Martin Niemoller, Kurt Gerstein, Wilhelm Kube: tre modi di essere cristiani sotto il nazismo

“Prima vennero per i socialisti, e io non parlai – perché non ero un socialista.

Poi vennero per i sindacalisti, e io non parlai – perché non ero un sindacalista.

Poi vennero per gli ebrei, e io non parlai – perché non ero un ebreo.

Poi vennero per me – e non c’era più nessuno per parlare.”

Questo testo (esiste in molte versioni, e qui è riportato come nel Memoriale della Shoah di Washington D.C.) nasce in origine come un sermone pronunciato, non si sa bene quando, da un teologo tedesco, Martin Niemoller.

Martin Niemoller

Immagine di pubblico dominio

Niemoller, vissuto dal 1892 al 1984, fu deportato dai nazisti a Sachasenhausen e a Dachau, dal 1938 al 1945, e sopravvisse per miracolo. Dopo la guerra, fu un convinto assertore della lotta a tutti i totalitarismi, un attivista del movimento per il disarmo nucleare e una figura di riferimento per tutti i movimenti pacifisti.

Lo stato d’animo espresso dalle parole di Niemoller non è una geniale invenzione letteraria, ma rappresenta la situazione realmente vissuta dal teologo nel corso della sua vita. Niemoller è infatti una figura assai complessa, per molti versi ambigua. Ex militare, aveva intrapreso la carriera ecclesiastica solo a 32 anni. Ed era un filonazista pentito: uno che, inizialmente, aveva dato corda a Hitler, presentato come l’artefice di una rinascita nazionale dopo gli “abomini” dell’odiatissima Repubblica di Weimar, ed espresso perfino considerazioni che oggi appaiono fastidiosamente antisemite, anche se il suo antisemitismo non pretendeva di accampare nessuna giustificazione pseudoscientifica, tant’è vero che era stato sempre un’oppositore del famigerato “paragrafo ariano” (la clausola, prevista dalla legge tedesca fin dal XIX secolo, che permetteva di discriminare chiunque fosse di discendenza non ariana negli statuti di qualsiasi tipo di società. I nazisti non fecero altro che trasformarlo da una possibilità a un obbligo, estendendone la portata anche alle famiglie), ritenendo che gli ebrei convertiti al cristianesimo dovessero essere considerati pari agli ariani.

Questo aspetto della Shoah è stato sempre poco indagato, forse per la sua complessità, o forse perché, quando ci si muove sul piano delle convinzioni religiose, si cammina sempre su un campo minato.

Resta il fatto che Niemoller, dopo essere stato un appassionato sostenitore dell’ascesa di Hitler e l’autore di un libro autobiografico che ne esaltava l’avvento, divenuto un bestseller in Germania dopo il 1933, nel 1936 promosse una petizione a favore degli ebrei convertiti, cui aderirono molte figure di rilievo delle varie chiese protestanti. La reazione dei nazisti fu quella di arrestare, incarcerare e processare per “attività contro lo Stato” tutti i firmatari, circa 800, in gran parte ecclesiastici ed esperti di Diritto Canonico. Dal 1° luglio 1937, giorno del suo arresto, fu prima detenuto e poi deportato. Nell’aprile 1945, Niemoller e altri 140 prigionieri illustri, furono condotti al “Ridotto Alpino” dell’Alto Adige e tenuti in ostaggio da un gruppo di SS che voleva scambiarli con migliori condizioni di resa, ma era pronto a ucciderli tutti se le sue richieste non fossero state accolte. Intervenne però un reparto della Wermacht, che prese in custodia gli ostaggi e lasciò che fossero liberati dagli americani senza che fosse torto loro un capello.

Una volta liberato, Niemoller non ottenne il riconoscimento di vittima del nazismo, nonostante i 7 anni trascorsi nei lager. Lui stesso non nascose mai il suo passato e dichiarò che la prigionia era stata il punto di svolta della sua vita.

La vicenda umana di Niemoller introduce un tema molto difficile, quello dei rapporti tra nazismo e chiese cristiane. Tema particolarmente complicato, anche perché le chiese cristiane sono diverse, e spesso in conflitto tra loro su diversi articoli di fede. Nel movimento della Rosa Bianca, un gruppo di resistenza non-violenta comprendente soprattutto giovani e attivo tra il 1942 e il 1943, le divisioni tra le varie fedi furono superate, ma si tratta di un’eccezione.

