Aeroporto E. L. Logan di Boston, Massachusetts, Stati Uniti d’America. Sono le 15:33 di un assolato e caldo pomeriggio del 4 ottobre 1960, il volo 444 dell’Eastern Airlines proveniente da New York è appena atterrato e si dirige verso l’area di parcheggio.
Dopo lo sbarco dei passeggeri e i controlli di rito, piloti e hostess si rilassano, in vista di quella che si prevede essere una lunga ed impegnativa giornata di lavoro. Due ore dopo, infatti, è previsto il successivo volo 375 per Filadelfia (Pennsylvania), al quale seguiranno altri tre: Charlotte (North Carolina), Greenville (South Carolina) e Atlanta (Georgia).
L’equipaggio è composto da cinque persone: il Comandante Curtis W. Fitts (un veterano di 59 anni di Bell Meadow, Georgia, con oltre 23.000 ore di volo all’attivo), il Primo Ufficiale Martin J. Calloway (5800 ore di volo, Atlanta, Georgia), il tecnico di volo Malcom M. Hall (7800 ore di volo, Memphis, Tennessee) e le due giovanissime assistenti di volo, la ventiduenne Joan Berry, di Prentice (Mississippi) e la ventitrenne Patricia Davies, di Jacksonville (Florida).
L’aeroplano è un nuovissimo Lockheed L-188A Electra, un quadrimotore turboelica di corto/medio raggio lungo poco più di trenta metri, uscito dalla fabbrica nel giugno dell’anno precedente e costato 2,5 milioni di dollari. Si tratta di una macchina rivoluzionaria per l’epoca, ancora dominata dai ben più lenti, scomodi, rumorosi e costosi aeroplani con motori a pistoni.

I piloti della Eastern perciò sgomitano per volarci, con il risultato che a prevalere sono invariabilmente quelli più in alto nella lista di anzianità, nonostante qualche dubbio di affidabilità inizi a far capolino anche tra loro, dopo i quattro misteriosi incidenti avvenuti nei diciannove mesi precedenti. Le agenzie di viaggio in ogni caso, per non alimentare tali dubbi tra i passeggeri, hanno smesso di citare il modello “Electra”, preferendo ripiegare su “il nostro falco dorato” (il falco è il logo che campeggia sulla coda dei velivoli della Eastern), “il nostro L-188” o sull’ancor più vago “il nostro turboelica”.

L’aeroplano è innovativo anche dal punto di vista dei passeggeri, con interni spaziosi e comodi, sessantasei poltrone in file da quattro divise dal corridoio centrale, e sei sedili collocati in un salottino in coda. La qualità della climatizzazione e della pressurizzazione è paragonabile a quella dei coevi aerei a reazione di lungo raggio, come il Boeing 707 e il Douglas DC-8.

Con l’avvicinarsi del tramonto e della bassa marea, la baia di Winthrop e i restanti specchi d’acqua che circondano l’aeroporto iniziano a popolarsi di aviatori ben più stagionati e abili persino del Comandante Fitts. La baia, infatti, è un autentico paradiso per i volatili di tutte le specie, che vi trovano cibo e ristoro in abbondanza. Tra di essi, per numero e vivacità motoria e canora, spiccano dei piccoli pennuti neri, pesanti non più di ottanta grammi: gli Sturnus vulgaris, comunemente noti come storni.
Sturnus vulgaris

Dopo aver trascorso l’intera giornata alla ricerca di semi, insetti e piccoli vertebrati, si stanno preparando a raggiungere i ricoveri notturni, che in questo caso sono probabilmente le strutture metalliche del Maurice J. Tobin Memorial Bridge (il precedente Mystic River Bridge), situato a nord ovest dell’aeroporto.
Il Tobin Memorial Bridge (By Chensiyuan, Wikipedia, CC BY-SA 4.0)

Gli storni sono uccelli gregari che si riuniscono in stormi di migliaia di individui, in grado di volare a 60 km/h ed eseguire evoluzioni strette e complesse ala contro ala, senza mai toccarsi.

