Oreste Nannetti: l’Art Brut del più Famoso internato in un Ospedale Psichiatrico

Due graffiti di 180 metri per 2 e di 102 metri per 20 centimetri, incisi con la punta metallica della fibbia di una divisa da internato, abbracciano le pareti e il passamano della scala dell’ex ospedale psichiatrico di Volterra. Sono questi gli stupefacenti numeri di colui che forse fu uno dei maggiori esponenti dell’Art Brut in Italia nel Novecento:

Oreste Fernando Nannetti

L’Art Brut, traducibile in “Arte grezza” in italiano, fu una definizione coniata nel 1945 dal pittore francese Jean Dubuffet, atta ad indicare una produzione artistica che deroga dalle norme estetiche convenzionali e viene eseguita da autodidatti, da internati, da pazienti psichiatrici o, in genere, da individui dotati di talento ma completamente a digiuno di tecnica artistica. Ne è un esempio il Postino che, a fine ‘800, costruì Le Palais Ideal, un castello di sassi ammirato anche da Picasso.

Una vita travagliata e triste come poche, quella di Oreste Nannetti: nato a Roma alla fine degli anni Venti, figlio di padre ignoto, a soli sette anni fu affidato ad un’opera di carità, e a dieci ricoverato in una struttura per persone affette da problemi psichici. Dopo una lunga degenza ospedaliera per una grave forma di artrite degenerativa, nel 1948 fu processato per oltraggio a pubblico ufficiale e fu contestualmente giudicato incapace di intendere e di volere, finendo in vari nosocomi della capitale fino alla definitiva collocazione nell’ospedale psichiatrico di Volterra (oggi abbandonato), in Toscana, dove visse sino alla morte.

Rinchiuso nella sezione giudiziaria dalla rigida disciplina chiamata “padiglione Ferri”, una struttura sorvegliata giorno e notte dalle guardie, le cui invalicabili mura di cinta erano protette da grate e da filo spinato, l’uomo provò a guardarsi intorno.

I suoi compagni di sventura erano ammassati durante il giorno in un grande ambiente e se non giocavano a carte o a bocce o chiacchieravano, finivano spesso per litigare. Lo spazio vitale era infatti esiguo e le risse continue. Paziente solitario, Oreste non intratteneva conversazioni con gli altri pazienti, ma tuttavia comunicava, e lo faceva nell’unico modo a lui possibile, graffiando un muro.

Sotto, Dettaglio dei Graffiti, fotografia di rossodibolgheri via Flickr:

Ne venne fuori un’opera che ha dello straordinario, un gigantesco murales destinato ad ingigantirsi anno dopo anno sui muri esterni del padiglione Ferri, a dispetto delle condizioni metereologiche non sempre favorevoli, tra l’indifferenza dei pazienti e l’ostracismo degli infermieri più intransigenti.

Il graffito più grande correva lungo il padiglione dell’istituto, l’altro occupava addirittura il passamano in cemento di una scala; due cicli pensati come una sorta di narrazione per immagini, aventi per oggetto temi visionari e racconti di fantascienza incoerenti, o di complessa interpretazione.

I graffiti sono incisi con una grafia spigolosa, frutto di tutta la difficoltà del suo autore di lavorare con un attrezzo di risulta, la cui punta si consumava o si spezzava di frequente contro un intonaco facile a sgretolarsi. Aldo Trafeli, l’infermiere che osservò per anni Oreste graffiare gli intonaci, ne fu talmente colpito, che dedicò poi la sua vita ad interpretarne gli scritti. Dobbiamo a lui la traduzione dei testi, che ci appaiono spesso sconnessi o oscuri:

Scrive l’artista:

Io sono un astronautico ingegnere minerario nel sistema mentale

Il vetro le lamiere i metalli il legno le ossa dell’essere umano e animale e l’occhio e lo spirito si controllano attraverso il riflessivo fascio magnetico catotico

Grafico metrico mobile della mortalità ospedaliera 10% per radiazioni magnetiche teletrasmesse 40% per malattie varie trasmesse o provocate 50% per odi e rancori personali provocati o trasmessi

Fonte Wikipedia

Aldo Trafeli ricorderà poi che l’uomo pensava solo ai suoi graffiti, completamente assorbito in essi. Era impossibile interromperlo. Nel suo ciclo di murales, Oreste scriveva di poter comunicare telepaticamente con gli alieni, descritti come “alti, spinacei, naso ad Y” e narrava della loro conquista di mondi ignoti tramite il ricorso ad armi ipertecnologiche.

