Quanto a damnatio memoriae i Veneziani del 1300 non erano certo secondi agli antichi Romani. Dopo aver eseguito la condanna a morte del Doge Marin Falier, il Consiglio dei Dieci ordina che la campana suonata per annunciare alla cittadinanza che giustizia è stata fatta, venga privata del batacchio e mai più usata. Insomma, nemmeno un din-don-dan doveva ricordare quel traditore di Falier.
Le monete coniate durante il suo mandato vengono fuse, mentre il suo ritratto, esposto insieme a quello degli altri dogi nella sala del Maggior Consiglio, viene distrutto e sostituito da un drappo azzurro sul quale campeggia la scritta “Hic fuit locus ser Marini Faletri, decapitati pro crimine proditionis” ovvero “Questo era il posto di Marin Falier, decapitato per tradimento”. Duecento anni dopo, quando un incendio distrugge il Palazzo Ducale compresi tutti i ritratti dei dogi, fu nuovamente esposto un drappo, questa volta nero, con una frase più concisa: “Hic est locus Marini Faletri, decapitati pro criminibus”.
Marin Falier non ha più un volto, ma in compenso diventerà uno dei dogi più conosciuti della Repubblica di Venezia, nonostante l’accanimento del Consiglio dei Dieci. Perché le vicende del doge traditore hanno attraversato i secoli e ispirato vari artisti dell’800: il romantico Lord Byron gli dedica una tragedia, Gaetano Doninzetti un’opera lirica (ambedue pro-Falier), mentre qualche pittore rappresenta la sua decapitazione.
Il suo contemporaneo Francesco Petrarca invece ritiene giusta la condanna di Falier ed esorta i futuri dogi a considerarsi “le guide e non i padroni dello Stato. Che dico le guide? Unicamente gli onorati servitori della Repubblica”.
Cosa aveva fatto di così grave Marin Falier – unico doge nella storia della Repubblica di Venezia ad essere giustiziato – da meritarsi la condanna a morte e la damnatio memoriae?
Nel 1355 ordisce una congiura (o comunque partecipa) per abbattere la Repubblica e diventare “signore” di Venezia. Quello che ancora fa discutere, dopo tanti secoli, è la motivazione: cosa può aver spinto il doge in carica, personaggio dal grande prestigio personale e familiare, ricchissimo e avanti con gli anni, a mettersi in mezzo a una faccenda del genere? Motivi personali apparentemente, frasi ingiuriose rivolte da alcuni ragazzi della nobiltà alla Dogaressa, la bellissima e giovane Alcuina Gradenigo.
Durante un ballo a Palazzo Ducale alcuni rampolli aristocratici si comportano male e vengono allontanati. I ragazzi non digeriscono la cosa e così, giusto per divertirsi un po’, scrivono qualche apprezzamento sulla moglie del Doge, del tipo
“Marin Falier, da la bea mugier, altri la galde (la gode) e lu la mantien”, e ancora
“Beco Marin Falier della bela moier, la mogie del doxe Falier, se fa foter par so piaser”.
Ragazzate, per le quali gli autori vengono condannati a pene leggerissime. Il capo del gruppetto, Michele Steno (futuro doge) se la cava con dieci giorni di carcere (un mese secondo alcune fonti), e forse qualche frustata.
Vale così poco l’onore del Doge? Lui pensa proprio di no, e così ordisce quella congiura che avrebbe dovuto farlo diventare “Signor a bacchetta”, il padrone della città, con il non indifferente vantaggio di assicurare alla sua famiglia il dominio su Venezia.
Questo è un movente assai più plausibile: il potere per sé e per i propri discendenti, nella fattispecie il nipote Fantino.
Il contesto storico di quegli anni giustifica quest’ultima ipotesi. Nel resto d’Italia molti Comuni diventano Signorie, mentre la Repubblica di Venezia da anni patisce il conflitto con la rivale Genova. Le sconfitte subite durante la guerra provocano instabilità economica e affossano il commercio, principale risorsa della città. Ecco allora che Falier cavalca l’onda del malcontento popolare, in particolare quello della borghesia benestante, e ordisce una congiura che prevede di sbarazzarsi dell’incapace aristocrazia veneziana. Sbarazzarsi nel senso più cruento del termine: nella notte del 15 aprile i congiurati avrebbero ucciso tutti i membri dell’aristocrazia attirati in Piazza San Marco dal rintocco della campana, fatta suonare dallo stesso Doge con la falsa notizia di un attacco da parte dei genovesi. I nobili rimasti nelle loro case sarebbero stati scovati e uccisi subito dopo.
Qualcosa però va storto: un certo Vendrame (o Bertrando), ricco pellicciaio, si confida con un nobilomo, tale Nicolò Lion, che corre dal Doge Falier per informarlo della congiura. Lui minimizza, ma alla fine vengono informati alcuni Consiglieri e insomma, in un accavallarsi di testimonianze, il primo a fare il nome del Doge è proprio Vendrame, poi confermato da altri congiurati. Finisce male per molti di loro, impiccati alle colonne rosse della loggia di Palazzo Ducale già il 16 aprile. Il Doge sarà invece decapitato sullo scalone di Palazzo Ducale, proprio là dove aveva giurato fedeltà alla Repubblica, la sera di Venerdì 17 aprile, dopo sette mesi di dogado.
Pensare che Falier era stato eletto a grande maggioranza dal Consiglio, mentre era ad Avignone come ambasciatore della Repubblica presso il Papa. Quando il 5 ottobre 1354 rientra a Venezia in gran pompa, a bordo del Bucintoro (la galea di stato dei dogi), un pessimo presagio inaugura il suo dogado: c’è una fitta nebbia e la nave attracca in punto sbagliato, che costringe il corteo dei nobilomini, con in testa Falier, a passare tra le due colonne di Marco e Todaro, proprio dove solitamente venivano messi a morte i condannati.
Ancora a secoli di distanza rimangono molti punti oscuri sulla vicenda. Non è chiaro se fu Falier a ordire la congiura o se aderì a una cospirazione pensata da altri. Lui, uomo ambiziosissimo e, pare, anche arrogante, forse vide un’imperdibile occasione per diventare Signore di Venezia. Più furbo fu il pellicciaio Vendrame, che per aver denunciato la congiura ottenne svariati benefici, anche se poi, per la sua mania di vantarsi, fu spedito in esilio a Ragusa e poi ucciso da qualcuno che aveva denunciato.
Una brutta storia questa di Falier, che probabilmente servì da lezione ai Veneziani: la Serenissima Repubblica vide la sua fine solo nel 1797, quando si arrese a Napoleone Bonaparte, dopo millecento anni di indipendenza.