I cattolici furono sicuramente i meno filo-nazisti, non solo nei Paesi occupati (dove era prevedibile la loro resistenza) ma anche nella stessa Germania. Tuttavia, i vertici della Chiesa Cattolica, in Germania, non presero mai una netta posizione contro gli abusi e i crimini dei nazisti, come è stato rimproverato loro dallo storico ebreo Guenter Lewy nel libro “I nazisti e la Chiesa” e, successivamente, dal drammaturgo Rolf Hochhut con il testo teatrale “Il vicario” (un’opera la cui prima rappresentazione in Italia, nel 1965, fu interrotta dalla polizia, e poi vietata dal prefetto per violazione del Concordato), nel quale, a essere messo sotto accusa, è direttamente il Papa Pio XII.

In “Il vicario” (che è diventato anche un film, “Amen” di Costa-Gavras, del 2002), un ruolo importante è svolto da un ufficiale nazista realmente esistito, Kurt Gerstein.

Kurt Gerstein

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E la figura di Gerstein ci riporta a Niemoller, con il quale ha in comune la matrice religiosa e culturale. Infatti Gerstein seguì lo stesso percorso spirituale di Niemoller: prima appartenente al movimento dei Deutschen Christen (Cristiani tedeschi), ossia la fazione più apertamente antisemita e filonazista tra le chiese luterane; poi, membro della Bechennende Kirche (Chiesa Confessante), il movimento dei luterani che si opponevano ai nazisti, della quale facevano parte anche personaggi che non avevano mai avuto nulla da spartire con nazismo e antisemitismo, come il teologo Dietrich Bonhoeffer, che fu anche lui deportato e ucciso a Flossenburg nel 1945.

Ma perché Hochhut fece comparire Gerstein nel suo dramma?

Kurt Gerstein, tra le tante luci e la tante ombre lasciate dal suo ricordo, sembra un personaggio uscito da un romanzo. Ma non un romanzo qualunque: perlomeno un romanzo di Dostoevskij. Basta ricordare che, dopo la guerra e la sua misteriosa scomparsa, è stato prima condannato (una condanna postuma) dal tribunale di Tubinga come nazista (nel 1950), ma è stato successivamente riabilitato (nel 1965); infine, nel 1997, è stato proposto come “Giusto tra le Nazioni” in Israele (ma l’istanza è stata rigettata). Uno storico ebreo, Saul Friedländer, gli ha dedicato un libro, “L’ambiguità del bene”, che è stato tradotto anche in Italiano.

Gerstein, nato a Münster in Westfalia nel 1905 da una famiglia di origine prussiana, era figlio di un magistrato per il quale l’obbedienza all’autorità rappresentava un articolo di fede da non mettere mai in discussione. Ricevette un’educazione piuttosto oppressiva e fu uno studente molto indisciplinato, che si diplomò solo all’età di 20 anni. Non essendo però privo di capacità, successivamente, si laureò in Ingegneria Mineraria a Berlino. Su pressioni del padre, già da studente frequentò associazioni studentesche ultranazionaliste. Sebbene la sua famiglia non fosse particolarmente incline alle pratiche religiose, negli anni universitari si dedicò alla lettura della Bibbia e si unì ai movimenti giovanili dei Deutschen Christen, diventandone esponente di primo piano, finché questi furono sciolti dai nazisti, nel 1934.

Bandiera dei cristiani tedeschi, 1932

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Le sue posizioni religiose lo portarono in contrasto con i nazisti: nel 1935, interruppe una rappresentazione teatrale del dramma epico “Wittekind”, dell’archeologo-scrittore Edmund Kiss (Wittekind, o Widukind, è stato un capotribù sassone dell’VIII secolo d.C., che si oppose alla conquista da parte di Carlo Magno ma finì per sottomettersi e convertirsi dopo una serie di sconfitte): davanti all’esplicito messaggio anticristiano contenuto nel testo, si alzò per protestare ad alta voce e venne per questo aggredito e picchiato da alcuni dei numerosi nazisti presenti.

Nel 1936, dopo essersi trasferito a Tubinga insieme alla moglie Elfriede per lavorare e, contemporaneamente, studiare per una seconda laurea in Medicina, fu addirittura arrestato con l’accusa di aver distribuito materiale propagandistico antinazista. L’intervento del padre lo fece liberare dopo 5 settimane, ma fu espulso dal partito (cui si era iscritto per trovare lavoro nel settore statale) e si trovò per questo in difficoltà economiche. Nel 1938 fu arrestato di nuovo, per 6 settimane, per la stessa ragione. Le conoscenze del padre, tuttavia, gli permisero di tornare a iscriversi al partito nel 1939.

