Marianna de Leyva: la drammatica storia della vera Monaca di Monza

Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovane, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi”, è la descrizione con cui Manzoni introduce la figura di Egidio: uomo incline alla violenza che induce al peccato il personaggio di Gertrude, altresì nota come la monaca di Monza.

La monaca di Monza, detta “la Signora” – Olio su tela. Musei civici di Pavia

I promessi sposi è un caposaldo della letteratura romantica italiana e, fra le sue pagine, annovera numerosi eventi storici riadattati.

Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:

Uno di questi è proprio lo scandalo che vide coinvolti la suora Mariana de Leyva e il suo amante, il nobile Gian Paolo Osio, colpevoli di un’immorale relazione durata dal 1598 fino al 1608. Manzoni cambiò i nomi dei protagonisti e spostò avanti nel tempo la vicenda, ma poté studiarla a fondo grazie alla lettura delle carte processuali e al libro Historia patriae di Giuseppe Ripamonti, storico di fiducia dell’arcivescovo Federico Borromeo.

La monaca di Monza, dipinto di Mosè Bianchi (1865)

I de Leyva erano una neonata casata nobiliare, il cui capostipite e fautore delle fortune della famiglia fu Antonio de Leyva de la Cueva-Cabrera, un valoroso comandante militare al servizio di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero dal 1519 al 1556. Era originario della Navarra e giunse in Italia agli inizi del XVI secolo. Si distinse nella battaglia di Pavia del 1525 si guadagnò la fiducia del sovrano che, successivamente, lo insignì del titolo di feudatario della contea di Monza. In quanto ultimi arrivati nel frammentario mosaico nobiliare italiano, i de Leyva avevano la necessità di consolidare la propria posizione attraverso alleanze politiche e matrimoni combinati. Tale strategia portò Martino de Leyva, nipote di Antonio, a sposare Virginia Marino nel 1574. La donna era figlia del ricco commerciante e finanziere genovese Tommaso Marino che, trasferitosi a Milano nel 1546, aveva ordinato la costruzione del sontuoso Palazzo Marino, oggi sede del municipio.

L’unione fruttò alle casse dei de Leyva l’ingente dote di Virginia, vedova del conte Ercole Pio di Savoia, signore di Sassuolo, ma fu di breve durata. Virginia fu vittima della peste e si spense prematuramente nell’ottobre del 1576, un anno dopo aver dato alla luce Marianna, la futura monaca di Monza. Martino era uomo d’armi dall’animo battagliero e poco gli importava dell’educazione della figlia, perciò affidò la bambina alle cure di una zia paterna e partì per servire nelle Fiandre don Giovanni d’Austria.

Palazzo Marino, a Milano, dove nacque Marianna de Leyva y Marino. Fotografia di G.dallorto via Wikipedia

Nel 1588 il destino di Marianna subì una svolta inaspettata. Suo padre sposò in seconde nozze una nobildonna valenziana, Anna Viquez de Monchada, da cui ebbe alcuni figli maschi e, per evitare che il patrimonio accumulato si disperdesse in seguito a un eventuale matrimonio, esortò la figlia a entrare in convento. All’età di tredici anni Marianna divenne novizia nel monastero monzese di Santa Margherita, che, posto sotto l’egida dell’arcivescovo Federico Borromeo, ospitava l’ordine delle monache benedettine di clausura. Il 22 settembre del 1591 prese ufficialmente i voti come suor Virginia Maria, in onore della defunta madre.

Portico di ingresso all’ex convento di Santa Margherita a sinistra della facciata della chiesa di San Maurizio in Monza che prospetta sulla piazzetta di Santa Margherita. Fotografia di pubblico dominio via Wikipedia

Nella comunità clericale, Marianna occupava una posizione di rilievo. In virtù del potere e del prestigio della sua famiglia, godette di numerosi privilegi, quali un appartamento tutto suo all’intero del monastero, dame di compagnia, suore ausiliarie al suo servizio e una conversa (una suora laica addetta ai lavori manuali); inoltre, su delega paterna, esercitò in tutto e per tutto il ruolo di feudataria di Monza. L’evento che segnò le premesse per il suo peccato ebbe luogo nel 1597. Santa Margherita confinava con la dimora della ricca famiglia degli Osio. Uno dei loro membri, Gian Paolo, aveva la malsana abitudine di adocchiare e sedurre alcune educande intente a passeggiare per il cortile e la cosa non passò inosservata.