Sfortunatamente, non sono le uniche qualità eccezionali che posseggono: si tratta anche di una specie molto adattabile e prolifica, tanto da essere stata inclusa nella lista delle cento più dannose specie invasive al mondo.
Quando, nel 1890, un droghiere di New York, tale Eugene Schieffelin, rilasciò a Central Park sessanta esemplari di storno europeo, seguiti da altri cinquanta l’anno successivo, non poteva immaginare che da lì ad un secolo gli storni, specie aliena in America settentrionale, sarebbero diventati duecento milioni.
Alle 17:00 Fitts dispone l’inizio delle operazioni d’imbarco dei 67 passeggeri, che si concludono in una ventina di minuti; dopo aver firmato la documentazione del volo e salutato l’agente di compagnia, istruisce la Davies a chiudere la porta.
Nel cielo sopra l’aeroporto Logan ci sono poche nuvole, la visibilità è di 30 chilometri e spira una leggera brezza da sud est. Il tempo è splendido anche lungo i 500 chilometri di rotta, per quello che si annuncia un tranquillo volo di 90 minuti, ad un’altitudine di poco più di 3000 metri.
Alle 17:30, ricevuta l’autorizzazione da parte della torre di controllo, l’equipaggio di condotta inizia la messa in moto dei quattro motori, a onor del vero con qualche difficoltà per i numeri 1 e 2, quelli installati nell’ala sinistra (i propulsori sono convenzionalmente numerati in aumento da sinistra a destra).

In ogni caso, dopo qualche controllo supplementare da parte di Hall, tutti i motori si avviano regolarmente e Calloway chiede alla radio l’autorizzazione ad iniziare il rullaggio.
Alle 17:35 l’Electra rulla con i motori al minimo verso la pista di decollo, che oggi è la numero 09 (ruotata di 90° in senso orario rispetto al Nord magnetico, perciò in direzione est), lunga 2140 metri. Sebbene la pista sia molto vicina all’area di parcheggio e Fitts, Calloway e Hall siano molto indaffarati, durante il tragitto verso ovest non possono non ammirare lo splendido tramonto venato di rosa e cremisi che sta definendo il profilo del centro di Boston, a non più di 4 chilometri di distanza.
Alle 17:39 il volo 375 è autorizzato al decollo e l’accelerazione impartita dai 15.000 cavalli dei motori Allison incolla agli schienali i passeggeri. Poco più di 20 secondi e 760 metri dopo, alla velocità di 215 Km/h, l’N5533 stacca dolcemente da terra le sue 45 tonnellate e la sua ombra, che nel suo veloce allungarsi a terra pare annunciare la prossima ricongiunzione a Filadelfia.
Avverrà tutto prima, e molto più in fretta.
Esattamente dopo sei secondi dal decollo, infatti, una nuvola nera riempie improvvisamente la visuale dei tre “nuovi” aviatori a bordo, che si incontrano con qualche migliaia di “vecchi”: gli storni.
Sulla strada del ritorno verso il Memorial Bridge, i volatili si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato e, seppur volatori eccezionali, non sono attrezzati per riconoscere ed evitare un oggetto sconosciuto largo trenta metri e alto dieci, che viaggia a 230 km/h.
L’impatto è perciò inevitabile e violentissimo, e provoca un effetto devastante in cabina di pilotaggio; gli storni sono sì piccoli e leggeri, ma hanno una densità corporea tra le più alte in natura, tanto che qualcuno li definisce “proiettili piumati”. Per l’equipaggio dell’Electra la sorpresa e l’effetto acustico sono gli stessi di una scarica di mitragliatrice.
Un numero imprecisato di esemplari si schianta su tutto l’aereo: i parabrezza, il muso, i sensori di velocità, l’ala, i motori e i piani di coda. Questo provoca l’azzeramento della visibilità esterna, l’avaria degli indicatori di velocità di bordo e, soprattutto, gravissimi problemi ai motori, che per funzionare devono assorbire notevoli quantità d’aria, qualunque cosa contenga.
Quattro storni finiscono nel motore 1, sei nel motore 2 e un numero imprecisato nel motore 4. La conseguenza è l’avaria definitiva del motore 1, la momentanea ma violenta avaria del 2 (che emette una palla di fuoco allo scarico) e una momentanea perdita di potenza del 4.
Si tratta di un calo di prestazioni così improvviso, intermittente, sbilanciato ed intenso, da superare la capacità di controbilanciarlo da parte delle superfici di controllo. Fitts infatti, pur agendo immediatamente sul timone di direzione e sugli alettoni, non riesce a contrastare una progressiva imbardata a sinistra, che aumentando la resistenza fa diminuire pericolosamente la velocità, che a sua volta riduce l’efficacia del timone, che a sua volta aumenta la resistenza, che fa ulteriormente diminuire la velocità (ad un rateo di 25 km/h al secondo).
E’ il classico cane che si morde la coda.
La prua dell’Electra passa in maniera incontrollata da est a nord-est, mentre la velocità si avvicina pericolosamente a quella di stallo, la velocità che marca la differenza tra un oggetto che vola e uno che precipita.
L’unica possibilità di recuperare il controllo sarebbe ridurre l’assimetria tra la potenza nulla sviluppata dai motori sull’ala sinistra e i 7500 cavalli che spingono l’ala destra, e contemporaneamente abbassare il muso per riguadagnare velocità. Purtroppo però, per farlo servirebbe una quota molto superiore ai miseri 87 metri raggiunti fino a quel momento.
Nonostante l’enorme esperienza dell’equipaggio, il destino dell’Electra è segnato.
L’inesorabile diminuzione della velocità causa lo stallo dell’ala sinistra e la conseguente entrata in vite dell’aereo, che si infila verticalmente a 290 km/h nelle acque gelide della baia di Winthrop, a poco più di due chilometri di distanza dalla pista e a 200 metri dalla riva.
Sono trascorsi 47 secondi dall’inizio del decollo e solamente 27 di volo, durante i quali i piloti non sono riusciti a dire nemmeno una parola alla radio.

