Era il luglio del 1905; un mensile parigino, Je sais tout, pubblicò fra le sue pagine L’Arrestation d’Arsène Lupin, un racconto di Maurice Leblanc, e da allora le avventure del ladro gentiluomo divennero una costante per i lettori di inizio Novecento.

Il fenomeno andò avanti fino al 1941, anno in cui morì Leblanc, con ben diciotto romanzi, di cui alcuni postumi, cinque pièce teatrali e innumerevoli racconti. Tutti conoscevano le gesta di quel fuorilegge dal multiforme ingegno, e Leblanc lasciò in eredità al mondo una creazione letteraria che fece scuola. Basti pensare che a fine anni ‘60 il mangaka Monkey Punch si ispirò a lui per disegnare le storie di Lupin III.

Ma come nacque il mito di Arsène Lupin?
Leblanc non lo confermò mai, ma è plausibile che si ispirò a un fuorilegge realmente esistito: Marius Jacob, un anarchico francese. Oggi il suo nome è per lo più sconosciuto; eppure, a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, fece molto parlare di sé. Leblanc lo conosceva e anche Sir Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes. Gliene parlò il suo autista personale, Jules Bonnot, un altro bandito anarchico che trasudava ammirazione per Jacob da tutti i pori.

Prima di capire il perché di questa fama, è necessaria una premessa. Arsène Lupin e Marius Jacob hanno in comune l’abilità nel travestimento, l’audacia delle rapine e il modus operandi, ma le loro biografie divergono sul piano dell’estrazione sociale. Il primo, nella finzione letteraria, ha una vita agiata, fatta di sfarzi e mondanità, ma il secondo…

Non vi anticipo nulla. Torniamo indietro nel tempo, nella Francia di fine XIX secolo, e scopriamolo insieme.

Alexandre Marius Jacob nacque a Marsiglia il 29 settembre del 1879. Suo padre, Joseph, era un ex marinaio dell’Alsazia, che si era trasferito in seguito all’annessione tedesca del 1871. A Marsiglia abbandonò la vita di mare e divenne un fornaio, ma trasmise la sua passione per i viaggi al figlio. Il piccolo Marius divenne un accanito lettore di Jules Verne. In quegli anni divorò i romanzi del cosiddetto ciclo de I viaggi straordinari (Dalla terra alla Luna, Ventimila leghe sotto i mari, Il giro del mondo in 80 giorni, giusto per citarne alcuni) e si convinse che il suo destino era lontano dal bilocale senz’acqua né elettricità dove abitava.

Poco più che undicenne passò dalle parole ai fatti e si imbarcò come mozzo su una nave che lo portò fino a Sidney. In Australia si unì all’equipaggio di una baleniera, ma, in realtà, si ritrovò su un vascello pirata. In quel periodo assistette ad arrembaggi, razzie e uccisioni; tutti eventi che lo disgustarono. Nel successivo processo a suo carico, di quell’esperienza disse:
Ho visto il mondo e non è bello

Rifiutò i metodi violenti di cui fu, suo malgrado, testimone, e nel 1897 tornò a Marsiglia con delle strane febbri come souvenir. Iniziò a studiare l’oceanografia per diventare capitano di una nave, ma dovette abbandonare il proposito a causa di una salute che man mano divenne sempre più cagionevole. Si acculturò da autodidatta e si avvicinò al movimento operaio e ai circoli anarchici, dove conobbe Rose Roux, con la quale andò a convivere. In quegli anni gli anarchici erano visti con sospetto e le autorità non disdegnavano di perseguitarli. Basti pensare agli anarchici italiani Luigi Lucheni e Gaetano Bresci , assassini rispettivamente di Elisabetta d’Austria e di Re Umberto I.

In questo clima di tensione, la polizia francese arrestò Jacob con l’accusa di detenzione di materiale esplosivo. L’episodio è controverso e si pensa che fu tutta una montatura per riuscire a macchiare la sua fedina penale. E, infatti, dopo sei mesi di carcere, ebbe notevoli difficoltà a trovare lavoro: ogni volta, la polizia interveniva e rivelava ai suoi superiori i precedenti con la giustizia del ragazzo. L’esito era sempre lo stesso: il licenziamento. Si sentiva perseguitato e la vita certo non gli sorrideva. Era uno sfruttato, un uomo condannato alla fame e alla miseria. Il ricordo delle violenze a cui aveva assistito nella sua breve parentesi sui mari era ancora nitido nella sua mente e si dissociò dalla strategia terroristica di alcuni anarchici. Se i potenti volevano reprimere la sua libertà individuale, avrebbe fatto giustizia a modo suo. Non gli restò che diventare un ladro e riappropriarsi di ciò che gli altri gli avevano rubato.

