Mussolini interventista e la cacciata dal Partito Socialista Italiano

Quando il 28 giugno 1914 risuonarono i colpi di rivoltella di Sarajevo, Benito Mussolini era il leader di fatto del Partito socialista italiano. Da lì a quattro mesi, assunse una posizione favorevole all’intervento dell’Italia nella guerra europea, andando incontro all’espulsione dal partito, che sosteneva la neutralità “assoluta”. Era il leader di un partito popolare, idolo della gioventù rivoluzionaria, riferimento di componenti della sinistra rivoluzionaria esterne al PSI, apprezzato anche in ambienti non socialisti come quelli borghesi della «Voce» di Prezzolini; aveva davanti a sé la segreteria del partito, il parlamento, tutto questo a trentuno anni, e rischiò tutto per una nuova e incerta avventura politica. Quali i motivi di un revirement così rapido e radicale, quali le circostanze e gli eventi che lo accompagnarono?

Dalle influenze paterne alle esperienze politiche in Svizzera, dal giornalismo all’esperienza trentina, fino alla dirigenza di partito a Forlì, Mussolini aveva riempito il suo bagaglio ideologico: il determinismo storico di Marx e l’azione diretta di Sorel e dei sindacalisti rivoluzionari, l’elitismo di Pareto e la volontà di potenza di Nietzsche, sempre nella prospettiva della rivoluzione che realizzasse la “catastrofe” della società borghese liberale.

Benedetto Croce scrisse che Mussolini aveva infuso nel socialismo «un’anima nuova», il «misticismo dell’azione». Il volontarismo rendeva estraneo Mussolini al PSI del tempo, non il suo marxismo eterodosso, che in quegli anni di revisionismo marxista non era un’eccezione nel movimento socialista. Con questo eclettico apparato ideologico, di cui l’attivismo era il principio attivo, Mussolini giunse all’appuntamento con la guerra.

Il percorso politico era stato rapido, da segretario di una piccola federazione di provincia del PSI nel 1910 al congresso del partito di Milano del 1912, dove emerge come leader di spicco della frazione rivoluzionaria ed entra nella direzione nazionale, in dicembre assume la direzione dell’«Avanti!». Al congresso di Ancona del 26-29 aprile 1914 la frazione rivoluzionaria mantenne la guida del partito. Costantino Lazzari venne confermato segretario, Mussolini membro della direzione e direttore dell’«Avanti!».

La base socialista aveva premiato l’indirizzo rivoluzionario, di cui Mussolini si era reso l’interprete più intransigente. All’«Avanti!» aveva allargato le collaborazioni a esponenti di ambienti esterni al partito, di orientamento rivoluzionario, anarchici, sindacalisti rivoluzionari, persino repubblicani intransigenti. Lo scopo era la costituzione di un “blocco rosso”, l’unità delle masse proletarie in un unico grande partito rivoluzionario, un nuovo PSI, guidato da lui stesso.

La “settimana rossa” di giugno dimostrò l’insufficienza della linea rivoluzionaria. Mussolini appoggiò i moti insurrezionali antimilitaristi che agitarono il paese dal 7 al 14 giugno, guidati da altre frazioni del “blocco rosso”, i repubblicani di Nenni, i sindacalisti rivoluzionari di Filippo Corridoni, gli anarchici di Errico Malatesta. Il loro fallimento convinse tuttavia Mussolini che lo spontaneismo ribellista non era la rivoluzione. Nel partito, accanto all’opposizione dei suoi avversari riformisti, crescevano i dubbi nella sua stessa frazione rivoluzionaria. Il suo socialismo rivoluzionario sembrava senza via d’uscita. Questa parrà a Mussolini la guerra.

Allo scoppio della guerra europea ai primi di agosto 1914 il PSI assunse la posizione della «neutralità assoluta», cioè rifiuto della guerra delle borghesie nazionali anche in caso di guerra difensiva. Mussolini allineò «L’Avanti!» su questa linea fino alla metà di ottobre. Ma l’allineamento copriva la sua incertezza. Si rendeva conto che tale linea era insostenibile, una foglia di fico che mal nascondeva l’impotenza politica e l’estraniamento del partito dal momento storico. All’assemblea della sezione socialista milanese del 9 settembre definì impraticabile lo sciopero generale contro una guerra difensiva, concludendo che «se domani si verificherà l’evento nuovo, noi decideremo». Un possibilismo che già abbandonava la neutralità assoluta.

