L’Uomo di Cheddar aveva gli Occhi azzurri e una Pelle Scurissima

Il suo scheletro è stato portato alla luce oltre un secolo fa, ma quell’uomo riposava lì, indisturbato, in una grotta del Somerset (Gran Bretagna), da circa 10.000 anni. I resti di quell’uomo, chiamato Cheddar Man (dal luogo del ritrovamento), sono di fondamentale importanza, non solo perché il suo è lo scheletro completo più antico mai rinvenuto in Gran Bretagna, ma anche per quello che le sue ossa ci raccontano: qualcosa che stravolge alcune radicate convinzioni che, a quanto pare, vengono smentite dalla scienza.

Lo scheletro di Cheddar Man

Immagine via Wikimedia Commons -Licenza CC BY-SA 4.0

I resti di Cheddar Man vengono ritrovati nella grotta di Gough nel 1903, e subito raccontano una storia di vita difficile, forse simile a quella di molti altri uomini e donne del mesolitico (un periodo che da circa 9000 al 7000 a.C.): muore di morte violenta, ma non prima di aver lottato con una infezione ossea che gli ha provocato una grande lesione nel cranio, sopra l’occhio destro.

Il cranio di Cheddar Man

Immagine di pubblico dominio

Fin qui nulla di eclatante, la morte violenta era una consuetudine negli antichi popoli europei, lo vediamo ad esempio anche nella mummia di Oetzi, la Mummia del Similaun. Gli studiosi che si occupano di lui sono sempre stati convinti che quell’uomo fosse simile ai britannici di epoca moderna, con pelle bianca, capelli biondi e occhi chiari. Nel 2018 però, il museo dove si trova conservato lo scheletro, il Natural History Museum di Londra, decide di analizzare il DNA di Cheddar Man, per scoprire che aspetto avesse quell’uomo giunto in Gran Bretagna dall’Europa continentale verso la fine dell’ultima era glaciale, attraverso una pianura chiamata Doggerland, poi sommersa dal mare quando i ghiacci iniziarono a sciogliersi.

La Grotta di Gough

Immagine di Gwen e James Anderson via Wikipedia – licenza CC BY-SA 2.0

Vale la pena aprire una parentesi nella storia di Cheddar Man, per riflettere sulle conseguenze dei cambiamenti climatici: all’incirca 7500 anni fa la Gran Bretagna era ancora una penisola dell’Europa, unita al continente dalla rigogliosa pianura di Doggerland, più vasta dell’attuale territorio del Regno Unito, costellata di laghi e fiumi ricchi di pesci, abitata da molti animali che garantivano la sussistenza agli uomini dell’età della pietra. I fondali marini di Doggerland cullano oggi i resti di quelle persone, i loro oggetti e le ossa degli animali che scorrazzavano nella pianura. Tutte quelle persone hanno dovuto confrontarsi con l’inondazione del loro territorio, cercare un altro luogo dove vivere, migrare verso terre più accoglienti.

I ricercatori del Museo londinese hanno estratto qualche milligrammo di polvere ossea dal cranio di Cheddar Man, attraverso un minuscolo foro. Il genoma ottenuto ha fornito qualche informazione sull’aspetto di quel lontano progenitore dei britannici odierni, e anche sul suo modo di vivere.

L’uomo proveniva con ogni probabilità dal Medio Oriente, ma discendeva da una popolazione di origini africane, come d’altronde tutti noi. Da questo di ceppo di immigrati discende all’incirca il 10% dei britannici moderni, che però non somigliano al loro progenitore: Cheddar Man aveva, è vero, occhi chiari (forse verdi o azzurri) ma la sua pelle era, molto probabilmente – perché nessuno può dirlo con certezza – da molto scura a nera, così come scuri e ricci erano i suoi capelli.

La conclusione più ovvia di questo studio è che il colore della pelle di Homo sapiens, fino a 10.000 anni fa, non fosse legato alla zona geografica della popolazione: i geni che determinano il colore della pelle hanno subito delle modifiche più avanti. Secondo Tom Booth, archeologo dell’History Natural Museum, la scoperta “dimostra che le immaginarie categorie razziali che abbiamo sono costruzioni molto moderne o molto recenti, non applicabili al passato”.

Nel corso del tempo il colore della pelle delle popolazioni europee è cambiato, perché la carnagione chiara assorbe meglio la luce solare, che consente la produzione di vitamina D, indispensabile per la crescita sana dello scheletro umano in grado di evitare il rachitismo nei bambini. Questa variazione genetica potrebbe esser avvenuta in seguito, forse dopo la nascita dell’agricoltura e la conseguente sedentarizzazione. Cheddar Man era ancora un nomade che cacciava e raccoglieva ciò che la natura forniva, usando strumenti di pietra e ossa.

L’uomo, rimasto per migliaia di anni in quella grotta del Somerset, al di là dei risultati scientifici ottenuti dai ricercatori, sembra volerci insegnare una cosa: in fondo “siamo tutti immigrati” in terre lontane da quella della nostra origine.

L’uomo di Cheddar non è l’unico nord europeo del quale abbiamo una documentazione genetica accurata. L’Uomo di Loschbour, uno scheletro scoperto in Lussemburgo nel 1935, era del tutto simile all’uomo di Cheddar, con pelle scura o scurissima, gli occhi azzurri o verdi e, come nel caso dei resti inglesi, anch’egli era intollerante al lattosio.

I resti di questi due antichi uomini europei, cronologicamente molto più vicini a noi rispetto ai loro antenati che uscirono dall’Africa fra i 60 e i 70 mila anni fa circa, ci dimostrano una volta di più come il concetto di “Razza” umana sia qualcosa di esclusivamente culturale, non basato su nessuna concretezza scientifica.

La maggioranza degli esseri umani condivide il 99,9% del DNA con gli altri, solo l’1 per mille dei nostri nucleotidi è diverso da popolazioni che a noi sembrano profondamente diverse. Il motivo della diversità apparente delle popolazioni più lontane fra loro, ad esempio i nativi sud-americani, il popolo San africano, quello che per inciso è più vicino di tutti alla Eva mitocondriale, oppure le popolazioni di aborigeni australiani, è la risposta di un DNA simile ad ambienti diversi, risposta che determina dei caratteri fenotipici differenti.

In pratica il nostro DNA e quello di un aborigeno sono quasi del tutto uguali, ma l’ambiente in cui viviamo è profondamente diverso, e la risposta del DNA di entrambi agli ambienti differenti si nota nella manifestazione di caratteri morfologici diversi. Le razze umane sono un’invenzione culturale, non basata su una evidenza scientifica, la facilità di racchiudere il concetto di appartenenza in una sola parola, ma la concretezza di questo concetto si scioglie, come neve al sole, quando andiamo a controllare quello che i geni del nostro corpo ci comunicano.

Fonti:

Manuale di Antropologia, Evoluzione e biodiversità umana; Luca Sineo, Jacopo Moggi Cecchi.

Lezioni e Slide di Donata Luiselli, corso di Antropologia Fisica, Università di Bologna.

Matteo Rubboli

Sono un editore specializzato nella diffusione della cultura in formato digitale, fondatore di Vanilla Magazine. Non porto la cravatta o capi firmati, e tengo i capelli corti per non doverli pettinare. Non è colpa mia, mi hanno disegnato così...