Il 31 marzo del 1899, lui e tre complici si travestirono da agenti della polizia e si recarono al banco dei pegni di Marsiglia, Le Mont de Piété, per verificare la presenza di un presunto orologio rubato e rivenduto in seguito a una rapina a mano armata, ma, in realtà, per farsi beffe di chi lucrava sulla povera gente. Il titolare, monsieur Gilles, gli credette e chiuse l’esercizio per aiutarli nella catalogazione dell’inventario. Dopo circa tre ore, i banditi sequestrarono tutta la merce e portarono l’uomo al Palazzo di Giustizia, dove lo lasciarono in attesa di essere interrogato. Solo a tarda sera un vero agente fece capire a Gilles che era stato raggirato, ma ormai era troppo tardi. La notizia del furto rimbalzò da un giornale all’altro e Jacob riuscì a ridicolizzare quella stessa polizia che gli aveva impedito di trovare un lavoro onesto. Ma era solo l’inizio.

Il 3 luglio del 1899 fu arrestato a Tolone e si finse pazzo per evitare cinque anni di carcere. Scontò la pena in un istituto psichiatrico di Aix-en-Provence, dove incontrò un infermiere con simpatie anarchiche, un certo Royère, che lo fece evadere il 19 aprile del 1900. Si stabilì a Montpellier e assunse la gestione di un negozio di ferramenta intestato alla sua compagna Rose. Grazie a quell’attività ebbe modo di studiare i meccanismi delle casseforti e delle varie serrature, conoscenze che, poi, confluirono nel suo ritorno al cosiddetto “furto politico”. Creò la banda dei Travailleur de la nuit, i lavoratori della notte, e compì grandi imprese, che gli valsero l’attenzione di tutta la Francia.

Jacob si dimostrò un uomo audace, di grande ingegno, e negli anni successivi ebbe numerosi imitatori. Oltre alla sua proverbiale abilità nel travestimento, adottò stratagemmi geniali. Ad esempio, usava come “palo” per le rapine un rospo, perché aveva notato che l’anfibio era solito smettere di gracidare quando si avvicinava qualcuno. Per introdursi in degli edifici, poi, praticava un piccolo foro nel locale superiore a quello designato e vi introduceva un ombrello, che apriva e chiudeva con un sistema di funi, per raccogliere le macerie che cadevano quando allargavano il passaggio. Nessun rumore, nessun pericolo. Per rapinare un’abitazione, invece, si assicurava dell’assenza degli inquilini attaccando dei pezzi di carta sulle porte. Se il giorno successivo notava che non c’erano più, voleva dire “via libera”. Il suo era un lavoro molto metodico e studiava ogni colpo fin nei minimi particolari.

Massimo due o tre complici per volta e, soprattutto, nessuno spargimento di sangue. Non voleva che la violenza macchiasse la sua reputazione e nessun membro dei Travailleur poteva sparare, se non in caso di pericolo di vita. Jacob non era un ladro come tanti, era una sorta di Robin Hood dell’anarchia: rubava ai ricchi per dare ai poveri. La maggior parte della refurtiva la devolveva agli sfruttati e ai compagni anarchici in difficoltà; per sé teneva una parte congrua per lo sforzo. La sua attività era un’arma politica e prendeva di mira solo notabili, industriali, aristocratici, giudici o, più in generale, persone corrotte. In parole povere: tutti coloro che, secondo lui, sfruttavano e facevano morire di fame le classi operaie. Al contrario, non toccava medici, scrittori, insegnanti e chiunque svolgesse un lavoro in grado di contribuire alla società. Per Jacob la sua era una missione, un dovere verso chi, come lui, doveva sottostare ai soprusi dei privilegiati, e non mancava di ridicolizzare le vittime. Si divertiva a firmarsi come Attila e lasciare bigliettini irrisori. Ad esempio, nella notte fra il 13 e il 14 febbraio del 1901, si introdusse nella chiesa di Saint-Sever di Rouen e scrisse una particolare invettiva religiosa.
Dio dei ladri, cerca i ladri fra coloro che hanno rubato agli altri

Ma Jacob non era un semplice criminale. Era un uomo che aveva una certa istruzione e sapeva chi non toccare. Una notte si recò in una casa che credeva appartenesse a Julien Viaud, un capitano di fregata corrotto, ma si rese conto che, in realtà, vi abitava lo scrittore Pierre Loti. Rimise tutto a posto e prima di andarsene lasciò un bigliettino.
“Sono entrato in casa per sbaglio. Non posso prendere nulla da coloro che vivono della loro penna. […] P.S. Allego dieci franchi per la finestra rotta e la persiana danneggiata”.