Agli osservatori più attenti non sfuggì che l’uomo si stava interrogando. Le indiscrezioni presto uscirono sulla stampa nazionale. Agli inizi di ottobre Lombardo Radice della «Voce», l’anarchico Libero Tancredi (Massimo Rocca), il compagno di lotte trentine Cesare Battisti, rivelarono sulla stampa che Mussolini si era dichiarato in conversazioni private favorevole alla guerra contro l’Austria. Le indiscrezioni erano accompagnate da accuse di doppiezza e richieste di chiarezza, piovvero lettere aperte, sollecitazioni polemiche dilagarono sulla stampa. Non c’era più tempo. Era giunto il momento di trarre il dado.

Il 18 ottobre 1914 esce sull’«Avanti!» l’articolo di Mussolini “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”. Definì la neutralità assoluta «una comoda formula, permette di non pensare e di attendere», ammise che la neutralità socialista era sempre stata «parziale, spiccatamente austrotedescofoba e francofila». La neutralità assoluta, anche in caso di guerra difensiva, doveva mettere nel conto la reazione violenta dello stato, alla quale il proletariato poteva rispondere solo con la rivoluzione, che poteva anche riuscire, ma «se gli Imperi centrali trionfanti intendessero riportare sul soglio “l’antico regime”, sareste voi dunque neutralisti “assoluti” ancora contrari a quella guerra che dovrebbe salvare la “vostra”, la nostra rivoluzione?». Chiudeva con un saggio di attivismo: «La realtà si muove e con ritmo accelerato. Abbiamo avuto il singolarissimo privilegio di vivere nell’ora più tragica della storia del mondo. Vogliamo essere gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne i protagonisti?».

La conversione di Mussolini finì al centro del dibattito politico e giornalistico. Ma, in fondo, Mussolini aveva solo posto apertamente un problema politico al PSI. La neutralità assoluta soddisfaceva le masse contrarie alla guerra, ma non proponeva alcuna alternativa, non volendo né potendo fare la rivoluzione. Il risultato era l’ininfluenza politica, la borghesia avrebbe fatto ugualmente la sua guerra, se vittoriosa sarebbe stata la sua vittoria, se persa la rivoluzione avrebbe conquistato uno stato esposto alla rappresaglia delle potenze reazionarie vittoriose. La neutralità “attiva e operante” lasciava aperte più opzioni, era un’offerta alla direzione per studiare un’uscita collettiva dal vicolo cieco. Fu «una tragica ironia della storia» – ha scritto De Felice – che Mussolini sia stato l’unico dirigente che abbia cercato di salvare il PSI da quell’isolamento che favorirà nel dopoguerra la reazione fascista da lui stesso guidata.

Mussolini non cercava la rottura con il partito. Forse era convinto di poter persuadere la direzione mettendola ancora una volta con le spalle al muro; forse sopravvalutava la sua presa sui militanti e ancor più sulle masse socialiste. La reazione fu ben altra. Nella drammatica riunione della direzione del PSI del 18-21 ottobre 1914, la proposta di Mussolini ottenne solo il suo voto, feroci gli interventi di antichi compagni come Serrati e la Balabanoff. Mussolini si dimise seduta stante dalla direzione dell’«Avanti!». Ma non era ancora la rottura definitiva.

Fallita l’uscita collettiva dal vicolo cieco, Mussolini intraprese quella personale, pagandone alla fine il prezzo. Si fece uno spazio proprio, un nuovo giornale. «Il Popolo d’Italia», ancora con il sottotitolo di «quotidiano socialista», uscì il 15 novembre 1914. I primi finanziamenti furono forniti da Filippo Naldi, direttore del «Resto del Carlino», che trovò anche la tipografia e un primo nucleo redazionale, mentre all’agenzia di pubblicità fecero fronte alcuni grandi industriali interventisti convinti dal Naldi. Solo più tardi, nella primavera del ’15, per fronteggiare difficoltà finanziarie del giornale, giunsero i finanziamenti stranieri, dai partiti socialisti francese e belga, poi dal governo francese, di cui i socialisti facevano parte, interessato all’intervento dell’Italia contro l’Austria.

La questione dei finanziamenti alimentò le accuse a Mussolini di “venduto” all’oro straniero e al capitalismo militarista, suggerite dall’«Avanti!» con una campagna guidata dalla martellante domanda “Chi paga?”.

Ma Mussolini non aveva cambiato idea per prendere i soldi, prese i soldi perché aveva cambiato idea

Rischiava una posizione di leader di un partito di massa, metteva in gioco una vita immedesimata con la politica. Non era il gioco lucroso di un venale opportunista.

Forse contava di mantenere la battaglia all’interno del partito, ma la scelta di un suo giornale, nella drammaticità del momento e su una questione dirimente come l’intervento in guerra, aveva il significato di una scissione. Il 24 novembre, la sezione milanese del partito chiese a grande maggioranza l’espulsione per «indegnità» di un Mussolini terreo e pallido che fronteggiò con una replica orgogliosa e persino minacciosa la rivolta tumultuosa del “suo” popolo che gli gridava “vattene, giuda!”. Il 29 la direzione ratificò la richiesta, non senza qualche dubbio di alcuni, come Zerbini e Della Seta, sopraffatti dall’intransigenza a tratti violenta di Serrati, Vella e la Balabanoff.