Nato a Milano nel 1572, Gian Paolo era, come lo descrisse Giuseppe Ripamonti, “ricco e ozioso, bruno, alto, snello, d’una eleganza innata, […] dotato di una specie di fascinoso prestigio”. La sua famiglia, di origini bergamasche, era nota alle cronache dell’epoca per degli atteggiamenti altezzosi e violenti, che il giovane rampollo ereditò a pieno. Bello e sicuro di sé, si guadagnò presto la nomea di dongiovanni e, forse attizzato dall’idea del sacro e del profano, sedusse Isabella degli Hortensi, giovane educanda del monastero.

Ritratto ideale di Gian Paolo Osio (1850 circa). Lodovico Aureli

Colto in flagrante da Marianna, all’epoca maestra delle educande, subì un aspro rimprovero, un gran rebuffo, come lo definì lei in sede processuale, e fu subito allontanato. La monaca non si limitò a redarguirlo, ma avvertì le autorità e i genitori della ragazza. Gian Paolo aveva un carattere impetuoso e irascibile e volle vendicare l’affronto, assassinando un gabelliere dei de Leyva. Dal suo canto Marianna conosceva la fama poco lusinghiera dell’Osio e puntò il dito contro di lui, che, braccato dai gendarmi, dovette darsi alla macchia. Tornò in città dopo un anno di latitanza, grazie all’intercessione di alcuni suoi amici potenti, i quali garantirono per lui e convinsero la feudataria di Monza a ritirare la denuncia e accettarne il pentimento. Nuovamente sotto il tetto della dimora confinante con Santa Margherita, riprese le sue attività voyeuristiche, ma ravvisò il desiderio di non accontentarsi di una suora qualunque, bensì di puntare in alto:

Voleva Marianna

Da lì in poi ebbe inizio un serratissimo corteggiamento, fatto di occhiate fugaci e corrispondenze nascoste. Dapprincipio restia, Marianna vide le sue difese allentarsi, arrendendosi, infine, a un istinto naturale che, visti i suoi abiti, non le era concesso. Per scalfire le resistenze della futura amante, Gian Paolo ottenne l’aiuto di Paolo Arrigone, parroco di una chiesa attigua al monastero. Anche lui in passato era stato respinto da Marianna e si offrì di suggerire al nobile atteggiamenti, parole e strumenti di seduzione per metter sotto scacco la giovane de Leyva. È storicamente accertato che tutte le lettere firmate da Gian Paolo furono opera proprio dal suo complice.

La monaca di Monza in un’illustrazione di fantasia di Francesco Gonin ne I promessi sposi (edizione del 1840)

Cominciarono gli incontri: prima in parlatorio, dove, a detta della monaca, l’Osio la violentò in quello che fu il loro primo atto carnale; poi negli alloggi privati della donna. La tresca vide coinvolte due suore, Ottavia Ricci e Benedetta Homati, confidenti di Marianna e, forse, anche amanti occasionali di Gian Paolo, che, senza batter ciglia, operarono nell’ombra affinché quell’immorale relazione andasse avanti. La monaca di Monza fu soggiogata dalla passione e lasciò campo libero all’amante. L’Osio era innamoratissimo, rese le sue visite sempre più frequenti e arrivò, addirittura, a commissionare al fabbro Cesare Ferrari dozzine di duplicati delle chiavi del monastero.

In realtà, quell’amore profano era di dominio pubblico, ma entrambi appartenevano a delle famiglie potentissime; sollevare un polverone o far girare pettegolezzi equivaleva a inimicarsi l’intera nobiltà lombarda. Rendez-vous più o meno segreti, lettere, regali… Santa Margherita fu teatro di una storia dal carattere quasi consuetudinario, una sorta di matrimonio sotto copertura, sfociato, infine, in un parto. Assistita dalla fidate Ottavia e Benedetta, nel 1602 Marianna diede alla luce un bambino morto, che Gian Paolo provvide a far sparire. L’evento colpì drasticamente la fragile psiche della donna, combattuta fra il desiderio carnale e la castità impostale dai voti, ed ebbe una vera e propria crisi di coscienza. Cercò in tutti i modi di troncare, di liberarsi di quelle pulsioni indecenti e, come confessò al processo, nella speranza che funzionasse, si affidò anche a pratiche disgustose, quali la coprofagia.