Le azioni dei Travailleur, però, non si limitarono solo al suolo francese, ma valicarono i confini della patria e raggiunsero anche Montecarlo, l’Italia, il Belgio, la Spagna e, forse, anche l’Egitto. Svaligiarono l’abitazione della città di Spa di Maria Enrichetta d’Asburgo-Lorena, l’anziana regina dei Belgi, e sbancarono, per modo di dire, a una roulette del Principato. Jacob finse un attacco epilettico per concentrare l’attenzione su di sé e un complice arraffò tutte le puntate del tavolo.

I Travailleur operarono fra il 1900 e il 1903. In soli tre anni misero a segno circa 150 colpi, ma la notte del 21 aprile del 1903 qualcosa andò storto. Si trovavano ad Abbeville per ripulire una casa e gli agenti li raggiunsero mentre cercavano di salire su di un treno per Parigi. Seguì una sparatoria dove morì un poliziotto e gli inquirenti risalirono a Jacob. Furono arrestate prima sua madre e la sua compagna, poi lui e i suoi complici.

Per la prima volta, la Francia scoprì il geniale fondatore dei fantomatici Travailleur. Il processo ebbe luogo ad Amiens e si concluse due anni dopo. Fu un evento singolare: Jacob capì che poteva sfruttare a suo favore l’attenzione mediatica e, se così si può dire, processare lui stesso la giustizia. In aula non mancò di farsi beffe di quelle autorità che non riconosceva e quando gli chiesero perché durante un’effrazione di domicilio avesse rubato una laurea in giurisprudenza rispose: «Stavo già preparando la mia difesa». E ancora, mentre il giudice descriveva un furto con scasso, lo interruppe e disse: «Per mandare le persone in prigione o al patibolo sei competente, non lo nego. Ma quando si tratta di furto con scasso non sai nulla. Non mi insegnerai il mio mestiere».

Il momento più alto della sua insolita biografia si consumò l’8 marzo del 1905, quando prese la parola poco prima della lettura della sentenza e trasformò le sue dichiarazioni in un comizio politico. Diede prova di grande eloquenza, descrisse il perché delle sue gesta e denunciò i mali della società che aveva cercato di combattere con il furto.
«Non riconoscendo a nessuno il diritto di giudicarmi, non imploro né perdono né indulgenza. […] Inviatemi al penitenziario o al patibolo, poco m’importa. Ma prima di separarci, lasciatemi dire un’ultima parola. Avete chiamato un uomo ladro e bandito, applicate contro di lui i rigori della legge e vi domandate se poteva essere diversamente. Avete mai visto un ricco farsi rapinatore? Non ne ho mai conosciuti. Io, che non sono né ricco né proprietario, non avevo che queste braccia e un cervello per assicurare la mia conservazione, per cui ho dovuto comportarmi diversamente. La società non mi accordava che tre mezzi di esistenza: il lavoro, la mendicità e il furto. Il lavoro, al contrario di ripugnarmi, mi piace. […] Ciò che mi ripugnava era di sudare sangue e acqua per un salario, cioè di creare ricchezze delle quali sarei stato sfruttato. In una parola, mi ripugnava di consegnarmi alla prostituzione del lavoro. La mendicità è l’avvilimento, la negazione della dignità. Ogni uomo ha il diritto di godere della vita. Il diritto di vivere non si mendica, si prende. Il furto è la restituzione, la ripresa di possesso. Piuttosto di essere chiuso in un’officina come in una prigione, piuttosto di mendicare ciò a cui avevo diritto, ho preferito insorgere […], facendo la guerra ai ricchi e attaccando i loro beni. […] Non accetto la vostra pretesa morale, che impone il rispetto della proprietà come una virtù, quando i peggiori ladri sono i proprietari stessi. […] Tutti i morti di fame, tutti gli sfruttati, in una parola tutte le vostre vittime, si armeranno di un piede di porco assalendo le vostre case per riprendere le ricchezze che essi hanno creato e che voi avete rubato. […] Il popolo ha paura, voi dite. Noi lo governiamo con il terrore della repressione: se grida, lo gettiamo in prigione; se brontola, lo deportiamo; se si agita, lo ghigliottiniamo. Cattivo calcolo, signori, credetemi. Le pene che infliggerete non sono un rimedio contro gli atti della rivolta. La repressione invece di essere un rimedio, un palliativo, non fa altro che aggravare il male. […] Sapevo esattamente che la mia condotta non poteva avere altra conclusione che il penitenziario o la ghigliottina, eppure, come vedete, non è questo che mi ha impedito di agire. Se mi sono dato al furto non è per guadagno o per amore del denaro, ma per una questione di principio, di diritto. Preferisco conservare la mia libertà, la mia indipendenza, la mia dignità di uomo, invece di farmi artefice della fortuna del mio padrone. In termini più crudi, senza eufemismi, preferisco essere ladro che essere derubato. […] Anch’io condanno che un uomo s’impadronisca violentemente e con l’astuzia del furto dell’altrui lavoro. Ma è proprio per questo che ho fatto guerra ai ricchi, ladri dei beni dei poveri. Anch’io sarei felice di vivere in una società dove ogni furto sarebbe impossibile. […] L’ho impiegato soltanto come mezzo di rivolta per combattere il più iniquo di tutti i furti: la proprietà individuale. Per eliminare un effetto bisogna, preventivamente, distruggere la causa. Se esiste il furto è perché tutto appartiene solamente a qualcuno. La lotta scomparirà solo quando gli uomini metteranno in comune gioie e pene, lavori e ricchezze, quando tutto apparterrà a tutti».