Un testimone oculare assiste incredulo allo schianto e al successivo sollevarsi di un’alta colonna d’acqua e detriti, mentre un altro sente un esplosione che scambia inizialmente per il bang sonico di un velivolo militare.
Tra i testimoni ci sono anche Myron Williams, un fotografo freelance che riesca scattare due foto dell’aereo in volo e, dalla terrazza dell’aeroporto, sei famigliari del diciottenne Fred Abate, che solo pochi minuti prima li aveva salutati da uno dei finestrini anteriori dell’Electra.

Nell’impatto l’aereo subisce una decelerazione di cento volte quella di gravità, che provoca la rottura in due parti della fusoliera; la parte anteriore affonda immediatamente nell’acqua profonda dieci metri, mentre quella posteriore galleggia per alcuni minuti.
Nell’urto tutti i sedili dei passeggeri, a parte due, vengono sradicati dal pavimento e proiettati in avanti, mentre il 50% dei punti di ancoraggio centrali delle cinture di sicurezza si rompe.
Poco dopo un silenzio irreale cala come un sudario sulla scena e sugli abitanti di Winthrop, che si apprestano a sedersi a cena godendosi il tramonto.
E’ però un silenzio che dura poco: nei minuti e ore seguenti centinaia di persone, molte delle quali adolescenti, si catapultano in mare con le imbarcazioni più disparate, per raggiungere il luogo dell’incidente e prestare i primi soccorsi. Alla fine si conteranno più di 200 imbarcazioni, tra kayak, canoe, barche a remi e motoscafi, seguite poi dai soccorsi istituzionali, tra i quali numerosi elicotteri e un centinaio di sommozzatori. Si tratta di una mobilitazione spontanea la cui memoria a Boston rimane viva e inalterata a distanza di decenni.

Mentre I soccorritori si avvicinano, dal mare inizia ad emergere di tutto: pezzi di alluminio, gomma, plastica, bagagli e i sedili di bordo, la maggioranza dei quali con i rispettivi passeggeri ancora cinturati, a testa in giù nell’acqua a 16 °C. Intanto, le 11 tonnellate di kerosene fuoriuscite dai serbatoi formano una macchia altamente infiammabile e tossica, che si diffonde pericolosamente, inzuppando ogni cosa.
Per 62 delle 72 persone a bordo, compresi i due piloti e il tecnico di volo, non c’è nulla da fare, la decelerazione subita nell’impatto è ben superiore a quella sopportabile da un essere umano. La maggioranza muore sul colpo, altri nelle braccia dei soccorritori, alcuni nelle ambulanza e due di loro poco dopo l’arrivo in ospedale. Dieci persone invece, tutte sedute nella parte posteriore dell’aereo, si salvano perché nella dinamica dell’impatto subiscono decelerazioni inferiori agli altri.

