Uno spietato inseguimento, la sete di guadagno, il cannibalismo, il rimorso e l’espiazione sembrerebbero gli ingredienti giusti per un romanzo d’avventura: ma può la realtà superare l’immaginazione e rendere gli eventi più raccapriccianti della loro trasposizione letteraria?
Talvolta sì, perché quella che mi accingo a ricostruire è la storia di una baleniera affondata nel 1820 da un capodoglio al largo dell’Oceano Pacifico e dei marinai che, scampati al naufragio, si ridussero a cibarsi dei propri compagni estraendone i nominativi a sorte.
È la storia di chi sopravvisse e non fu mai più lo stesso. È soprattutto la descrizione delle vicende che ispirarono uno dei capolavori della letteratura americana, popolarissimo anche in Italia, il romanzo Moby Dick.
La trama di “Moby Dick, o la balena” di Herman Melville del 1851 – resa attraverso la voce narrante di Ismaele, unico superstite al naufragio – verte sul disperato inseguimento di una balena bianca di eccezionali dimensioni da parte della baleniera Pequod, agli ordini dell’inflessibile capitano Achab. Quest’ultimo sembra nutrire verso la balena un odio inestinguibile e una sete di vendetta personale che risulteranno infine fatali all’intero l’equipaggio, destinato a perire a seguito dell’affondamento della nave, dopo l’ultimo, cruciale, scontro con il cetaceo.
Per comprendere meglio il contesto storico cui si fa riferimento, sarà opportuno ricordare che la caccia alla balena, ed in generale la caccia a tutti i cetacei, pratica antichissima, ebbe uno sviluppo eccezionale durante il XIX secolo, in corrispondenza del monopolio americano dell’industria ad essa connessa, tra i primi decenni dell’Ottocento e la Guerra Civile. La ragione per cui le baleniere affrontavano rischi inimmaginabili nelle vaste distese oceaniche era il prezioso grasso dei cetacei, che veniva trasformato in olio per le lampade, oppure in fragranze per l’industria profumiera, sebbene in realtà dell’animale si utilizzasse ogni singola parte, compresa la carne e i fanoni, destinati a rinforzare i corsetti femminili in voga nell’Ottocento.
Nel 1819, in Massachussets, la pesca di questi giganti del mare costituiva una delle massime forme di sostentamento della popolazione. Non stupirà, pertanto, se proprio da una delle sue isole, Nantucket, salpò il 12 agosto la baleniera Essex, agli ordini del capitano Pollard e del primo ufficiale Owen Chase, il cui diario di viaggio (divenuto successivamente un libro dal titolo “Narrazione del naufragio della Baleniera Essex di Nantucket che fu affondata da un grosso capodoglio al largo dell’Oceano Pacifico”) costituisce la fonte storica più attendibile del naufragio.
Sotto, Owen Chase:
Dopo uno scalo sulle Azzorre per rifornirsi di cibo, la Essex doppiò Capo Horn e veleggiò verso le Galapagos, iniziando definitivamente la caccia il 23 ottobre. La caccia non risultò tuttavia soddisfacente, e Pollard decise avventurarsi nel Pacifico verso rotte inesplorate, confidando in un bottino più fortunato, visto che si era ormai nel periodo riproduttivo delle balene, il che avrebbe dovuto in teoria garantirne una maggiore disponibilità e vulnerabilità.
L’avvistamento di un un branco di capodogli sembrò inizialmente premiare la temerarietà del capitano, che fece subito calare in mare tre lance all’inseguimento dei cetacei ed in particolare di un maschio di enormi dimensioni. Arpionato, il capodoglio, nel suo dimenarsi, colpì una delle imbarcazioni, provocandone l’inabissamento. Dopo alcuni momenti di calma apparente la balena riemerse, caricando stavolta violentemente per due volte di fila la Essex. Quando i marinai ripresero il controllo della situazione era ormai troppo tardi: i danni alla nave erano irreparabili, e gli uomini non poterono far altro che rifugiarsi su di una terza lancia, recuperando a stento le gallette necessarie a 30 giorni di navigazione.
Per i venti superstiti, stipati su tre scialuppe delle dimensioni di 7 metri per due, cominciò l’agonia di un viaggio alla deriva nel Pacifico, oceano calmo, ma spesso letale per la difficoltà di procurarsi cibo. I naufraghi approdarono dapprima su di un’isola disabitata ma con una vena d’acqua, nella quale si fermarono per circa una settimana. Il 26 Dicembre, dopo aver terminato le risorse dell’isola, decisero di ripartire. Sull’isola di Henderson rimasero però tre marinai, Thomas Chappel, Seth Weeks e William Wright, ormai non più in condizione di riprendere il mare, che chiesero di essere lasciati lì in attesa di soccorsi. I tre uomini furono recuperati un anno più tardi, il 9 aprile del 1821.
