è ricoverata in ospedale. Ma la malattia ha preso il sopravvento e la conduce alla morte il 1° luglio dello stesso anno, al Royal Marsden Hospital. 

Ci vuole poco a dimenticarla. Era più nota per la sua attività in tv e in radio e, ora che non c’è più, altre prendono il suo posto. Il marito Clive continua da solo la sua vita da intellettuale impegnato, sfinendosi nell’organizzazione di attività culturali che raramente si concretizzano, finché il 16 novembre 1977, durante un viaggio di lavoro in cui deve incontrare Warren Beatty, ha un’emorragia cerebrale a Los Angeles. Le circostanze sono tragiche e grottesche al tempo stesso perché, alla comparsa dei primi sintomi, i presenti lo scambiano per ubriaco e chiamano la polizia, che lo arresta e lo porta in cella invece che in ospedale. Clive muore prima che l’equivoco venga chiarito. 

I quadri di Pauline interessano sempre meno il pubblico, non si vendono più ora che non c’è più la sua fama a renderli appetibili e finiscono accatastati in un fienile di campagna di proprietà di uno dei suoi fratelli. Solo nel 1986, un giovane critico d’arte, David Alan Mellor, che ha sempre avuto una passione per lei, riesce a contattare la figlia Kathy, che lo conduce al fienile in cui i quadri sono custoditi. Nonostante il lungo periodo di abbandono, sono ancora in buone condizioni. 

Mellor li ripropone quindi in una mostra di successo, “Art in 60s London” del 1993. Tra i visitatori, c’è una studentessa di Arte destinata a diventare docente universitaria, Sue Tate, e anche per lei l’opera di Pauline Boty è una folgorazione: è appena uscita da una mostra ancora più importante, l’enorme retrospettiva della Royal Academy sulla Pop Art inglese, e ha contato una sola opera di mano femminile su 202 esposte. 

Mellor e la Tate, negli anni successivi, riportano alla luce, catalogano e propongono in mostre e pubblicazioni le opere di Pauline Boty, fino a restituirle il posto che merita nella storia dell’Arte moderna.

Di questo lavoro, purtroppo, la figlia dell’artista vedrà solo l’inizio. Kathy Goodwin (che tutti chiamano Boty Goodwin), oppressa dal peso delle figure dei genitori, vuole diventare anche lei un’artista come la madre, ma il suo percorso di formazione è più lungo e accidentato, perché purtroppo la ragazza fa uso di droghe fin dall’adolescenza. Ha quasi 30 anni quando finalmente si laurea, al California Insitute of Arts, l’11 novembre 1995. La notte successiva assume eroina a una festa e il mattino seguente viene ritrovata morta di overdose nel suo letto. 

Roberto Cocchis

Barese di nascita, napoletano di adozione, 54 anni tutti in giro per l'Italia inseguendo le occasioni di lavoro, oggi vivo in provincia di Caserta e insegno Scienze nei licei. Nel frattempo, ho avuto un figlio, raccolto una biblioteca di oltre 10.000 volumi e coltivato due passioni, per la musica e per la fotografia. Nei miei primi 40 anni ho letto molto e scritto poco, ma adesso sto scoprendo il gusto di scrivere. Fino ad oggi ho pubblicato un'antologia di racconti (“Il giardino sommerso”) e un romanzo (“A qualunque costo”), entrambi con Lettere Animate.