Jacob scampò alla pena di morte perché l’omicidio del poliziotto non era stata opera sua, ma fu condannato ai lavori forzati a vita nelle Isole della Salvezza della Guayana francese. Vi arrivò ventiduenne il 13 gennaio del 1905. Per i primi sei mesi restò con i ferri ai piedi e i secondini lo lasciarono a pane e acqua. Gli anni passarono, ma Jacob tenne duro e la detenzione non piegò il suo spirito. Intrattenne una fitta corrispondenza epistolare con sua madre e Rose e, nel frattempo, si guadagnò la simpatia del direttore, che richiese il suo intervento per aprire una cassaforte di cui aveva perso le chiavi. Nonostante ciò, le persone incaricate di sorvegliarlo cercarono in tutti i modi di rendergli la vita impossibile.

Quando seppe della morte di Rose iniziò i suoi innumerevoli tentativi d’evasione, ben diciotto, ma tutti infruttuosi. Provò a farsi spedire una rivoltella in un barattolo di sardine, a rubare un’arma ai secondini, a costruire una zattera o assumere droghe capaci di simulare la morte per far sì che il suo cadavere venisse gettato in mare. Dopo 18 anni di prigionia la fortuna tornò a sorridergli quando il giornalista Albert Londres s’interessò al suo caso e mediò per una grazia che ottenne nel 1927.

L’anno successivo tornò in Francia, si stabilì a Reully con la madre e la sua nuova compagna Paulette e intraprese la carriera di venditore ambulante. I tempi d’oro della gioventù erano lontani, e Jacob non riprese l’attività da ladro, ma continuò a manifestare la sua fede politica e dal 1929 collaborò con il giornale Le Libertaire, diretto da Louis Lecoin.

I due divennero grandi amici e s’impegnarono in una frenetica attività di propaganda. In particolare, perorarono la causa di due compagni anarchici prossimi all’esecuzione negli Stati Uniti, Sacco e Vanzetti. Nel 1936 si recò a Barcellona per sostenere i nemici di Francisco Franco e, durante la Seconda guerra mondiale, diede asilo ai partigiani in cerca di un nascondiglio.

Gli anni ’40 furono tempi difficili. Sua madre morì nel ’41 e un cancro si portò via anche Paulette nel ’47, ma Jacob non si perse d’animo: si circondò di tutti i suoi amici e organizzò numerose iniziative per aiutare le persone meno agiate. Continuò con la sua solita vena ironica e, ad esempio, quando gli fu chiesto di pagare una tassa per il possesso del suo cane, rispose pretendendo per lui una tessera elettorale con questa motivazione: “Non ha mai mentito, non è mai stato ubriaco. Nessuno dei tuoi elettori può dire lo stesso”. Passati i settant’anni gli acciacchi della vecchiaia si accentuarono e decise per una grande uscita di scena. Il 28 agosto del 1954 organizzò una merenda a casa sua per i bambini del paese, dopodiché somministrò a sé e al suo vecchio cane una dose letale di morfina. Morirono l’uno accanto all’altro e l’evento sancì la fine di Marius Jacob, il ladro gentiluomo che, come un novello Robin Hood, rubava ai ricchi per dare ai poveri.

Com’era solito fare quando si introduceva nelle dimore di chi, a suo giudizio, sfruttava il popolo e viveva del lavoro altrui, lasciò un ultimo bigliettino. Coerente con ciò ch’era stato, scrisse il suo canto del cigno, dal sapore dolce-amaro.
«Ho vissuto un’esperienza piena di avventure e sventure, mi considero soddisfatto del mio destino. Dunque, voglio andarmene senza disperazione, con il sorriso sulle labbra e la pace nel cuore. Voi siete troppo giovani per apprezzare il piacere di andarsene in buona salute, facendo un ultimo sberleffo a tutti gli acciacchi e le malattie che arrivano con la vecchiaia. Ho vissuto. Adesso posso morire.
P.S. Vi lascio qui due litri di vino rosato. Brindate alla vostra salute».