Tra i sopravvissuti ci sono le due assistenti di volo Joan Berry, che si frattura una gamba, e Patricia Davies, che ne esce illesa (entrambe sedute nei sedili contrassegnati da una A rossa).

Ai volatili non è andata meglio: poco dopo l’incidente, nei pressi del punto di decollo, sparsi in un area di 8000 metri quadrati, vengono ritrovate tra le 75 e le 100 carcasse di storni, che unite a quelle disintegrate dall’impatto con l’aereo e dall’ingestione dei motori, faranno ipotizzare la morte di almeno 150 esemplari. Un migliaio e più di superstiti, non paghi dello scampato pericolo, due settimane dopo si immoleranno su un altro aeroplano in decollo da Boston, che però riuscirà ad uscirne indenne, riuscendo ad interrompere il decollo prima di andare in volo.
I due tronconi dell’aeroplano verranno recuperati il giorno dopo.

Nei due anni successivi il CAB (l’ente preposto all’indagine tecnica, antesignano del NTSB, l’attuale agenzia nazionale per la sicurezza dei trasporti statunitense) indagherà sulle cause dell’incidente con la collaborazione delle case costruttrici dell’aereo e dei motori, avvalendosi di testimonianze, analisi del relitto, fotografie, ecc. Le “scatole nere” infatti (che sono in realtà arancioni) erano state inventate da poco e non erano installate sull’Electra; cominciarono ad esserlo solo pochi anni dopo.
Per ricostruire quello che successe in cabina di pilotaggio, gli investigatori riunirono inoltre i migliori sedici comandanti di L-188A degli Stati Uniti: li misero uno dopo l’altro a bordo del simulatore di volo dell’aereo, li fecero decollare e, senza preavviso, fecero loro le stesse avarie che accaddero allo sfortunato equipaggio dell’N5533.
Non uno di loro riuscì ad evitare lo schianto, evidentemente l’aeroplano in quelle condizioni era incontrollabile. Solo dopo altri tentativi, sapendo oramai quello che li aspettava, alcuni di essi riuscirono a riportare a terra l’aereo, ma tutti uscirono dal simulatore pallidi e sudati come stracci appena centrifugati.
Pur in condizioni relativamente tranquille, nessuno era stato in grado di far meglio di Fitts, Calloway e Hall. Il 5 ottobre del 2019, dopo 59 anni dalla tragedia, Joan Berry tornò a Winthrop per deporre dei fiori in ricordo delle vittime e per ringraziare i ragazzi di allora per averla salvata.
Ad oggi l’incidente dell’Electra è, per gravità, tra i primi cinquanta disastri aerei nella storia degli Stati Uniti ed è il più grave incidente della storia mondiale causato da un impatto con la fauna selvatica.
Dopo l’incidente di Boston, le autorità aeronautiche mondiali presero atto della necessità di testare e certificare i motori aeronautici, per renderli idonei ad affrontare il pericolo rappresentato dall’ingestione di volatili. Negli anni a seguire, altri incidenti ed inconvenienti gravi costringeranno ad ulteriori irrigidimenti delle normative, nonostante l’ammaraggio nell’Hudson del 2009 (reso celebre dal film “Sully”), dimostri che il problema è ben lungi dall’essere risolto. Le statistiche dicono infatti che gli impatti degli aeroplani con la fauna selvatica sono la seconda causa di morte nel mondo aeronautico.
Del resto, se due settimane dopo aver distrutto l’aeroplano in seguito all’impatto con i volatili, il Comandante Chesley B. Sullenberger affermò davanti al Congresso americano che “I volatili non sono un problema per i moderni aerei a reazione”, qualche dubbio sorge sul fatto che i sapiens volanti siano molto più competenti e razionali dei loro colleghi pennuti.
BIBLIOGRAFIA
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