Nel 1941, nonostante i suoi precedenti, riuscì ad arruolarsi nelle Waffen SS. Sembra che la sua decisione sia stata almeno in parte dovuta allo sconvolgimento patito in seguito all’assassinio di sua cognata, Bertha Ebeling, disabile mentale, uccisa nel centro di eliminazione di Hadamar nell’ambito del “Programma Aktion T-4” con il quale i nazisti praticarono l’eutanasia a tutti i disabili su cui riuscirono a mettere le mani (e anche a persone che soffrivano di semplici nevrosi dovute a stress o ad altre cause, come mostrato nel film tedesco “Opera senza autore” (2018) e documentato dal caso di “Mirjam P.”, una ragazza ebrea di 23 anni uccisa nel manicomio di Cholm il 27 maggio 1941, prima che cominciasse la “soluzione finale”. La sua storia si può leggere nel volume “Una sola vita”, dello storico americano Tom Lampert).

Come avrebbe scritto successivamente alla moglie, Gerstein si arruolò nelle SS per raccogliere prove delle loro malefatte. Si dichiarò infatti “un agente infiltrato della Chiesa Confessante”. Essendo un bravo ingegnere, fece presto carriera nelle unità tecniche e si trovò a lavorare alle dirette dipendenze di ceffi come Odilo Globocnik (responsabile dell’uccisione di un milione e mezzo di ebrei in Polonia, suicida nel 1945 dopo essere stato catturato dagli inglesi) e Christian Wirth (specializzato nell’eliminazione di disabili e malati, ucciso dai partigiani jugoslavi nel 1944).

Odilo Globocnik

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Si occupò di rifornire il campo di Auschwitz di gas Zyklon B, usato per gasare i prigionieri, e assistette almeno una volta all’eliminazione di un gruppo di questi, 3000 ebrei arrivati da Lvov, nel lager di Belzec, il 17 agosto 1942. Il giorno dopo si trovò a Treblinka subito dopo un’altra eliminazione di massa. In ambo i casi, gli ebrei erano stati uccisi con il monossido di carbonio prodotto dai motori dei camion.

Pochi giorni dopo, mentre viaggiava sul treno Varsavia-Berlino, si trovò accanto al barone von Otter, un importante diplomatico svedese, e gli riferì dettagliatamente tutto quanto aveva visto. Von Otter trasmise un rapporto al governo svedese, che però non diede alcun peso alle rivelazioni.

Più tardi, tramite un olandese, un certo J. H. Ubbink, conosciuto per la comune appartenenza alla Chiesa Confessante, riportò la sua testimonianza ai membri della Resistenza olandese, che riuscirono a trasmetterla in Inghilterra. Ma, anche stavolta, senza risultati.

Gerstein, che temeva per la possibilità di rappresaglie sulla moglie e sui loro suoi tre figli, fu sempre prudente nello scegliere a chi raccontare ciò che aveva visto. Ciò nonostante, riuscì a mettere al corrente dei fatti diversi altri membri della Chiesa Confessante, che li fecero conoscere in Svizzera.

Questo dettaglio apre un inquietante capitolo sull’atteggiamento delle autorità svizzere, che ne furono sicuramente informate, come testimoniato dai membri delle comunità ebraiche locali. Ma, ugualmente, gli svizzeri continuarono a respingere alla frontiera gli ebrei fuggiaschi. La scusa ufficiale, ossia che ospitare e nutrire troppi profughi non era possibile, non regge: la Svizzera, infatti, continuò per tutta la guerra ad accogliere profughi non ebrei.

Nel dramma “Il vicario”, Rolf Hochhut immagina che Gerstein sia riuscito a contattare anche un sacerdote cattolico italiano, Riccardo Fontana, e che questo porti la sua testimonianza a Pio XII. Ma il Papa non si smuove minimamente. In realtà, Gerstein riuscì a raggiungere il dottor Winter, collaboratore di monsignor Preysig, arcivescovo di Berlino, e quest’ultimo ricevette il suo rapporto.

In seguito, è stato dimostrato che, attraverso i servizi segreti di Paesi neutrali, il Vaticano era da tempo al corrente della sistematica eliminazione degli ebrei da parte dei nazisti.