Furono pochi quelli che seguirono Mussolini nella nuova avventura interventista. I dirigenti rimasero nella posizione di neutralità che diverrà quella, a guerra dichiarata, del «non aderire né sabotare». Non era in realtà “comodo” opportunismo, come denunciava Mussolini. La sinistra rivoluzionaria che guidava il partito rimase paralizzata dal dilemma tra la rivoluzione impossibile e il fronte patriottico, ossia la propria negazione e di fatto dissoluzione. Fu sé stessa e scelse la coerenza identitaria, pagando il prezzo di un impotente isolamento. Le masse socialiste rimasero ostili alla guerra, di cui sapevano di dover subire i sacrifici. L’interventismo rivoluzionario rimase circoscritto alle élites.

Il cambiamento di Mussolini fu un reale mutamento di convinzioni politiche sulla spinta di nuove contingenze storiche di cui non era difficile intuire la novità radicale. Il fallimento dell’internazionalismo socialista, con i partiti europei confratelli ognun per sé, cioè per il proprio paese, lasciava il socialismo italiano solo di fronte a scelte dove tornava in gioco la “nazione”, che non si poteva ignorare. Inoltre, a settembre i sindacalisti rivoluzionari di Corridoni e De Ambris erano passati al fronte interventista, si sbriciolava quel “blocco rosso” al quale Mussolini aveva lavorato per quasi due anni, perdeva una possibile base personale autonoma. Infine, riemergeva decisiva la cifra dell’impegno politico di Mussolini, l’attivismo, che gli imponeva di stare da protagonista nella storia che offriva ora “la congiuntura rivoluzionaria”: la guerra.

La “guerra rivoluzionaria” era la motivazione dei sindacalisti rivoluzionari favorevoli all’intervento contro gli imperi centrali. Essa esercitò un forte influsso sul revirement mussoliniano. La sconfitta e la dissoluzione degli imperi centrali avrebbero tolto un sostegno internazionale alla monarchia italiana; con loro sarebbe scomparso il militarismo tedesco, la liberazione delle nazionalità oppresse avrebbe risolto i contrasti nazionali, condizione della solidarietà di classe internazionale. In breve, la guerra avrebbe spianato la strada alla rivoluzione sociale; la vittoria sarebbe stata la vittoria del “terzo esercito”, quello proletario; il proletariato in armi non le avrebbe dismesse. La guerra avrebbe maturato la coscienza di classe rivoluzionaria del proletariato, non realizzata con la propaganda e la lotta politica tradizionale, tantomeno con il parlamentarismo riformista.

Non mancavano differenze, che non potevano emergere allora, nella comune battaglia interventista. Mussolini rivalutava l’elemento nazionale in maniera permanente, non era un momento provvisorio che si sarebbe dissolto con la fine dell’ordine monarchico europeo. Il suo socialismo si muoveva già verso un problematico tentativo di sintesi con la nazione.

Mussolini va alla guerra da convinto socialista e rivoluzionario. Dopo l’espulsione, Prezzolini e i vociani gli avevano telegrafato: «Partito socialista ti espelle, Italia ti accoglie». Ma lasciato il PSI, perde l’Italia delle masse, lo accoglie l’Italia delle élites, anche borghesi e non solo proletarie: il salto irreversibile non è l’uscita dal partito, è il superamento del confine di classe, ossia l’uscita dal socialismo. Misurerà il distacco da quel proletariato che voleva portare alla rivoluzione nel modo in cui seppe della morte al fronte del compagno Corridoni, quando, sotto le armi, un commilitone gli chiese: «Sei te Mussolini?» «Sì» gli rispose «Benone, ho una buona notizia da darti: hanno ammazzato Corridoni. Gli sta bene, ci ho gusto. Crepino tutti questi interventisti!».

Fonti

R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965

Mussolini socialista, a cura di E. Gentile e S.M. Di Scala, Roma-Bari, Laterza, 2015

G. Arfè, Storia del socialismo italiano. 1892-1926, Torino, Einaudi, 1965

L. Valiani, Il Partito socialista italiano nel periodo della neutralità. 1914-1915, Milano, Feltrinelli, 1977

G. Galli, Storia del socialismo italiano. Da Turati al dopo Craxi, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007

Mussolini giornalista, a cura di R. De Felice, Milano, Rizzoli, 1995 (2001, prefazione di I. Montanelli)


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