Sotto, l’isola di Henderson, patrimonio UNESCO, dove rimasero i tre naufraghi per un anno, oggi sotto la giurisdizione di Pitcairn Island, dove approdarono gli Ammutinati del Bounty ben 30 anni prima:
Una delle tre lance che avevano ripreso la navigazione scomparve quindi, inghiottita dagli abissi, in una notte di tempesta. Questa viene chiamata la lancia di Obed Hendricks, e fu trovata, con tre scheletri a bordo, ad est dell’isola di Henderson.
Le due restanti lance caricavano uomini stremati dalla fame e dalla sete, sferzati da un sole implacabile che conduceva al delirio. Si separarono in seguito ad un “Groppo” di vento, ed i loro destini seguirono vie diverse. Gli occupanti della lancia di Owen Chase, dopo 78 giorni di navigazione, senza nessun avvistamento di terraferma all’orizzonte, divorarono i cadaveri dei compagni morti, un estremo tentativo per la sopravvivenza.
Sulla lancia del capitano Pollard, tuttavia, venne meno anche quella temporanea forma di sostentamento, ed i naufraghi si convinsero che l’unica soluzione fosse quella di uccidere un compagno a turno, mediante un tragico sorteggio. Owen Coffin, un giovane di soli 19 anni e cugino di Pollard, primo estratto, fu la vittima designata. Venne ucciso da un marinaio di nome Ramsdell, e mangiato da Pollard e Barzillai Ray. Dopo poco morì anche Ray, che venne a propria volta divorato dai due compagni rimasti.
Sotto, Owen Coffin, mangiato dai compagni:
Quasi prossimi alla morte, i superstiti furono finalmente avvistati a circa 650 chilometri dalle coste cilene. Il 18 Febbraio, dopo 89 giorni alla deriva, furono recuperati la lancia con il primo ufficiale, Owen Chase, ed un marinaio, mentre il 23 Febbraio il capitano Pollard e un altro uomo. Ripercorrendo successivamente gli eventi di quei giorni, Chase espresse orrore e turbamento, insistendo sul fatto che quanto di disumano era accaduto era imputabile alla situazione estrema, oltre l’umanamente concepibile.
Pollard riprese il mare, dopo aver implorato un perdono, peraltro negato, ai genitori del cugino-marinaio ucciso, ma naufragò nuovamente e stavolta rinunciò per sempre alla navigazione. I due marinai superstiti non si imbarcarono mai più, mentre Chase continuò a solcare i mari fino alla vecchiaia, ma non si riprese mai davvero del tutto e concluse i propri giorni in un manicomio.
Tutti i personaggi coinvolti nel naufragio furono quindi segnati a vita dalle terribili esperienze vissute, ma il naufragio apriva anche nuovi ed inquietanti interrogativi: quali abissi possono spalancarsi nell’animo umano in condizioni estreme? Il confine tra ciò che è socialmente accettabile, o civile, o ciò che è giusto e ciò che non lo è, è un confine netto e ben delineato sotto il profilo etico, oppure può divenire un discrimine mobile, influenzato dalle circostanze, che possono far talvolta regredire l’uomo a livelli di brutalità ferina?
Il dibattito che animò la vita culturale dell’America in quegli anni era destinato ad influenzare profondamente Herman Melville, colpito anche da un altro evento risalente al 1838, l’uccisione del capodoglio albino Mocha Dick, al largo dell’isola cilena di Mocha. Mocha Dick era famosissimo fra i balenieri, un maschio bianco che sembrava impossibile da catturare, di una forza e ferocia inaudita. Quando venne ucciso, nel 1938, nel suo corpo furono trovati ancora 20 arpioni, parziale ricordo dei tentativi precedenti andati a vuoto.
Gli spunti per il romanzo, compresa un’esperienza personale di Melville su di una baleniera, erano quindi ormai tutti disponibili, ma lo scrittore seppe trasformare la finzione narrativa in molto altro, in un affresco dell’epoca moderna, in cui, tra le tante suggestioni presenti, campeggia soprattutto quella dell’inafferrabile balena inseguita da Achab, che rimanda in qualche modo all’Assoluto, che l’uomo insegue incessantemente, senza arrivare mai a conoscerlo.
Dalla tragedia dell’Essex è stato tratto un libro, Heart Of The Sea, dal quale è stato in seguito preso spunto per il colossal hollywoodiano omonimo, diretto da Ron Howard, di cui sotto trovate il trailer:
Alla Essex è anche dedicata una puntata di Ulisse – Il piacere della scoperta, del 7 Novembre 2015.