Gerstein trascorse gli ultimi mesi di guerra a Berlino, in una città oppressa dal terrore per la sconfitta imminente e dalla sanguinaria paranoia dei nazisti più fanatici, una città in cui si poteva finire condannati a morte anche solo per aver ingiuriato pubblicamente Hitler, come successe ad esempio in un altro caso raccontato nel libro di Tom Lampert, quello di “Wilhelm H.”, un pensionato di 74 anni ghigliottinato il 10 maggio 1943, dopo essere stato sorpreso a scrivere una frase offensiva contro Hitler sul muro interno di una latrina pubblica. Gerstein temeva di aver parlato con troppa gente e che prima o poi sarebbe arrivato il suo turno, ma se la cavò. Nel marzo del 1945 tornò dalla moglie a Tubinga. Fu poi costretto ad allontanarsi da casa quando seppe che a Berlino lo cercavano. Tuttavia, quando seppe che Tubinga era stata occupata dagli alleati, vi ritornò e si consegnò al comandante del contingente francese, che lo fece trasferire a Rottweil. Qui, Gerstein incontrò due ufficiali, l’americano Haught e l’inglese Evans, cui consegnò delle copie del dossier che aveva messo insieme sulle atrocità commesse nel lager.

I fatti da lui riferiti cominciarono a diffondersi e se ne parlò anche per radio. Intanto però Gerstein fu indagato dai francesi perché sospettato di aver commesso dei crimini in Francia (dove non aveva mai prestato servizio). Dopo alcuni giri, si ritrovò prigioniero a Parigi. Da qui, finì incarcerato a Cherche-Midi, in una durissima prigione militare, dove i tedeschi erano trattati quasi come i deportati nei lager. Gerstein era tenuto isolato dagli altri e i suoi problemi di salute (soffriva da tempo di diabete) si erano aggravati. Una lettera incompiuta all’amico olandese Ubbink, ritrovata tra le sue carte, esprime una ormai stanca rassegnazione al suo destino.

Il 25 luglio 1945, Kurt Gerstein fu ritrovato morto nella sua cella. Il certificato di morte parla di suicidio per impiccagione, ma lascia molti dubbi.

Cosa accadde, invece, ai Deutschen Christen che non confluirono nella Chiesa Confessante? Un singolare esempio è offerto da un’altra storia raccontata nel libro di Tom Lampert, quella di Wilhelm Kube.

Wilhelm Kube

Bundesarchiv, Bild 183-2007-0821-500 / CC-BY-SA 3.0 – immagine condivisa via Wikipedia

Kube, nato in Slesia nel 1887, era di origini modeste ma aveva potuto studiare all’università grazie a una borsa di studio ottenuta da una fondazione filantropica ebrea. Nonostante questo, già da studente era diventato un acceso antisemita, aderente al movimento “Völkische Bewegung“, che perseguiva un ritorno a quelle che erano considerate le più importanti tradizioni tedesche, contro ogni influenza da parte di altre culture.

Precocemente attivo in politica, negli anni ’20 si mosse a cavallo tra i Deutschen Christen e i primi movimenti nazisti. Fu, anzi, uno dei più attivi promotori della nazificazione delle Chiese luterane. Diventò un pezzo grosso del partito nazista ed entrò nelle SS. Occupò anche un posto importante nel Sinodo delle Chiese Protestanti in Germania dal 1932, e la sua posizione in tal senso non fu indebolita da due scandali che lo riguardarono durante gli anni successivi.

Celebrazione del giorno di Lutero dei cristiani tedeschi – Berlino, 1933

Immagine di Bundesarchiv Bild 102-15234 – licenza CC-BY-SA 3.0 – condivisa via Wikipedia

In uno, nel 1935, si trovò sotto il tiro di Walter Buch, il suocero del gerarca Martin Bormann, che lo accusò di favoritismi e nepotismi commessi sfruttando le sue posizioni, nonché di adulterio. Tutte le accuse erano vere (dall’amante, una giovane attrice, aveva avuto anche un figlio): certamente Buch era stato messo al corrente dei fatti da delazioni anonime. Kube reagì diffondendo false notizie che accusavano Buch di essere mezzo ebreo. Un’indagine della Gestapo lo smascherò: Kube fu così rimosso da tutti gli incarichi. Dopo una ulteriore polemica con Reynhard Heydrich, dovette lasciare anche le SS.