Rinchiuso per anni in un reparto senza mai ricevere la visita di familiari o di conoscenti, Oreste vergava lettere su lettere a parenti immaginari per combattere la solitudine divorante, firmandosi come Nof, Nanof, oppure Nof4, acronimi – come spiegò personalmente – di “Nannetti Oreste Ferdinando” o di “Nucleare Orientale Francese” o ancora di “Nazioni Orientali Francesi”, mentre il “4” si riferiva al numero di matricola ricevuto all’ingresso nel manicomio.

Il desiderio di avere una famiglia cui appartenere si traduceva in interminabili, immaginari alberi genealogici graffiati sugli intonaci, di cui facevano parte persino fantasmi: “I fantasmi sono fulmidabbili” scriveva, forse divertito, forse con un gioco di parole.

Il termine “morte” è uno dei più ricorrenti nei suoi graffiti. “La morte deve suonare novantanove volte” osservava amaramente, forse influenzato in questo dai continui decessi dei suoi compagni.

Quando la morte rapì anche Oreste, nel 1994, l’uomo aveva vissuto gran parte della sua vita da internato. Un infelice percorso snodatosi dal 1959 al 1961 nella sezione giudiziaria “Ferri” del complesso volterriano, dal 1961 al 1967 nella sezione civile “Charcot” del manicomio, per poi tornare al “Ferri” fino al 1968, affidato alternativamente alle due strutture fino alla dimissione. Nel 1973 era poi stato assegnato all’Istituto Bianchi e, come molti altri ex-pazienti, era vissuto a Volterra fino alla fine, a seguito dell’approvazione della Legge Basaglia che, come è noto, abolì gli ospedali psichiatrici nel 1978.

I murales di Oreste conobbero la fama dopo il 1978, quando il mondo scoprì il suo modo personalissimo di evadere dalla realtà di privazione e di sofferenza del manicomio, lanciando un messaggio disperato che, benché oscuro e misterioso talvolta, era capace di commuovere profondamente per la sua umanità. Un’umanità dolente ed avvilita che non aveva tuttavia perso il desiderio di libertà, che l’arte traduce e consegna idealmente all’esterno, abbattendo le barriere dell’ospedale psichiatrico.

Purtroppo oggi lo straordinario capolavoro di Oreste Nannetti, faticosamente interpretato dall’infermiere che gli fu amico, si sta deteriorando. Una ben misera fine, per questo diario murale fatto di un universo di simboli nato dall’inferno dantesco del disagio mentale, che meriterebbe di essere valorizzato, studiato e trasmesso alle future generazioni.

Di seguito, il documentario “I Graffiti della Mente” di Pier Nello Manoni ed Erika Manoni:

Dove non indicato, le fotografie sono di Daniel Santucci, pubblicate su Vanilla Magazine nell’articolo dedicato all’ospedale psichiatrico abbandonato di Volterra.

Giovanna Potenza

Giovanna Potenza è una dottoressa di ricerca specializzata in Bioetica. Ha due lauree con lode, è autrice della monografia “Bioetica di inizio vita in Gran Bretagna” (Edizioni Accademiche Italiane, 2018) e ha vinto numerosi premi di narrativa. È uno spirito curioso del mondo che ama viaggiare e scrivere e che legge avidamente libri che riguardino il Rinascimento, l’Età Vittoriana, l’Arte e l’Antiquariato. Ha una casa ricca di oggetti antichi e di collezioni insolite, tra cui quella di fums up e di bambole d’epoca “Armand Marseille”.