Avevo sentito dire che mangiandosi dello sterco di colui che amavasi tre notti, gli si sarebbe venuti in odio, io perciò m’ebbi a cibare del suo sterco

Da un atto del genere si evince quanto davvero desiderasse sottrarsi a un peccato che si era protratto troppo a lungo, ma non ci riuscì. La relazione continuò e l’8 agosto del 1604 diede alla luce una bambina, Alma Francesca Margherita. Ottavia e Benedetta si occuparono del parto e la notte stessa affidarono la neonata a Gian Paolo. Sebbene la sua immagine pubblica fosse quella di scapolo, l’uomo si dimostrò incurante delle malelingue: la fece battezzare e la portò a vivere con sé, rivelandosi un padre affettuoso. Per ragioni ignote, la riconobbe solo nel 1606 e negli anni seguenti l’accompagnò spesso al monastero, affinché godesse della compagnia della madre. Dopo il processo dei genitori sappiamo che fu affidata alla nonna paterna, dopodiché di Alma Francesca Margherita non si hanno più notizie, dimenticata fra le pieghe della storia.

La situazione precipitò nel 1606, quando la tresca iniziò a intrecciarsi con una serie di efferati delitti. Il pomo della discordia fu Caterina Cassini de Meda, una conversa di umili origini. Con i suoi consueti modi tiranneggianti, Marianna rimproverò e punì la ragazza, che, al corrente di tutto, minacciò di rivelare i nomi di protagonisti e complici della scomoda vicenda al vicario arcivescovile Monsignor Pietro Bianca. Il ministro di Dio era atteso a Santa Margherita per una visita al monastero e tale incombenza, una questione di pochi giorni, spaventò a morte la monaca.

Nonostante le numerose intimidazioni, Caterina non volle abbandonare i propositi vendicativi, perciò Gian Paolo prese in mano le sorti della scellerata ricattatrice. Coadiuvato da Marianna, Benedetta e Ottavia, il nobile s’introdusse furtivamente nella camera della conversa e la mise a tacere per sempre. Col favore delle tenebre nascose il cadavere nel pollaio del monastero, per poi, in un secondo momento, occultarlo facendolo a pezzi e liberandosi della testa, in modo tale da scongiurare qualsiasi riconoscimento. Il piano fu orchestrato fin nei minimi dettagli e, per dar adito all’ipotesi che Caterina fosse semplicemente scappata, voce messa in giro dalle sue complici all’indomani dell’omicidio, praticò una spaccatura nelle mura.

Scampato il pericolo, Gian Paolo non si tranquillizzò; anzi, perse totalmente il controllo. A partire dal 1607, eliminò personalmente il fabbro di cui si era servito per i duplicati delle chiavi e ordinò a un sicario di sbarazzarsi dello speziale Raniero Roncino, la cui bottega confinava con Santa Margherita. Stando alla logica dell’Osio, queste persone erano dei testimoni scomodi, che avrebbero potuto interrompere il silenzio da un momento all’altro.

Ma Gian Paolo si dimostrò incauto e pagò con la vita il prezzo delle sue impudenze

Le misteriose morti attirarono l’attenzione delle autorità e il prestigio familiare dei due amanti non bastò più a proteggerli. L’uomo fu sospettato come mandante degli omicidi e, in virtù delle ben noti voci sulla presunta relazione con Marianna, fu arrestato e rinchiuso nel castello di Pavia. Nel giro di poco tempo riuscì a evadere, trovando asilo presso amici e parenti, e rifugiandosi, infine, nel monastero dell’amante. Mentre il processo laico a suo carico lo vide condannato a morte in contumacia, con conseguente ricompensa di 1.000 scudi per chi l’avesse assicurato alla giustizia, l’eco degli eventi giunse all’orecchio dell’arcivescovo Borromeo, che il 25 novembre del 1607 fece trasferire Marianna nella chiesa milanese di Sant’Ulderico al Bocchetto, affinché la si giudicasse secondo le norme ecclesiastiche.