Nello stesso anno, accusò la moglie di adulterio in modo da poterle addebitare il divorzio. Nonostante si facesse forte della testimonianza del figlio maggiore, studente in Legge, quando il giudice vide la donna, di mezza età e in cattive condizioni di salute, gli diede comunque torto, concedendogli il divorzio ma costringendolo a pagare un elevato assegno alimentare.

Per qualche anno continuò a tempestare Hitler di suppliche, per essere riammesso con una carica nel partito. L’occasione buona arrivò con la conquista della Bielorussia, nel 1941. I tedeschi pensavano di fare anche qui pulizia etnica e di installarvi delle popolazioni germaniche, dando vita allo Stato della Rutenia Bianca. La capitale, Minsk, avrebbe dovuto essere rasa al suolo per edificare sulle sue rovine una città tedesca che si sarebbe chiamata Asgard.

Kube fu nominato Generalkommissar della Rutenia Bianca e, in tale veste, partecipò all’eliminazione della comunità ebraica di Minsk. Tuttavia, subito dopo, restò allibito davanti alla violenza con cui gli Einsatzgruppen, gli Squadroni della Morte che seguivano l’esercito per fare pulizia etnica dei civili, condussero la strage di Slutsk. Qui, infatti, nella foga di trucidare ebrei, i tedeschi uccisero anche molti non ebrei, determinando l’insorgere di un forte sentimento antitedesco anche in chi in precedenza era stato antisemita e collaborazionista. Kube scrisse infatti a Berlino denunciando il fatto che azioni simili non facevano altro che rafforzare la Resistenza antitedesca.

A Minsk, Kube tenne dei comportamenti che fanno quasi pensare a una personalità schizofrenica. Vedendo un gruppo di bambini ebrei terrorizzati durante una retata nel ghetto, li calmò offrendo loro caramelle, poi però non impedì che fossero trucidati. Scrisse che non vedeva alcuna ragione per eliminare i bielorussi non ebrei: era arrivato lì convinto di trovare un popolo di slavi olivastri e unti, invece erano tutti alti e biondi come i tedeschi, sicuramente ariani. Un altro punto su cui si trovò spesso in urto con le SS fu la gestione degli ebrei di origine tedesca che aveva trovato lì perché fuggiaschi dalla Polonia o precedentemente deportati: li usava come interpreti con la popolazione, collaboravano, molti erano reduci dell’esercito tedesco che avevano combattuto nella Grande Guerra e non se la sentiva proprio di eliminarli.

A tal fine, spedì continuamente rapporti e proteste a Berlino, dove era considerato un inutile rompiscatole, e arrivò addirittura a nascondere degli ebrei nel suo palazzo e nei suoi uffici, per salvarli dall’eliminazione. Il 20 luglio 1943, approfittando del fatto che Kube era a Berlino, una squadra di SS irruppe nella sua residenza, sequestrò 70 ebrei che ufficialmente vi lavoravano e li fucilò. Al suo ritorno, Kube protestò a lungo, arrivando ad affermare che, di questo passo, la Germania si sarebbe fatta una reputazione di Paese di assassini sanguinari.

Il dottor Strauch, capo dell’unità di SS che aveva compiuto l’azione a casa di Kube, prese a inviare rapporti a Berlino in cui accusava il Generalkommissar di fare il doppio gioco e di sabotare le sue attività antipartigiane.

È probabile che Kube sarebbe stato rimosso dall’incarico, ma il destino arrivò prima dei provvedimenti. Wilhelm Kube, Generalkommissar della Rutenia Bianca, morì in seguito all’esplosione di una bomba piazzata nella sua stanza da letto, nella notte tra il 21 e il 22 settembre 1943. I nazisti, a titolo di rappresaglia, fucilarono circa 1000 civili bielorussi nei giorni successivi.

Per molto tempo si è creduto che in realtà fosse stato Strauch a far mettere la bomba nella stanza da letto di Kube. Solo dopo molto tempo si è dimostrato che l’esecutrice materiale dell’attentato fu la sua cameriera bielorussa, Yelena Mazanik, attuando un piano elaborato da un’agente segreta sovietica infiltrata nella Rutenia Bianca, Nadezhda Troyan. Anche l’artificiere che preparò la bomba, Mariya Osipova, era una donna. Tutte e tre sarebbero sopravvissute alla guerra ma la verità sull’attentato non si venne a sapere che dopo molto tempo.


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