È il 1974 e Marina ha ormai superato l’adolescenza, insegna all’accademia di belle arti di Novi Sad e nell’anno precedente aveva presentato la sua prima performance (Rhythm 10) della serie Rhythms.
Vive però con la madre, ex partigiana ed eroina di guerra, che la educa fin da piccola con rigide regole dall’impronta militare, ricevendo spesso violente punizioni fisiche e l’obbligo di rincasare entro e non oltre le dieci di sera. A causa di questo sviluppa diversi disturbi psicofisici, tra cui continue emorragie e mal di testa.
Quell’anno Marina si trova a Napoli per presentare quella che sarebbe stata l’esibizione più discussa di tutta la storia dell’arte performativa, Rhythm 0, in cui nessuno poteva immaginare ciò che sarebbe successo.
L’artista aveva disposto su un tavolo più di 70 oggetti di “piacere” e di “dolore”, insieme a delle istruzioni in cui spiegava che lei stessa era un oggetto, e come tale gli spettatori avrebbero potuto fare di lei ciò che volevano, per una durata di 6 ore, assumendosi tutta la responsabilità.
Marina Abramović alla conferenza stampa per la presentazione della retrospettiva The Cleaner di Palazzo Strozzi tenuta al Cinema Odeon Firenze 19 set 2018. Fotografia di Francesco Pierantoni condivisa con licenza CC BY 2.0 via Wikipedia:
Le prime ore passano tutto sommato tranquille: qualcuno le dà una carezza e qualcun altro le dà un bacio. Ma in un attimo tutto cambia.
Una volta appresa la sua totale accondiscendenza, un uomo prende le forbici e comincia a tagliarle tutti i vestiti. Poco alla volta la situazione sfocia in una serie di violenze su Marina ai limiti della follia: c’è chi le fa un taglio sulla gola con un rasoio e ne succhia il sangue, chi infila nel suo ventre le spine di una rosa, ed infine arrivano a farle puntare una pistola carica contro la tempia.
Quest’ultimo gesto aveva creato una tensione tale da spingere alcuni dei presenti ad opporsi, dando inizio ad una discussione così accesa che aveva diviso il pubblico tra protettori ed istigatori.
Terminata la performance Marina si ricompone e a testa alta esce dalla stanza, ma nessuno aveva il coraggio di guardarla negli occhi, talmente era la vergogna dell’aver compiuto quei gesti.
Questa esibizione vuole essere testimonianza del fatto che, in condizioni favorevoli e in assenza di regole, l’essere umano è capace di far uscire il peggio di sé, oltrepassando i limiti della moralità e della crudeltà, senza poi avere il coraggio di accettarne le conseguenze, fuggendo via, quasi a negare ciò che era successo prima.
Marina Abramović e Ulay (Uwe Laysiepen) 1978. Fotografia del museo CODA condivisa con licenza Creative Commons 3.0 via Wikipedia:
Marina aveva preso coscienza del fatto che questo tipo di arte riusciva letteralmente a smuovere l’anima delle persone, raccogliendone tutta l’energia e con essa anche tutti gli effetti che ne derivano.
Un anno dopo, infatti, l’artista si presenta nel cortile del centro culturale studentesco di Belgrado (SKĆ) per esibirsi in Rhythm 5. Aveva preparato un’enorme costruzione a forma di stella a cinque punte (numero da cui prende riferimento il titolo dell’opera) fatta di legno, cosparsa da trucioli impregnati di benzina a cui Marina dà fuoco.
Il senso dell’opera è quello di rievocare l’energia attraverso il dolore estremo, e così comincia l’esibizione: l’artista inizia percorrendo il perimetro della stella, poi si taglia le unghie di mani e piedi, e li getta nel fuoco, dopo di che si taglia i capelli e getta anche quelli nel fuoco.
Infine, Marina entra nel centro della stella e si distende fino quasi a toccare le punte con gli arti. Un silenzio tombale invade il cortile.
In pochi minuti però gli spettatori notano che Marina non si muove. Aveva perso i sensi a causa dell’assenza di ossigeno intorno a lei. Solo quando le sue gambe vengono lambite dalle fiamme capiscono cosa stava succedendo e in pochi istanti la soccorrono tirandola fuori dal fuoco.
Marina non ricorda nulla dell’incidente che le è quasi costato la vita e si infuria per non essere rimasta vigile; ciò nonostante, la performance ottiene un enorme successo che verrà ricordato per sempre.
Molte altre sono le opere in cui Marina sperimenta negli anni il dolore fisico e le emozioni attraverso il suo corpo, simbolo per lei di rinascita, di libertà e di energia, tanto da autoproclamarsi Grandmother of Performance.