Con l’inizio dell’inchiesta, Gian Paolo reputò i tempi maturi per spostarsi e sbarazzarsi delle ultime testimoni: Benedetta e Ottavia. Il conte attirò le due suore presso il Lambro, tramortì Ottavia con il calcio dell’archibugio e la gettò nelle acque del fiume. Riuscì a sopravvivere: si finse morta e un contadino la trovò a valle, ma si spense nel giro di pochi giorni, non prima di aver confessato lo scandalo in cui era coinvolta. A Benedetta toccò una sorte migliore: dopo aver assistito inerme al brutale atto di Gian Paolo, fu da costui rassicurata con l’inganno. Le propose di fuggire e iniziare una nuova vita insieme, ma la mattina successiva la gettò in un pozzo, dove alcuni passanti la trassero in salvo.

Monza Parco ponte delle catene al trivio del viale dei Sospiri qui l’Osio in fuga tentò di annegare suor Ottavia, una delle due monache complici fuggite con lui dal convento di Santa Margherita in Monza per evitare che potesse testimoniare, in un pozzo di una cascina allora poco distante gettò invece suor Benedetta. Fotografia di Albertomos via Wikipedia

La storia del conte omicida si concluse a Milano, in un imprecisato giorno del 1608, quando si rifugiò presso la dimora di Cesare II Taverna, conte di Landriano e suo amico, che lo tradì e ne ordinò la morte nei sotterranei.

Via della Signora in Monza da via Moriggia, Porta Lodi, si immette in via Azzone Visconti notare la Madonna col Bambino dipinta all’inizio della strada. Fotografia di Albertomos via Wikipedia

Quanto alla monaca di Monza, il processo a suo carico fu ampiamente documentato e l’arcivescovo Borromeo assistette alle numerose deposizioni in cui l’imputata ammise tutte le sue colpe, ma non mancò di sottolineare che, spiritualmente, la relazione era stata di attrazione e repulsione. Palesò un animo combattuto e, con dovizia di particolari, descrisse gli eventi che l’avevano indotta al peccato e i vani tentativi di sottrarsi a quella malsana passione.

Via Marsala n. 44 in Monza, verso Milano targa commemorativa ex convento dei Cappuccini dove Renzo e Lucia furono inviati dal padre Cristoforo dovendo fuggire da Lecco(Promessi sposi). Fotografia di Albertomos via Wikipedia

Il 17 ottobre del 1608 fu emessa la sentenza: a Marianna de Leyva, rea di un amore proibito, celato per mezzo di efferati delitti, spettò la reclusione a vita in una cella murata. Per ordine di Borromeo, fu, quindi, trasferita nella casa milanese delle Convertite di Santa Valeria, che non era un monastero, ma una sorta di ritiro, anche piuttosto inospitale, in cui trovavano ricovero prostitute in cerca di redenzione. Da nobildonna italo-spagnola e feudataria di Monza, Marianna scontò la pena in una cella minuta, di appena due metri per tre, con un muro di mattoni, eretto subito dopo il suo ingresso, su cui furono aperti due fori per consentire il passaggio dei viveri e il riciclo dell’aria.

Targa via della Signora in Monza da via Moriggia, Porta Lodi. Fotografia di Albertomos via Wikipedia

La segregazione durò circa 14 anni e, in seguito a dei colloqui, nei quali appurò la redenzione della donna, nel 1622 Borromeo ne ordinò la scarcerazione. L’arcivescovo decise che Marianna sarebbe stata un simbolo, un esempio di ravvedimento dal peccato, e le affidò il compito di scrivere lettere di conforto a suore o novizie incerte sulla loro vocazione. Assistendo spiritualmente le sue consorelle da Santa Valeria, che, nonostante la sospensione della condanna, non abbandonò mai, la vera monaca di Monza si spense a Milano il 17 gennaio del 1650, all’età di settantaquattro anni. Storpiando le parole di Manzoni, la relazione fra lei e l’Osio era una storia che “non s’ha da fare”.

Nicola Ianuale

Laureato in Lettere Moderne all'Università degli studi di Salerno. Sono uno scrittore e un grande appassionato di letteratura, cinema e storia. Ho pubblicato un romanzo di narrativa, “Lo scrittore solitario”, e un saggio, “Woody Allen: un sadico commediografo”, entrambi acquistabili su Amazon. Gestisco la pagina Instagram @lo_scrittore_solitario_ dove pubblico post, curiosità su film e libri e ogni giorno carico un quiz sulla letteratura.